In carcere

Scritto da , il 2021-11-30, genere gay

- Lei sa cos’è la nemesi?
Quando era stato condannato a tre anni e sei mesi di carcere, mai avrebbe immaginato di dover rispondere a una domanda del genere.
Omissione di soccorso, ma lui non si era nemmeno accorto di aver investito quel ciclista, aveva sì sentito un rumore, ma pensava di aver urtato qualcosa di inanimato o, al limite, un animale. E per fortuna non c’erano state gravi conseguenze di ordine fisico, solo escoriazioni e un leggero trauma cranico, niente di grave.
Ma il giudice era stato irremovibile, tre anni e sei mesi.
Marco, ragazzo di buona famiglia, figlio orfano di un noto uomo politico, la madre ricoverata in una clinica privata in preda all’Alzheimer, aveva visto la propria vita andare in frantumi. Perso il lavoro, lasciato dalla fidanzata
- Mi dispiace, ma non posso aspettare tanto tempo, non sarei onesta se ti dicessi il contrario.
Era stato catapultato in una realtà sconosciuta e paurosa, il carcere.
Ce l’avevano portato i carabinieri, dato in consegna alle guardie carcerarie si era dovuto sottoporre ad un’umiliante ispezione corporale ed era stato accompagnato nell’ufficio del direttore che aveva scoperto, con sorpresa, essere una donna.
Il fatto l’aveva in qualche modo rincuorato, una donna forse sarebbe stata clemente con lui, in fondo non era un delinquente, avrebbe fatto appello al suo istinto materno.
Congedata la guardia che lo aveva accompagnato restò in piedi davanti alla scrivania.
La direttrice era una donna sulla cinquantina, bionda, capelli raccolti in una crocchia, un viso che in gioventù doveva essere stato bello, l’espressione severa e due occhi dallo sguardo penetrante che lo osservavano dietro le lenti di occhiali con una montatura fuori moda.
- Lei sa cos’è la nemesi? – la domanda lo colse impreparato.
- Se non lo sa glielo dico io.
Marco, interdetto, allargò le braccia.
- Nemesi è la dea che simboleggia la giustizia. Nella tragedia greca, la nemesi storica fa sì che le colpe dei padri ricadano sui figli.
Marco, sempre più perplesso, la guardò interrogativo.
- Lei è il figlio dell’onorevole Andreolli.
Era un’affermazione, non una domanda, ma lui rispose ugualmente
- Sì ma, come sicuramente saprà, mio padre è morto due anni fa.
La direttrice lo guardò fisso, soppesandolo
- Voglio farle una confidenza… per motivi che non sto qui a spiegarle, suo padre mi ha rovinato la vita. Lui è morto ma il mio odio per lui è ancora vivo.
Marco impallidì. Quelle parole lo misero in grande agitazione, vuoi vedere che questa ora se la prende con me?
- Di solito i detenuti come lei, giovani, capitati qui quasi per sbaglio cerchiamo di non mischiarli ai delinquenti abituali. Purtroppo sa, con il sovraffollamento delle carceri, non credo che potremo rispettare questa regola.
Premette un pulsante sulla scrivania e dopo pochi secondi la porta si aprì e comparve la guardia di prima.
- Lo accompagni in cella.
Prima passarono dal magazzino, gli furono date delle lenzuola e una coperta.
Poi iniziò il percorso di avvicinamento alla destinazione finale, la cella, quella che sarebbe stata la sua dimora nei prossimi anni. Marco era psicologicamente distrutto all’idea di dover essere recluso e terrorizzato al pensiero di chi avrebbe trovato come compagni di cella.
Attraversarono lunghi corridoi illuminati da neon, interrotti da grandi cancellate chiuse a chiave e sbucarono in un ampio locale, all’interno del quale si aprivano le celle.
Il secondino che lo accompagnava si diresse verso una sita proprio al centro, estrasse una chiave, aprì e lo fece entrare.
La cella era vuota.
All’interno quattro brande di cui tre già evidentemente occupate ed una con la sola rete e materasso.
Un cucinino, un tavolo e delle sedie costituivano il resto dell’arredamento. Una porticina semiaperta faceva intravedere una stanzetta con lavandino e tazza.
- Quello è il tuo letto, buona fortuna.
La pesante porta di metallo si richiuse fragorosamente e la doppia mandata gli confermò, qualora ce ne fosse ancora bisogno, il suo stato di detenuto.
Volse lo sguardo intorno, alle pareti foto di donne nude, un calendario ed un poster della Juve - e qui dentro quale altra squadra se non la rubentus - pensò con amara ironia Marco.
Non sapendo cosa fare, passò il tempo preparandosi il letto con le lenzuola che gli erano state date.
Aveva appena finito quando un improvviso clamore provenne dall’esterno. Voci che diventavano sempre più numerose e rumorose.
La porta si spalancò, tre persone entrarono accompagnate dal vociare dei detenuti che rientravano dall’ora d’aria, e immediatamente si richiuse.
Marco li osservò, il primo ad entrare era stato un anziano dall’età indefinibile, potrebbe aver avuto settanta come novant’anni. Fisico minuto, spalle cadenti, radi capelli bianchi, volto rinsecchito. Un vecchio in tutto e per tutto tranne che per un particolare. E che particolare… gli occhi erano quelli di un giovanotto, uno sguardo acuto e indagatore che stava passando Marco ai raggi x.
Gli altri erano due ceffi da galera, uno grande e grosso, sui trent’anni, capelli neri, sopracciglia folte, fronte bassa, un velo nero di barba che arrivava fin oltre gli zigomi. E due paia di ciglia che avrebbero fatto invidia ad una ragazza e contrastavano con tutto il resto dandogli lo sguardo di un cerbiatto nel corpo di un gorilla.
L’altro più vecchio, sui quaranta/quarantacinque, smilzo, biondastro, occhi celesti, slavati. Baffetti in tinta con i capelli, mani macchiate dalla nicotina.
- E tu chi sei? – era stato il vecchio a parlare, gli altri due si limitarono ad osservarlo incuriositi.
- Mi chiamo Marco, sono stato assegnato a questa cella.
Il vecchio, sempre guardandolo fisso, bussò alla porta di ferro e quasi immediatamente lo spioncino si aprì. Un secondino si affacciò. I due confabularono per qualche minuto, poi lo spioncino si richiuse. Il vecchio si voltò sorridendo.
- Bene Marco, benvenuto nella mia modesta dimora, ti presento Santino e Antonio che mi fanno la cortesia di assistermi nelle necessità quotidiane.
La frase fu pronunciata con un tono che lasciò Marco perplesso, come se avesse voluto essere serio ed ironico al tempo stesso. Non sapendo cosa dire rimase in silenzio.
- Santino… è quasi ora di pranzo, metti la pentola sul fuoco e preparaci qualcosa da mangiare, questo bel giovanotto sarà affamato.
Effettivamente Marco che non metteva qualcosa sotto i denti da quasi ventiquattr’ore sentiva lo stomaco borbottare
- Grazie
- Che ragazzo bene educato, sono proprio contento che ti abbiano assegnato qui, siediti pure.
Era sempre il vecchio a parlare, il biondo si limitò a sogghignare, Santino impegnato ai fornelli dava loro le spalle. Marco prese posto accanto al vecchio, che con fare amichevole e confidenziale gli prese una mano tra le sue
- E dimmi, hai una fidanzata che ti aspetta fuori?
A Marco la domanda sembrò strana ma, per educazione, rispose
- No purtroppo mi ha lasciato.
- Eh caro mio, delle donne non ci si può fidare, fattelo dire da me che ho più esperienza.
Il biondo, che, seduto di sghimbescio, sembrava impegnatissimo a nettarsi i denti con uno stecchino, sogghignò nuovamente.
Marco cominciava a sentirsi a disagio, non capiva il senso di tutti quei discorsi e, soprattutto, il vecchio continuava a stringere la mano tra le sue. Avrebbe voluto ritirarla ma non ne ebbe il coraggio.
Per fortuna, ad interrompere quella situazione che cominciava a divenire imbarazzante, arrivò Santino con una zuppiera fumante colma di pasta al sugo.
A Marco non sfuggì il particolare che fu il vecchio ad essere servito per primo, poi venne il suo turno e quindi gli altri due si divisero il resto. Il vecchio continuava a guardarlo e tutti restarono in attesa, solo quando si decise a portare la prima forchettata alla bocca iniziarono a mangiare.
Era chiaro anche per uno sprovveduto come Marco che il vecchio era il capo e gli altri gli portavano rispetto e ubbidivano ai suoi voleri.
Quando ebbero finito, mentre Santino sparecchiava, il vecchio andò a sedersi su una branda e guardando Marco, battè con la mano sulla coperta invitandolo a sedersi accanto a sé.
A malincuore obbedì. Il vecchio tornò a stringergli una mano e con nonchalance se la posò sulla coscia, ricoprendola con la sua.
- Devi sapere che qui l’ambiente è difficile e pericoloso. Troppi drogati, troppa gente col cervello fuso che per uno sguardo è capace di accoltellarti nelle docce. Un bel ragazzo come te poi corre un duplice rischio. Qui purtroppo le donne non possono entrare e tu così caruccio potresti far venire voglia a qualcuno. Non so se mi spiego. Ma sei fortunato, io modestamente qui dentro sono molto rispettato e se si spargesse la voce che sei sotto la mia protezione nessuno avrebbe il coraggio di toccarti.
Marco si rendeva conto dell’ambiguità di quel discorso ma voleva credere con tutto se stesso alla buona fede del vecchio e lo ringraziò.
- Non devi ringraziarmi, lo faccio con piacere e sono sicuro che tu vorrai ricambiare questo favore essendo carino e disponibile con i tuoi compagni di cella, che ne dici?
Marco lo guardò perplesso, non voleva credere che quelle parole significassero proprio quello. Optò per una risposta ambigua e volutamente ingenua
- Certo, sarò ben lieto di dare una mano.
A quelle parole i tre scoppiarono a ridere ed il vecchio aggiunse
- Non ho dubbi, la tua mano ci farà molto comodo…e non solo quella.
Così dicendo spostò con forza inaspettata, nonostante Marco tentasse di opporre resistenza, la sua mano dalla coscia all’inguine e ve la tenne guardandolo con aria di sfida.
Marco cercò di alzarsi ma gli venne impedito da Santino che lo abbrancò per le spalle e lo costrinse a star seduto.
- Cominciamo male, non vorrai dirmi che non vuoi la mia protezione, vero?
- No no, le sarei profondamente grato, ma non capisco cosa voglia da me… non ho mai fatto niente del genere, a me piacciono le donne!
- E a chi non piacciono…ma qui donne non ce ne sono e bisogna arrangiarsi.
Così dicendo si sbottonò i pantaloni e tirò fuori quello che forse una volta era stato un membro maschile, ora diventato una sorta di straccetto pendulo e grinzoso.
Santino lo costrinse a piegarsi in avanti e tenendolo stretto per il collo gli ingiunse
- Grapi sta vucca e sucalo – rivelandosi, erano le prime parole che gli sentiva pronunciare, un fine dicitore della Magna Grecia e dintorni.
Marco si ritrovò con la faccia a diretto contatto col bassoventre del vecchio, teneva gli occhi chiusi, ma un puzzo di urina misto a sudore stantio gli arrivò alle narici nauseandolo.
- Su, non costringere Santino a farti del male, in fondo cosa vuoi che sia, le donne lo fanno sempre e sono contente.
Marco si fece coraggio, aprì la bocca e vi accolse il pendaglio del vecchio, iniziò a succhiare quell’affare molle e dal sapore disgustoso. Non sapeva bene come fare, finì in ginocchio, con la testa affondata tra le cosce magre del vecchio. Continuò così per qualche minuto, finchè da quel
simulacro di fallo fuoriuscirono alcune gocce di un liquido disgustoso che si affrettò a sputare.
Uno scapaccione quasi lo stese per terra
- Unnu fari chiù, ora allicca.
Santino lo costrinse, con la faccia sul pavimento, a raccogliere con la lingua ciò che aveva sputato.
Quando rialzò la testa, con le lacrime agli occhi per l’umiliazione, vide che il vecchio si era ricomposto e si era disteso sulla branda ignorandolo.
Cosa che non fecero gli altri due che gli si posero dinanzi ed estrassero dai pantaloni i loro cazzi.
- Non piangere bel bimbo, abbiamo qui i biberon belli caldi con tanto latte tutto per te.
Questa volta era stato il biondo a parlare mentre gli sbatteva il suo cazzo sulla faccia forzandoglielo in bocca. Questa volta si trattava di un cazzo bello tosto, duro e lungo che gli arrivava fino alle tonsille procurandogli conati di vomito che fortunatamente riuscì a contenere, cercò di fare del suo meglio per farlo venire più in fretta possibile, arrivando a carezzargli le palle e le cosce. Saranno state le sue manovre, sarà stata la probabile astinenza, il biondo durò poco e ben presto gli inondò la bocca col suo sperma. Marco, conscio di quanto avvenuto in precedenza col vecchio, cercò di inghiottire tutto quanto e con grande sforzo, rischiando più volte di vomitare, ci riuscì.
Stravolto si accasciò con la testa tra le mani.
- Basta per favore. Pietà, non ce la faccio più.
Ma Santino non volle sentir ragioni. Lo costrinse a sollevarsi e gli presentò il suo cazzo davanti al viso. Non era di grosse dimensioni, anzi piuttosto piccolo considerata la taglia del proprietario, ma Marco non si sentiva in grado di soddisfare anche lui. Cercò di tenere la bocca chiusa, ma fu costretto ad aprirla quando Santino, infoiato come una bestia, gli strinse con forza il naso impedendogli di respirare.
Si ritrovò il cazzo tra la lingua ed il palato e fu tentato di morderlo. Per sua fortuna riuscì trattenersi dal compiere quello che sarebbe stato un autentico suicidio e con la forza della disperazione portò all’orgasmo anche Santino.
Una volta soddisfatte le loro voglie, anche loro, come in precedenza il vecchio, si disinteressarono di lui e Marco potè andare nel piccolo bagno a sciacquarsi faccia e bocca e poi, con gli occhi bassi, senza avere il coraggio e la voglia di guardare nessuno, si distese sulla sua branda.

Fine.

In realtà, nelle mie intenzioni iniziali, il racconto prevedeva diverse puntate successive, ma mi sono reso conto, rileggendolo, di aver scritto qualcosa che di eccitante ha ben poco, anzi niente. Il triste resoconto di una violenza bruta che non può avere dei credibili sbocchi diversi, per cui preferisco non andare avanti.

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