Io, Eva (parte 2)
di
Van88
genere
etero
Dopo quella notte con Serkan, camminavo per Berlino con una nuova consapevolezza. Il mio corpo non era più qualcosa da proteggere, ma uno strumento, una macchina del piacere che avevo appena imparato a guidare. Ero libera, e l'eccitazione era il mio carburante costante.
Entrai nell'ascensore del palazzo, ancora immersa in quel flusso di pensieri. Con me, un uomo sulla quarantina, vestito in modo impeccabile, con una valigetta anonima. Un estraneo totale.
A metà strada, il metallo scricchiolò e ci fermammo. L'ascensore era bloccato. Un piccolo "ping" si fece sentire e la luce tremolò, lasciandoci nell'oscurità più totale, rotta solo dalla flebile luce di emergenza.
Lui imprecò, io sorrisi. Era il destino che mi offriva un palcoscenico.
Non parlai. Mi avvicinai e mi appoggiai alla parete, non timida, ma provocante. Sollevai il ginocchio appoggiando il piede alla parete, di modo che la gonna si alzasse.
L'uomo capì subito. Vide l'invito, e forse anche la follia, nei miei occhi. In meno di un minuto, la sua valigetta era a terra e lui era addosso a me, spinto dall'urgenza e dal brivido del qui e ora. Mi sfilò le mutande e le gettò a terra. Il piacere fu immediato, crudo. I nostri ansimi erano l'unico rumore in quella scatola di metallo. Non c'era amore, non c'era connessione, c'era solo il puro, animale bisogno. Mi sentii riempita dal suo desiderio, un godimento rapido, intenso, che soddisfaceva la mia fame del momento. Sgusciò via da me con la stessa fretta con cui era arrivato, proprio mentre le pareti vibravano.
Sentii il rumore degli attrezzi contro il metallo e le porte che venivano forzate. Una luce abbagliante dopo tutto quel buio. Un uomo, un pompiere che ci liberava dall'ascensore.
L'uomo della valigetta si ricompose in un istante, sistemandosi i vestiti con un'agilità sorprendente, e sgusciò fuori senza dire una parola.
Io, invece, ero ancora seduta a terra, le gambe leggermente divaricate in preda all'ultimo sussulto. Indossavo la gonna, ma ero, inevitabilmente, esposta.
Fissai il soccorritore: un pompiere basso, ma enorme di muscoli e la barba appena accennata. I suoi occhi, stanchi ma penetranti, si posarono su di me, sulle mie gambe, sulla mia nudità. Non c'era giudizio, c'era fame, cruda, potente.
Non parlò, non chiese come stessi. Fece un passo dentro l'ascensore, si voltò e, con un calcio deciso, chiuse di nuovo le porte dietro di sé.
Rimasi paralizzata, ma non dalla paura. Dalla più intensa delle eccitazioni.
Si chinò su di me, un'ombra che mi sovrastava. Il suono dei suoi pantaloni che scendevano fu ovattato dal tessuto spesso. Non li tolse del tutto; li abbassò quanto bastava per liberare la sua virilità.
Era enorme.
Sentii un ruggito sommesso, un suono animale, mentre mi prendeva. La sua dimensione era scioccante, una distensione che mi fece ansimare. Era duro, risoluto, e mi spingeva contro il pavimento freddo dell'ascensore. Il metallo gelido sotto la mia pelle in contrasto con il suo calore e la sua violenza.
Volevo dirgli di andare più forte, volevo implorarlo, ma l'eccitazione era troppa.
"Sì... ti prego" mugugnavo, parole sconnesse che a malapena uscivano. "Riempi... riempimi, ti prego..."
Era una furia. Mi sentivo una bambola di stracci, sballottata e posseduta dalla forza bruta. Ogni spinta mi toglieva il fiato, mi svuotava la testa, lasciando solo la sensazione del suo corpo dentro il mio. Era un piacere che faceva male, che mi portava sull'orlo di un grido isterico.
Quando finì, fu con un ruggito quasi silenzioso. Si ritrasse con la stessa rapidità con cui era entrato, tirandosi su i pantaloni.
Rimasi seduta lì, il corpo scosso da spasmi, le gambe che non riuscivo a chiudere. Il pompiere mi sollevò con una sola mano, riportandomi in piedi, i miei muscoli erano così indolenziti da reggermi a malapena.
Mi aprì di nuovo le porte con un'ironica raccomandazione: "non fidarti degli sconosciuti" e si allontanò per riprendere il suo lavoro, come se avesse appena salvato un gattino da un albero.
Ero lì, in piedi, l'odore di sudore, fumo e del pompiere sulla mia pelle. Ero distrutta, umiliata e profondamente, incredibilmente, soddisfatta. Il vero sesso non era nel controllo, era nell'abbandono totale.
Entrai nell'ascensore del palazzo, ancora immersa in quel flusso di pensieri. Con me, un uomo sulla quarantina, vestito in modo impeccabile, con una valigetta anonima. Un estraneo totale.
A metà strada, il metallo scricchiolò e ci fermammo. L'ascensore era bloccato. Un piccolo "ping" si fece sentire e la luce tremolò, lasciandoci nell'oscurità più totale, rotta solo dalla flebile luce di emergenza.
Lui imprecò, io sorrisi. Era il destino che mi offriva un palcoscenico.
Non parlai. Mi avvicinai e mi appoggiai alla parete, non timida, ma provocante. Sollevai il ginocchio appoggiando il piede alla parete, di modo che la gonna si alzasse.
L'uomo capì subito. Vide l'invito, e forse anche la follia, nei miei occhi. In meno di un minuto, la sua valigetta era a terra e lui era addosso a me, spinto dall'urgenza e dal brivido del qui e ora. Mi sfilò le mutande e le gettò a terra. Il piacere fu immediato, crudo. I nostri ansimi erano l'unico rumore in quella scatola di metallo. Non c'era amore, non c'era connessione, c'era solo il puro, animale bisogno. Mi sentii riempita dal suo desiderio, un godimento rapido, intenso, che soddisfaceva la mia fame del momento. Sgusciò via da me con la stessa fretta con cui era arrivato, proprio mentre le pareti vibravano.
Sentii il rumore degli attrezzi contro il metallo e le porte che venivano forzate. Una luce abbagliante dopo tutto quel buio. Un uomo, un pompiere che ci liberava dall'ascensore.
L'uomo della valigetta si ricompose in un istante, sistemandosi i vestiti con un'agilità sorprendente, e sgusciò fuori senza dire una parola.
Io, invece, ero ancora seduta a terra, le gambe leggermente divaricate in preda all'ultimo sussulto. Indossavo la gonna, ma ero, inevitabilmente, esposta.
Fissai il soccorritore: un pompiere basso, ma enorme di muscoli e la barba appena accennata. I suoi occhi, stanchi ma penetranti, si posarono su di me, sulle mie gambe, sulla mia nudità. Non c'era giudizio, c'era fame, cruda, potente.
Non parlò, non chiese come stessi. Fece un passo dentro l'ascensore, si voltò e, con un calcio deciso, chiuse di nuovo le porte dietro di sé.
Rimasi paralizzata, ma non dalla paura. Dalla più intensa delle eccitazioni.
Si chinò su di me, un'ombra che mi sovrastava. Il suono dei suoi pantaloni che scendevano fu ovattato dal tessuto spesso. Non li tolse del tutto; li abbassò quanto bastava per liberare la sua virilità.
Era enorme.
Sentii un ruggito sommesso, un suono animale, mentre mi prendeva. La sua dimensione era scioccante, una distensione che mi fece ansimare. Era duro, risoluto, e mi spingeva contro il pavimento freddo dell'ascensore. Il metallo gelido sotto la mia pelle in contrasto con il suo calore e la sua violenza.
Volevo dirgli di andare più forte, volevo implorarlo, ma l'eccitazione era troppa.
"Sì... ti prego" mugugnavo, parole sconnesse che a malapena uscivano. "Riempi... riempimi, ti prego..."
Era una furia. Mi sentivo una bambola di stracci, sballottata e posseduta dalla forza bruta. Ogni spinta mi toglieva il fiato, mi svuotava la testa, lasciando solo la sensazione del suo corpo dentro il mio. Era un piacere che faceva male, che mi portava sull'orlo di un grido isterico.
Quando finì, fu con un ruggito quasi silenzioso. Si ritrasse con la stessa rapidità con cui era entrato, tirandosi su i pantaloni.
Rimasi seduta lì, il corpo scosso da spasmi, le gambe che non riuscivo a chiudere. Il pompiere mi sollevò con una sola mano, riportandomi in piedi, i miei muscoli erano così indolenziti da reggermi a malapena.
Mi aprì di nuovo le porte con un'ironica raccomandazione: "non fidarti degli sconosciuti" e si allontanò per riprendere il suo lavoro, come se avesse appena salvato un gattino da un albero.
Ero lì, in piedi, l'odore di sudore, fumo e del pompiere sulla mia pelle. Ero distrutta, umiliata e profondamente, incredibilmente, soddisfatta. Il vero sesso non era nel controllo, era nell'abbandono totale.
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