Tempesta d'estate
di
Ghost Man
genere
etero
Il sole di fine giugno martellava il parabrezza della vecchia Jeep con una luce quasi violenta, dentro l’abitacolo regnava un silenzio ovattato, fatto di sguardi sfuggiti e respiri trattenuti.
Chiara sedeva accanto a Paolo con le ginocchia strette, le dita intrecciate sulle cosce come per trattenere un tremito, un desiderio. Indossava una maglietta di cotone così sottile che, al primo accenno di sudore, si era incollata al petto, disegnando con innocenza la curva appena accennata dei seni. I capezzoli premevano contro il tessuto, piccoli segreti impossibili da nascondere.
Paolo guidava con una mano sola, l’altra appoggiata al cambio, il gomito fuori dal finestrino. La canottiera arrotolata sotto i gomiti rivelava la pelle abbronzata, solcata da vene sottili che pulsavano a ogni movimento.
“Non vedo l’ora di arrivare in cima” sussurrò lei, la voce tremula, come se le parole le fossero sfuggite da sole.
Paolo non rispose. Strinse appena le labbra.
Da sempre lei lo guardava così: con quella luce negli occhi azzurri che sembrava venire da un altro mondo, un posto dove lui non era mai stato… ma dove avrebbe dato qualsiasi cosa per entrare.
L’aria si fece più fresca, carica di resina e silenzio. Chiara abbassò il finestrino e lasciò che il vento le scompigliasse i capelli biondi, le guance arrossate dal sole.
Arrivarono al bivacco poco dopo le nove. Il cielo era limpido, ma a ovest l’orizzonte si era velato di un grigio metallico, quasi impercettibile.
“Dai, partiamo prima che scenda la sera!” disse Paolo, voltandosi con un sorriso.
Il sentiero cominciò a salire, stretto e polveroso, fiancheggiato da pini mughi che sporgevano come braccia protettive.
A un tratto, Chiara inciampò, persa com’era a guardare il panorama. Paolo la afferrò per il gomito. Entrambi trattennero il fiato.
“Stai bene?” le chiese, la voce bassa, quasi un sussurro.
Lei annuì.
Camminarono in silenzio tutto il giorno, i piedi che affondavano nel muschio umido. Le rocce calcaree scintillavano sotto la luce dorata del tramonto, fiammeggiante all’orizzonte.
Fu allora che il primo tuono ruppe il silenzio.
Non un boato, ma un brontolio sordo, lontano, come se la montagna stessa avesse preso fiato. Poi un lampo, breve e accecante.
“Merda” disse Paolo, alzando lo sguardo al cielo.
Poco dopo, il cielo si ruppe.
Non fu un crepuscolo graduale, ma un crollo improvviso, come se qualcuno avesse spento la luce.
Corsero. Non fecero in tempo.
Il vento si alzò di colpo, freddo e tagliente. In pochi minuti la pioggia li investì con violenza, trasformando il sentiero in un fiume di fango e aghi di pino.
Furono fradici in un attimo. Corsero verso uno sperone roccioso, le scarpe pesanti, i vestiti incollati alla pelle. La maglietta di Chiara divenne trasparente, i capezzoli duri, visibili come piccole gemme rosa.
Paolo la precedette, le mani già al lavoro per montare la tenda al buio. Lo fece in pochi minuti, con gesti esperti, mentre lei lo osservava, immobile, il cuore che batteva più forte del tamburellare della pioggia.
“Dentro!” disse lui, la voce bassa, quasi coperta dal frastuono.
La spinse dentro, ansimante, i capelli incollati alla fronte, il petto che si alzava e abbassava con ritmo accelerato.
Poi la zip si chiuse.
“Sei gelata” disse, sfregandole le braccia con le mani.
Fuori, la pioggia martellava la tela della tenda con un ritmo ossessivo, quasi un tamburo tribale che scandiva il tempo. Dentro, l’aria era umida, densa, carica di quell’odore che solo la montagna sa produrre dopo un temporale: resina bagnata, muschio, pelle fredda. Chiara tremava. Non era solo il freddo: era un tremito sottile, che partiva dallo stomaco e si irradiava lungo la schiena, fino alla nuca.
Paolo si voltò.
Lei, rapida, quasi furtiva, si sfilò la maglietta fradicia. Poi i jeans, i calzini zuppi, tutto gettato in un angolo con un gesto goffo. Subito dopo si avvolse nella coperta termica che lui le aveva dato prima di partire: argentata, leggera come un sospiro, ma calda come un abbraccio. La superficie le sfregava la pelle nuda con un fruscio metallico… quasi un sussurro complice.
“Girati un attimo” disse Paolo. La voce più roca del solito.
Lei obbedì. O almeno ci provò.
Ma mentre lui si spogliava, il corpo ancora gocciolante, la luce tremolante della torcia proiettò la sua ombra contro la tela della tenda. E Chiara… sbirciò.
Lo vide in controluce: spalle larghe, torace abbronzato segnato da cicatrici dimenticate, la linea netta dell’addome che scendeva… e più in basso, il membro grosso, venoso, semi-eretto, che oscillava leggermente a ogni movimento.
Le mancò il fiato. Il cuore le martellò nelle orecchie, così forte che temette lui lo sentisse. Un battito che sovrastava persino la pioggia.
“Oddio… scusa!” esclamò, arrossendo fino alla punta delle orecchie, gli occhi spalancati, le mani che stringevano la coperta come se volessero scomparirci dentro.
Paolo non si coprì. Non si voltò. Si fermò. La guardò. E sorrise.
Un sorriso lento. Malizioso. Pieno di complicità.
“Non è giusto” disse, la voce calda, quasi un sussurro. “Adesso tocca anche a me guardare.”
Silenzio.
Solo la pioggia che picchiava sulla tenda. Il gocciolio insistente da un lembo mal teso. Il respiro di entrambi affannato, sospeso.
Chiara lo fissò dritto negli occhi. Non distolse lo sguardo. Sentì il calore salirle dal petto, scendere tra le gambe, fondersi con il freddo residuo della pelle bagnata.
Era spaventata, sì… ma non voleva nascondersi. Non lì. Non con lui.
“Hai paura?” le chiese Paolo, un passo più vicino. Le gocce d’acqua gli scendevano lungo il collo, si infilavano tra i peli del petto, sparivano nel buio tra le sue gambe.
Lei deglutì. “Solo un po’…”
Poi, con una voce che non riconobbe come sua: “Ma voglio accontentarti.”
Paolo non si mosse. La guardò come se volesse imprimersela nella memoria. Ogni lentiggine sul naso. Ogni respiro che le sollevava il petto. Ogni tremore delle dita aggrappate alla coperta.
Allungò una mano e le sfiorò la guancia con il dorso delle dita ancora fredde, ma non abbastanza da spegnere quel fuoco che si era acceso tra loro.
“Non devi accontentarmi” disse piano. “Devi solo… se vuoi.”
Lei chiuse gli occhi.
Annusò: resina. Pioggia. Qualcosa di dolce e maschile che non sapeva descrivere.
Sentì il peso del suo sguardo scendere lungo il collo, posarsi sulle clavicole, poi più in basso dove la coperta si apriva appena, rivelando la curva dei seni, la pelle d’oca che li ricopriva.
Non parlò. Non ce n’era bisogno.
Allungò una mano fuori dalla coperta, tremante, e gli prese il polso. Lo tirò verso di sé.
Lui non resistette.
Si inginocchiò accanto a lei. Le labbra a un soffio dalle sue. Il respiro si mescolò. Il tempo si fermò.
Fuori, il temporale infuriava.
Dentro, tutto era calmo. Tutto era possibile.
Chiara sentì il suo ginocchio premere delicatamente contro il suo. La coperta scivolò un poco di lato, una spalla, poi un fianco, nudi alla luce tremolante della torcia. Paolo non si mosse oltre. Si limitò a guardarla, come se stesse leggendo una storia scritta sulla sua pelle. Poi, con una lentezza che le fece male al cuore, le accarezzò il braccio, risalendo fino alla spalla, fermandosi appena sotto la nuca.
“Sei bellissima così” mormorò. “E tutta tremante…” Rise, una risata bassa, calda, che non feriva.
Lei sorrise appena. Un sorriso fragile. Dietro c’era un ricordo: il primo ragazzo che l’aveva vista nuda, anni prima, e aveva riso. Forse non *di* lei… ma abbastanza da farle giurare che mai più si sarebbe esposta così.
Eppure ora, qui, con Paolo, non c’era vergogna. Solo una vertigine dolce come se stesse per cadere… ma qualcuno l’avesse già presa al volo.
Lui le sfiorò il labbro inferiore con il pollice. “Posso baciarti?”
Lei annuì. Senza aprire gli occhi.
Il bacio arrivò lento. Umido. Profumato di pioggia e di qualcosa di indefinibile, sale, muschio, desiderio trattenuto troppo a lungo. Poi le labbra di Paolo si fecero più insistenti. La lingua cercò la sua con una delicatezza che la fece gemere, un suono basso, involontario, che si perse nel fruscio della tenda.
Chiara si aprì. Si arrese. Si sciolse.
Le mani di lui scivolarono sotto la coperta. Le accarezzarono la schiena, i fianchi, le natiche, ogni tocco una domanda, ogni respiro un sì silenzioso.
Lei gli afferrò i capelli, lo tirò più vicino, sentì il suo pene premere contro la coscia: duro, pulsante, reale.
“Oddio…” sussurrò.
Lui rise piano, contro la sua bocca. “Non aver paura. Non ti farò niente che non vuoi.”
Ma lei lo voleva.
Lo voleva da quando l’aveva visto raccogliere il suo zaino al parcheggio, con quella maglietta troppo stretta che gli disegnava la schiena.
Lo voleva da quando le aveva passato la borraccia, le dita che le sfioravano il palmo, e un brivido le era salito lungo il braccio come una scossa silenziosa.
Lo voleva adesso. Qui. Con la pioggia che li nascondeva al mondo e la coperta che li teneva insieme, nudi e tremanti, sospesi tra il freddo e il caldo, tra il prima e il dopo.
La torcia, appesa all’archetto della tenda, proiettava una luce tremolante che disegnava ombre danzanti sui corpi nudi. Fuori, la pioggia si era ridotta a un tambureggiare sommesso, quasi complice.
“Guardami,” disse lui, aprendo gli occhi.
Lei si lasciò andare indietro, facendo scivolare la coperta sulle anche. La luce le accarezzò i seni, il ventre piatto, il triangolo scuro tra le gambe.
Chiara giaceva supina, il respiro accelerato, la pelle ancora umida di pioggia e sudore, fredda e calda insieme.
Paolo la guardò come se stesse vedendo qualcosa di sacro.
Si chinò su di lei, le mani che scendevano lungo i fianchi con una delicatezza che contrastava con il battito furioso dei loro cuori.
Le labbra trovarono il suo collo. Ne tracciarono la curva con la punta della lingua, lenta, precisa. Poi scesero ai seni, ai capezzoli turgidi che si indurirono ancora al contatto della sua bocca calda. Succhiò piano, quasi con riverenza. Lei inarcò il petto, offrendosi.
Poi più giù. Sempre più giù.
La sfiorò come fosse seta fragile, preziosa ma il suo sguardo diceva altro: voleva strapparla, possederla, fondersi con lei fino a non distinguere più i confini.
Le mani le aprirono le cosce.
Le dita scivolarono tra le pieghe umide della sua intimità, trovando il clitoride già pulsante, gonfio di desiderio trattenuto troppo a lungo.
Lei emise un gemito soffocato, quasi infantile, e si aggrappò a lui.
“Paolo… ti prego…”
Lui non si fece pregare.
La lingua la leccò con una lentezza che era quasi tortura. Partì dalle grandi labbra, leccandole come se stesse assaporando un frutto maturo, succoso, raccolto al momento giusto. Poi risalì, tracciando la fessura con precisione chirurgica, fino a posarsi sul clitoride. Lo succhiò piano. Poi con più pressione. Alternò colpi rapidi a lunghi passaggi lenti che la facevano fremere, inarcare la schiena, affondare le dita nei capelli di lui.
Le gambe si aprirono senza vergogna, senza esitazione.
La leccò come fosse miele selvatico: dolce, raro, raccolto tra le rocce più alte, con pazienza e rispetto.
Lei ansimò, le mani che si aggrappavano alla stuoietta sotto di sé.
“Ahhh… sì…” sussurrò, più un respiro che un suono.
Il tempo si spezzò in mille frammenti. Si aprì come un fiore bagnato: lentamente, con pudore e generosità insieme.
Paolo la leccò, la succhiò, facendola bagnare ancora di più. Lei lo afferrò per i capelli, lo guidò, lo supplicò senza parole.
Le cosce tremavano… ma non si chiusero. Anzi si allargarono, invitanti, supplichevoli.
Lui non smise. Le infilò due dita, piano. Sentì il suo corpo accoglierle con un sospiro profondo, caldo, viscerale. La penetrò con ritmo crescente, mentre la lingua continuava a danzare sul clitoride, precisa, instancabile.
Poi fu il suo turno.
Si mise a cavalcioni su di lui. I capelli biondi le ricadevano sul viso, gli occhi azzurri fissi nei suoi.
Non disse una parola. Non ce n’era bisogno.
Abbassò la testa.
Lo leccò una volta. Due. Con una curiosità che presto divenne fame.
La lingua tracciò la vena lungo il pene, risalì fino alla punta, ci girò intorno, assaggiando il liquido salato che già ne imperlava l’apertura.
Poi lo prese in bocca, non tutto, ma abbastanza da farlo gemere a denti stretti.
“Chiara… cazzo…”
Lei sorrise. Poi tornò a succhiarlo.
Lo fece con una dolcezza sorprendente, quasi materna, ma con una determinazione che lo lasciò senza fiato. Le labbra morbide, la lingua che massaggiava la cappella, la mano che stringeva la base con una pressione appena sufficiente a farlo impazzire. Lo leccò come volesse impararlo a memoria. Ogni centimetro meritava devozione.
Lui le accarezzò i capelli, le dita che si impigliavano nelle ciocche bagnate.
“Sei… incredibile,” riuscì a dire, la voce roca, spezzata.
Lei non rispose. Alzò appena lo sguardo. Lo fissò per un istante. Poi tornò a immergersi in lui più profonda, più sicura.
Lo succhiò con ritmo crescente, alternando suzione e passate lente della lingua, finché il suo respiro non divenne affannoso, i fianchi non cominciarono a muoversi da soli, cercando il fondo della sua gola.
Per un attimo, si staccò.
Poi, con un gesto lento, quasi rituale, gli prese il pene fra le mani e lo massaggiò con movimenti ritmici, come per rassicurarlo…
Riprese a succhiarlo. Ma questa volta con una foga diversa: meno dolce, più urgente. Come se volesse cercare il piacere dentro di lui, non solo darglielo.
Chiara lo prese tutto in bocca, caldo, pieno. Scese profonda, determinata. Sentì i peli pubici contro le labbra, il sapore di lui, ancora umido tra le cosce.
Lui si limitò a stringerle i capelli. A guidarla con dolcezza. A lasciarsi andare al ritmo che lei dettava.
Il mondo fuori poteva crollare.
Ma lì, su quella stuoietta tiepida, c’era solo il suono delle loro bocche, dei loro respiri, del desiderio che si faceva carne.
Fuori, la pioggia cessò del tutto.
Solo il gocciolio da un lembo della tenda rompeva il silenzio.
Fu allora che lui la rovesciò delicatamente sulla schiena. Le ginocchia sollevate verso il petto, il respiro spezzato in piccoli sbuffi umidi che si condensavano nell’aria fredda della tenda.
Il tessuto impermeabile frusciava sotto di loro, ancora bagnato dalla pioggia che aveva martellato il nylon e l’odore di terra umida, muschio e sudore dolce si mescolava al vapore dei loro corpi.
Lei lo guardò. Occhi sgranati, lucidi. Un “sì” che non aveva bisogno di parole.
Paolo non disse nulla. Le mani, calde e ruvide per il freddo, le scivolarono lungo i fianchi. Le dita affondarono nella carne morbida come se volessero marchiarla.
Poi, con un movimento lento ma deciso, la punta del suo pene premette contro di lei. Già bagnata. Già pronta. Aperta come una promessa.
Entrò in lei con la forza di un torrente alpino: impetuoso, freddo all’inizio, poi caldo, inarrestabile.
Lei emise un suono gutturale quasi animale.
“Mmmh… ancora!”
E il ritmo cominciò.
Afferra. Spinge. Sbatte.
Ogni affondo era un colpo di tamburo contro il silenzio della notte, un’eco che rimbalzava tra le pareti sottili della tenda. I fianchi di Paolo si muovevano con una precisione selvaggia, viva come se il suo corpo ascoltasse il battito del cuore di lei e vi danzasse intorno.
Il sudore gli imperlava la fronte, scivolava lungo la tempia, si mescolava alla pioggia residua che gli inumidiva i capelli.
Lei lo sentiva dentro. Ogni centimetro che si faceva strada. Ogni vena che le sfregava il centro del piacere come una carezza fatta di puro istinto.
Lo stringeva con le gambe, con le mani, con tutto il corpo come se temesse che potesse svanire. Come se, senza di lui, il mondo fuori sarebbe tornato troppo vasto, troppo vuoto.
Gli affondava le unghie nelle spalle. Non per fargli male. Per ancorarsi a qualcosa di reale. Di solido. Di vero.
“Ancora… sì… sì… sì…”
Le parole si persero nel frastuono dei respiri, nel crepitio della tenda bagnata, nel battito dei loro cuori ormai all’unisono.
Lui le afferrò i fianchi con più forza, la sollevò appena, cambiò angolazione…
E fu come se avesse trovato un interruttore nascosto dentro di lei.
“Ah! AH!”
Un grido le sfuggì più acuto, incontrollato. Era il corpo che finalmente diceva: *sì, qui, così, adesso*.
Ogni affondo la spingeva più in alto, verso un precipizio che non aveva mai osato guardare.
Il piacere arrivò all’improvviso. Un’onda che la travolse, la scosse, la fece urlare in un modo che non aveva mai immaginato.
Si inarcò. Bocca spalancata in un grido muto. Occhi chiusi. Unghie conficcate nelle spalle di lui.
“Vengo!”
Il corpo si contrasse. Tremò. Si sciolse come cera sotto una fiamma.
Sentì le pareti della vagina stringersi attorno a lui, pulsare, succhiare, come se volessero trattenerlo per sempre.
E forse era proprio quello che voleva: non lasciarlo andare mai più.
Paolo la tenne stretta. Le accarezzò i capelli bagnati con dolcezza.
Poi, un istante dopo, un respiro più tardi, la seguì.
Il suo gemito fu roco, profondo. Sembrava venire da un posto antico, da una parte di sé sepolta sotto strati di silenzi accumulati.
“Vengo…!”
Il calore li inondò entrambi. Un fiotto denso, pulsante, che le colò sul ventre, che li unì in un modo che nessuna parola avrebbe potuto descrivere.
Lo sentì dentro caldo, vivo, reale. E per un attimo, le paure sembrarono dissolversi.
Il sacco a pelo si inzuppò. Ma non importava.
Niente importava, tranne quel momento. Quel respiro condiviso. Quel silenzio che seguì, denso di tutto ciò che non avevano mai detto.
Fuori, la pioggia aveva smesso.
Dentro, il respiro di lei tornò lento. Regolare.
Paolo si staccò con delicatezza, ma non si allontanò. Si sdraiò accanto a lei, il petto che si alzava e abbassava come un mantice esausto.
Lei si girò su un fianco, il viso a pochi centimetri dal suo. Occhi ancora chiusi, labbra socchiuse.
“Non sapevo che potesse essere così…” sussurrò. La voce rotta. Quasi infantile.
Lui non rispose subito. Le prese una mano, intrecciò le dita alle sue. Sentì il battito del polso: ancora accelerato, ma in via di calma.
“Nemmeno io” disse infine. E la sua voce era diversa—più bassa, più vera.
Per un lungo momento, non parlarono.
Ascoltarono il gocciolio dell’acqua lungo il telo della tenda. Il fruscio del vento tra i pini mughi. Il lieve crepitio del sacco a pelo sotto di loro, umido, caldo, vivo.
Lei si avvicinò ancora. Il naso sepolto nella curva del suo collo. Il corpo che si adattava al suo, come se fosse stato fatto per quello, e solo per quello.
Fuori, la luna fece capolino tra le nuvole. Un raggio pallido filtrò attraverso il tessuto traslucido della tenda.
Illuminò per un istante i loro corpi intrecciati: il ventre di lei ancora segnato dal suo seme, le spalle di lui graffiate dalle sue unghie.
E in quel chiarore incerto, si sentì al sicuro. Davvero al sicuro.
Restarono in silenzio.
Un silenzio denso, caldo, avvolgente come il sacco a pelo che li copriva, come il respiro lento di Paolo contro la sua nuca.
Chiara sentiva il battito del suo cuore: regolare ora, quasi rassicurante.
Il sudore si era mescolato alla pioggia residua, al fango secco sulle caviglie, al sapore salato che ancora le aleggiava sulle labbra.
“Forse l’ho provocato io…” pensò, con un guizzo di vergogna.
Ma subito si sciolse in qualcosa di più dolce. “Ma chi non lo avrebbe fatto?”
Era una verità semplice. Nuda come il suo corpo.
E per la prima volta, non le faceva paura.
Si addormentarono così, avvinti, senza pudore, senza fretta. Le gambe intrecciate. Le mani che si cercavano anche nel sonno, come se temessero di perdersi al buio.
Fuori, anche il vento si era calmato. Il mondo sembrava trattenere il fiato.
All’alba, la luce filtrò obliqua attraverso la tela della tenda, dorata, delicata.
Tingeva la pelle di Chiara di un rosa pallido, illuminava i peli biondi sulle sue braccia, disegnava ombre morbide lungo la schiena di Paolo.
Lei aprì gli occhi per prima.
Lo guardò a lungo: il profilo netto, la cicatrice appena visibile sul sopracciglio, le labbra socchiuse nel sonno.
Sentì una tenerezza così intensa da farle male al petto.
Poi lui sorrise, senza aprire gli occhi.
“Lo so che mi stai guardando.”
Lei arrossì. Ma non distolse lo sguardo.
“Ho perso l’innocenza…” sussurrò, la voce roca per il sonno e per tutto ciò che era successo.
Poi, con un sorriso che le illuminò il viso: “…ma ho trovato di più.”
Paolo aprì finalmente gli occhi nocciola, intensi, pieni di una malizia tenera. Le accarezzò i capelli con il dorso della mano, scostandole una ciocca bagnata dalla fronte.
“Adesso però mi devi una spiegazione,” disse. La voce bassa. Giocosa. Ma con una promessa nascosta tra le parole.
Lei rise, una risata leggera, libera. Una risata che non aveva mai sentito uscire da sé.
Fuori, il sole si alzava sul Passo, lavando via la notte, il temporale, ogni traccia di dubbio.
Il ruscello gorgogliava tra i massi. Il muschio brillava di rugiada. L’aria sapeva di resina e nuovo inizio.
Sapevano che oggi sarebbero scesi a valle.
Ma sapevano anche, senza dirlo, che non sarebbe finita lì.
Chiara sedeva accanto a Paolo con le ginocchia strette, le dita intrecciate sulle cosce come per trattenere un tremito, un desiderio. Indossava una maglietta di cotone così sottile che, al primo accenno di sudore, si era incollata al petto, disegnando con innocenza la curva appena accennata dei seni. I capezzoli premevano contro il tessuto, piccoli segreti impossibili da nascondere.
Paolo guidava con una mano sola, l’altra appoggiata al cambio, il gomito fuori dal finestrino. La canottiera arrotolata sotto i gomiti rivelava la pelle abbronzata, solcata da vene sottili che pulsavano a ogni movimento.
“Non vedo l’ora di arrivare in cima” sussurrò lei, la voce tremula, come se le parole le fossero sfuggite da sole.
Paolo non rispose. Strinse appena le labbra.
Da sempre lei lo guardava così: con quella luce negli occhi azzurri che sembrava venire da un altro mondo, un posto dove lui non era mai stato… ma dove avrebbe dato qualsiasi cosa per entrare.
L’aria si fece più fresca, carica di resina e silenzio. Chiara abbassò il finestrino e lasciò che il vento le scompigliasse i capelli biondi, le guance arrossate dal sole.
Arrivarono al bivacco poco dopo le nove. Il cielo era limpido, ma a ovest l’orizzonte si era velato di un grigio metallico, quasi impercettibile.
“Dai, partiamo prima che scenda la sera!” disse Paolo, voltandosi con un sorriso.
Il sentiero cominciò a salire, stretto e polveroso, fiancheggiato da pini mughi che sporgevano come braccia protettive.
A un tratto, Chiara inciampò, persa com’era a guardare il panorama. Paolo la afferrò per il gomito. Entrambi trattennero il fiato.
“Stai bene?” le chiese, la voce bassa, quasi un sussurro.
Lei annuì.
Camminarono in silenzio tutto il giorno, i piedi che affondavano nel muschio umido. Le rocce calcaree scintillavano sotto la luce dorata del tramonto, fiammeggiante all’orizzonte.
Fu allora che il primo tuono ruppe il silenzio.
Non un boato, ma un brontolio sordo, lontano, come se la montagna stessa avesse preso fiato. Poi un lampo, breve e accecante.
“Merda” disse Paolo, alzando lo sguardo al cielo.
Poco dopo, il cielo si ruppe.
Non fu un crepuscolo graduale, ma un crollo improvviso, come se qualcuno avesse spento la luce.
Corsero. Non fecero in tempo.
Il vento si alzò di colpo, freddo e tagliente. In pochi minuti la pioggia li investì con violenza, trasformando il sentiero in un fiume di fango e aghi di pino.
Furono fradici in un attimo. Corsero verso uno sperone roccioso, le scarpe pesanti, i vestiti incollati alla pelle. La maglietta di Chiara divenne trasparente, i capezzoli duri, visibili come piccole gemme rosa.
Paolo la precedette, le mani già al lavoro per montare la tenda al buio. Lo fece in pochi minuti, con gesti esperti, mentre lei lo osservava, immobile, il cuore che batteva più forte del tamburellare della pioggia.
“Dentro!” disse lui, la voce bassa, quasi coperta dal frastuono.
La spinse dentro, ansimante, i capelli incollati alla fronte, il petto che si alzava e abbassava con ritmo accelerato.
Poi la zip si chiuse.
“Sei gelata” disse, sfregandole le braccia con le mani.
Fuori, la pioggia martellava la tela della tenda con un ritmo ossessivo, quasi un tamburo tribale che scandiva il tempo. Dentro, l’aria era umida, densa, carica di quell’odore che solo la montagna sa produrre dopo un temporale: resina bagnata, muschio, pelle fredda. Chiara tremava. Non era solo il freddo: era un tremito sottile, che partiva dallo stomaco e si irradiava lungo la schiena, fino alla nuca.
Paolo si voltò.
Lei, rapida, quasi furtiva, si sfilò la maglietta fradicia. Poi i jeans, i calzini zuppi, tutto gettato in un angolo con un gesto goffo. Subito dopo si avvolse nella coperta termica che lui le aveva dato prima di partire: argentata, leggera come un sospiro, ma calda come un abbraccio. La superficie le sfregava la pelle nuda con un fruscio metallico… quasi un sussurro complice.
“Girati un attimo” disse Paolo. La voce più roca del solito.
Lei obbedì. O almeno ci provò.
Ma mentre lui si spogliava, il corpo ancora gocciolante, la luce tremolante della torcia proiettò la sua ombra contro la tela della tenda. E Chiara… sbirciò.
Lo vide in controluce: spalle larghe, torace abbronzato segnato da cicatrici dimenticate, la linea netta dell’addome che scendeva… e più in basso, il membro grosso, venoso, semi-eretto, che oscillava leggermente a ogni movimento.
Le mancò il fiato. Il cuore le martellò nelle orecchie, così forte che temette lui lo sentisse. Un battito che sovrastava persino la pioggia.
“Oddio… scusa!” esclamò, arrossendo fino alla punta delle orecchie, gli occhi spalancati, le mani che stringevano la coperta come se volessero scomparirci dentro.
Paolo non si coprì. Non si voltò. Si fermò. La guardò. E sorrise.
Un sorriso lento. Malizioso. Pieno di complicità.
“Non è giusto” disse, la voce calda, quasi un sussurro. “Adesso tocca anche a me guardare.”
Silenzio.
Solo la pioggia che picchiava sulla tenda. Il gocciolio insistente da un lembo mal teso. Il respiro di entrambi affannato, sospeso.
Chiara lo fissò dritto negli occhi. Non distolse lo sguardo. Sentì il calore salirle dal petto, scendere tra le gambe, fondersi con il freddo residuo della pelle bagnata.
Era spaventata, sì… ma non voleva nascondersi. Non lì. Non con lui.
“Hai paura?” le chiese Paolo, un passo più vicino. Le gocce d’acqua gli scendevano lungo il collo, si infilavano tra i peli del petto, sparivano nel buio tra le sue gambe.
Lei deglutì. “Solo un po’…”
Poi, con una voce che non riconobbe come sua: “Ma voglio accontentarti.”
Paolo non si mosse. La guardò come se volesse imprimersela nella memoria. Ogni lentiggine sul naso. Ogni respiro che le sollevava il petto. Ogni tremore delle dita aggrappate alla coperta.
Allungò una mano e le sfiorò la guancia con il dorso delle dita ancora fredde, ma non abbastanza da spegnere quel fuoco che si era acceso tra loro.
“Non devi accontentarmi” disse piano. “Devi solo… se vuoi.”
Lei chiuse gli occhi.
Annusò: resina. Pioggia. Qualcosa di dolce e maschile che non sapeva descrivere.
Sentì il peso del suo sguardo scendere lungo il collo, posarsi sulle clavicole, poi più in basso dove la coperta si apriva appena, rivelando la curva dei seni, la pelle d’oca che li ricopriva.
Non parlò. Non ce n’era bisogno.
Allungò una mano fuori dalla coperta, tremante, e gli prese il polso. Lo tirò verso di sé.
Lui non resistette.
Si inginocchiò accanto a lei. Le labbra a un soffio dalle sue. Il respiro si mescolò. Il tempo si fermò.
Fuori, il temporale infuriava.
Dentro, tutto era calmo. Tutto era possibile.
Chiara sentì il suo ginocchio premere delicatamente contro il suo. La coperta scivolò un poco di lato, una spalla, poi un fianco, nudi alla luce tremolante della torcia. Paolo non si mosse oltre. Si limitò a guardarla, come se stesse leggendo una storia scritta sulla sua pelle. Poi, con una lentezza che le fece male al cuore, le accarezzò il braccio, risalendo fino alla spalla, fermandosi appena sotto la nuca.
“Sei bellissima così” mormorò. “E tutta tremante…” Rise, una risata bassa, calda, che non feriva.
Lei sorrise appena. Un sorriso fragile. Dietro c’era un ricordo: il primo ragazzo che l’aveva vista nuda, anni prima, e aveva riso. Forse non *di* lei… ma abbastanza da farle giurare che mai più si sarebbe esposta così.
Eppure ora, qui, con Paolo, non c’era vergogna. Solo una vertigine dolce come se stesse per cadere… ma qualcuno l’avesse già presa al volo.
Lui le sfiorò il labbro inferiore con il pollice. “Posso baciarti?”
Lei annuì. Senza aprire gli occhi.
Il bacio arrivò lento. Umido. Profumato di pioggia e di qualcosa di indefinibile, sale, muschio, desiderio trattenuto troppo a lungo. Poi le labbra di Paolo si fecero più insistenti. La lingua cercò la sua con una delicatezza che la fece gemere, un suono basso, involontario, che si perse nel fruscio della tenda.
Chiara si aprì. Si arrese. Si sciolse.
Le mani di lui scivolarono sotto la coperta. Le accarezzarono la schiena, i fianchi, le natiche, ogni tocco una domanda, ogni respiro un sì silenzioso.
Lei gli afferrò i capelli, lo tirò più vicino, sentì il suo pene premere contro la coscia: duro, pulsante, reale.
“Oddio…” sussurrò.
Lui rise piano, contro la sua bocca. “Non aver paura. Non ti farò niente che non vuoi.”
Ma lei lo voleva.
Lo voleva da quando l’aveva visto raccogliere il suo zaino al parcheggio, con quella maglietta troppo stretta che gli disegnava la schiena.
Lo voleva da quando le aveva passato la borraccia, le dita che le sfioravano il palmo, e un brivido le era salito lungo il braccio come una scossa silenziosa.
Lo voleva adesso. Qui. Con la pioggia che li nascondeva al mondo e la coperta che li teneva insieme, nudi e tremanti, sospesi tra il freddo e il caldo, tra il prima e il dopo.
La torcia, appesa all’archetto della tenda, proiettava una luce tremolante che disegnava ombre danzanti sui corpi nudi. Fuori, la pioggia si era ridotta a un tambureggiare sommesso, quasi complice.
“Guardami,” disse lui, aprendo gli occhi.
Lei si lasciò andare indietro, facendo scivolare la coperta sulle anche. La luce le accarezzò i seni, il ventre piatto, il triangolo scuro tra le gambe.
Chiara giaceva supina, il respiro accelerato, la pelle ancora umida di pioggia e sudore, fredda e calda insieme.
Paolo la guardò come se stesse vedendo qualcosa di sacro.
Si chinò su di lei, le mani che scendevano lungo i fianchi con una delicatezza che contrastava con il battito furioso dei loro cuori.
Le labbra trovarono il suo collo. Ne tracciarono la curva con la punta della lingua, lenta, precisa. Poi scesero ai seni, ai capezzoli turgidi che si indurirono ancora al contatto della sua bocca calda. Succhiò piano, quasi con riverenza. Lei inarcò il petto, offrendosi.
Poi più giù. Sempre più giù.
La sfiorò come fosse seta fragile, preziosa ma il suo sguardo diceva altro: voleva strapparla, possederla, fondersi con lei fino a non distinguere più i confini.
Le mani le aprirono le cosce.
Le dita scivolarono tra le pieghe umide della sua intimità, trovando il clitoride già pulsante, gonfio di desiderio trattenuto troppo a lungo.
Lei emise un gemito soffocato, quasi infantile, e si aggrappò a lui.
“Paolo… ti prego…”
Lui non si fece pregare.
La lingua la leccò con una lentezza che era quasi tortura. Partì dalle grandi labbra, leccandole come se stesse assaporando un frutto maturo, succoso, raccolto al momento giusto. Poi risalì, tracciando la fessura con precisione chirurgica, fino a posarsi sul clitoride. Lo succhiò piano. Poi con più pressione. Alternò colpi rapidi a lunghi passaggi lenti che la facevano fremere, inarcare la schiena, affondare le dita nei capelli di lui.
Le gambe si aprirono senza vergogna, senza esitazione.
La leccò come fosse miele selvatico: dolce, raro, raccolto tra le rocce più alte, con pazienza e rispetto.
Lei ansimò, le mani che si aggrappavano alla stuoietta sotto di sé.
“Ahhh… sì…” sussurrò, più un respiro che un suono.
Il tempo si spezzò in mille frammenti. Si aprì come un fiore bagnato: lentamente, con pudore e generosità insieme.
Paolo la leccò, la succhiò, facendola bagnare ancora di più. Lei lo afferrò per i capelli, lo guidò, lo supplicò senza parole.
Le cosce tremavano… ma non si chiusero. Anzi si allargarono, invitanti, supplichevoli.
Lui non smise. Le infilò due dita, piano. Sentì il suo corpo accoglierle con un sospiro profondo, caldo, viscerale. La penetrò con ritmo crescente, mentre la lingua continuava a danzare sul clitoride, precisa, instancabile.
Poi fu il suo turno.
Si mise a cavalcioni su di lui. I capelli biondi le ricadevano sul viso, gli occhi azzurri fissi nei suoi.
Non disse una parola. Non ce n’era bisogno.
Abbassò la testa.
Lo leccò una volta. Due. Con una curiosità che presto divenne fame.
La lingua tracciò la vena lungo il pene, risalì fino alla punta, ci girò intorno, assaggiando il liquido salato che già ne imperlava l’apertura.
Poi lo prese in bocca, non tutto, ma abbastanza da farlo gemere a denti stretti.
“Chiara… cazzo…”
Lei sorrise. Poi tornò a succhiarlo.
Lo fece con una dolcezza sorprendente, quasi materna, ma con una determinazione che lo lasciò senza fiato. Le labbra morbide, la lingua che massaggiava la cappella, la mano che stringeva la base con una pressione appena sufficiente a farlo impazzire. Lo leccò come volesse impararlo a memoria. Ogni centimetro meritava devozione.
Lui le accarezzò i capelli, le dita che si impigliavano nelle ciocche bagnate.
“Sei… incredibile,” riuscì a dire, la voce roca, spezzata.
Lei non rispose. Alzò appena lo sguardo. Lo fissò per un istante. Poi tornò a immergersi in lui più profonda, più sicura.
Lo succhiò con ritmo crescente, alternando suzione e passate lente della lingua, finché il suo respiro non divenne affannoso, i fianchi non cominciarono a muoversi da soli, cercando il fondo della sua gola.
Per un attimo, si staccò.
Poi, con un gesto lento, quasi rituale, gli prese il pene fra le mani e lo massaggiò con movimenti ritmici, come per rassicurarlo…
Riprese a succhiarlo. Ma questa volta con una foga diversa: meno dolce, più urgente. Come se volesse cercare il piacere dentro di lui, non solo darglielo.
Chiara lo prese tutto in bocca, caldo, pieno. Scese profonda, determinata. Sentì i peli pubici contro le labbra, il sapore di lui, ancora umido tra le cosce.
Lui si limitò a stringerle i capelli. A guidarla con dolcezza. A lasciarsi andare al ritmo che lei dettava.
Il mondo fuori poteva crollare.
Ma lì, su quella stuoietta tiepida, c’era solo il suono delle loro bocche, dei loro respiri, del desiderio che si faceva carne.
Fuori, la pioggia cessò del tutto.
Solo il gocciolio da un lembo della tenda rompeva il silenzio.
Fu allora che lui la rovesciò delicatamente sulla schiena. Le ginocchia sollevate verso il petto, il respiro spezzato in piccoli sbuffi umidi che si condensavano nell’aria fredda della tenda.
Il tessuto impermeabile frusciava sotto di loro, ancora bagnato dalla pioggia che aveva martellato il nylon e l’odore di terra umida, muschio e sudore dolce si mescolava al vapore dei loro corpi.
Lei lo guardò. Occhi sgranati, lucidi. Un “sì” che non aveva bisogno di parole.
Paolo non disse nulla. Le mani, calde e ruvide per il freddo, le scivolarono lungo i fianchi. Le dita affondarono nella carne morbida come se volessero marchiarla.
Poi, con un movimento lento ma deciso, la punta del suo pene premette contro di lei. Già bagnata. Già pronta. Aperta come una promessa.
Entrò in lei con la forza di un torrente alpino: impetuoso, freddo all’inizio, poi caldo, inarrestabile.
Lei emise un suono gutturale quasi animale.
“Mmmh… ancora!”
E il ritmo cominciò.
Afferra. Spinge. Sbatte.
Ogni affondo era un colpo di tamburo contro il silenzio della notte, un’eco che rimbalzava tra le pareti sottili della tenda. I fianchi di Paolo si muovevano con una precisione selvaggia, viva come se il suo corpo ascoltasse il battito del cuore di lei e vi danzasse intorno.
Il sudore gli imperlava la fronte, scivolava lungo la tempia, si mescolava alla pioggia residua che gli inumidiva i capelli.
Lei lo sentiva dentro. Ogni centimetro che si faceva strada. Ogni vena che le sfregava il centro del piacere come una carezza fatta di puro istinto.
Lo stringeva con le gambe, con le mani, con tutto il corpo come se temesse che potesse svanire. Come se, senza di lui, il mondo fuori sarebbe tornato troppo vasto, troppo vuoto.
Gli affondava le unghie nelle spalle. Non per fargli male. Per ancorarsi a qualcosa di reale. Di solido. Di vero.
“Ancora… sì… sì… sì…”
Le parole si persero nel frastuono dei respiri, nel crepitio della tenda bagnata, nel battito dei loro cuori ormai all’unisono.
Lui le afferrò i fianchi con più forza, la sollevò appena, cambiò angolazione…
E fu come se avesse trovato un interruttore nascosto dentro di lei.
“Ah! AH!”
Un grido le sfuggì più acuto, incontrollato. Era il corpo che finalmente diceva: *sì, qui, così, adesso*.
Ogni affondo la spingeva più in alto, verso un precipizio che non aveva mai osato guardare.
Il piacere arrivò all’improvviso. Un’onda che la travolse, la scosse, la fece urlare in un modo che non aveva mai immaginato.
Si inarcò. Bocca spalancata in un grido muto. Occhi chiusi. Unghie conficcate nelle spalle di lui.
“Vengo!”
Il corpo si contrasse. Tremò. Si sciolse come cera sotto una fiamma.
Sentì le pareti della vagina stringersi attorno a lui, pulsare, succhiare, come se volessero trattenerlo per sempre.
E forse era proprio quello che voleva: non lasciarlo andare mai più.
Paolo la tenne stretta. Le accarezzò i capelli bagnati con dolcezza.
Poi, un istante dopo, un respiro più tardi, la seguì.
Il suo gemito fu roco, profondo. Sembrava venire da un posto antico, da una parte di sé sepolta sotto strati di silenzi accumulati.
“Vengo…!”
Il calore li inondò entrambi. Un fiotto denso, pulsante, che le colò sul ventre, che li unì in un modo che nessuna parola avrebbe potuto descrivere.
Lo sentì dentro caldo, vivo, reale. E per un attimo, le paure sembrarono dissolversi.
Il sacco a pelo si inzuppò. Ma non importava.
Niente importava, tranne quel momento. Quel respiro condiviso. Quel silenzio che seguì, denso di tutto ciò che non avevano mai detto.
Fuori, la pioggia aveva smesso.
Dentro, il respiro di lei tornò lento. Regolare.
Paolo si staccò con delicatezza, ma non si allontanò. Si sdraiò accanto a lei, il petto che si alzava e abbassava come un mantice esausto.
Lei si girò su un fianco, il viso a pochi centimetri dal suo. Occhi ancora chiusi, labbra socchiuse.
“Non sapevo che potesse essere così…” sussurrò. La voce rotta. Quasi infantile.
Lui non rispose subito. Le prese una mano, intrecciò le dita alle sue. Sentì il battito del polso: ancora accelerato, ma in via di calma.
“Nemmeno io” disse infine. E la sua voce era diversa—più bassa, più vera.
Per un lungo momento, non parlarono.
Ascoltarono il gocciolio dell’acqua lungo il telo della tenda. Il fruscio del vento tra i pini mughi. Il lieve crepitio del sacco a pelo sotto di loro, umido, caldo, vivo.
Lei si avvicinò ancora. Il naso sepolto nella curva del suo collo. Il corpo che si adattava al suo, come se fosse stato fatto per quello, e solo per quello.
Fuori, la luna fece capolino tra le nuvole. Un raggio pallido filtrò attraverso il tessuto traslucido della tenda.
Illuminò per un istante i loro corpi intrecciati: il ventre di lei ancora segnato dal suo seme, le spalle di lui graffiate dalle sue unghie.
E in quel chiarore incerto, si sentì al sicuro. Davvero al sicuro.
Restarono in silenzio.
Un silenzio denso, caldo, avvolgente come il sacco a pelo che li copriva, come il respiro lento di Paolo contro la sua nuca.
Chiara sentiva il battito del suo cuore: regolare ora, quasi rassicurante.
Il sudore si era mescolato alla pioggia residua, al fango secco sulle caviglie, al sapore salato che ancora le aleggiava sulle labbra.
“Forse l’ho provocato io…” pensò, con un guizzo di vergogna.
Ma subito si sciolse in qualcosa di più dolce. “Ma chi non lo avrebbe fatto?”
Era una verità semplice. Nuda come il suo corpo.
E per la prima volta, non le faceva paura.
Si addormentarono così, avvinti, senza pudore, senza fretta. Le gambe intrecciate. Le mani che si cercavano anche nel sonno, come se temessero di perdersi al buio.
Fuori, anche il vento si era calmato. Il mondo sembrava trattenere il fiato.
All’alba, la luce filtrò obliqua attraverso la tela della tenda, dorata, delicata.
Tingeva la pelle di Chiara di un rosa pallido, illuminava i peli biondi sulle sue braccia, disegnava ombre morbide lungo la schiena di Paolo.
Lei aprì gli occhi per prima.
Lo guardò a lungo: il profilo netto, la cicatrice appena visibile sul sopracciglio, le labbra socchiuse nel sonno.
Sentì una tenerezza così intensa da farle male al petto.
Poi lui sorrise, senza aprire gli occhi.
“Lo so che mi stai guardando.”
Lei arrossì. Ma non distolse lo sguardo.
“Ho perso l’innocenza…” sussurrò, la voce roca per il sonno e per tutto ciò che era successo.
Poi, con un sorriso che le illuminò il viso: “…ma ho trovato di più.”
Paolo aprì finalmente gli occhi nocciola, intensi, pieni di una malizia tenera. Le accarezzò i capelli con il dorso della mano, scostandole una ciocca bagnata dalla fronte.
“Adesso però mi devi una spiegazione,” disse. La voce bassa. Giocosa. Ma con una promessa nascosta tra le parole.
Lei rise, una risata leggera, libera. Una risata che non aveva mai sentito uscire da sé.
Fuori, il sole si alzava sul Passo, lavando via la notte, il temporale, ogni traccia di dubbio.
Il ruscello gorgogliava tra i massi. Il muschio brillava di rugiada. L’aria sapeva di resina e nuovo inizio.
Sapevano che oggi sarebbero scesi a valle.
Ma sapevano anche, senza dirlo, che non sarebbe finita lì.
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