Secrezioni: "Candidamente tua"

Scritto da , il 2018-08-22, genere etero

Il tramonto si spappola sui terrazzi incatramati, zeppi di antenne, paraboliche e panni stesi ad asciugare, schizzando ovunque il suo arancione acido e malato. L’umidità però rimane ancora ben oltre i livelli di guardia e fissa il calore sulla pelle, spalmandolo come melassa e facendolo evaporare in sudore ad ogni minimo movimento – sia anche il breve spazio da coprire per portarmi alla bocca la cicca, mentre dondolo pigramente sull’amaca assicurata ai pali mangiucchiati dalla ruggine di una veranda sfacciatamente abusiva. Ingollo birra fredda in lattina, cullato ad occhi chiusi dai rumori della strada – grida di venditori di ogni genere alimentare, per lo più, esposto su bancarelle malferme prede di nugoli di mosche e zanzare, ma anche scatarrate di mezzi con la marmitta truccata, urla di ragazzini e delle loro madri, e dei padri-mariti-amanti davanti ai bar, assiepati intorno ai tavolini o in piedi alla porta a mandar giù arachidi e spritz. Di tanto in tanto lavoro a Montecalvario blues, scrivendo sul block notes dello smartphone per non alzarmi a prendere il portatile. Cerco di definire il personaggio di Lucio, il fidanzato di Giorgina (cfr. racconto “La bella Giorgina”), la scena in cui dovrebbe fare la sua comparsa, ma non mi viene fuori niente di decente. Alla fine sto quasi per addormentarmi, quando sento suonare il citofono. Uno due tre volte. Poi un’altra gracchiata, un po’ più lunga. No, non mi alzo. Veronica non può essere, perché è andata via da poco e poi ho visto che ha preso le chiavi. Quindi, chiunque sia, ritenterà la prossima volta. Nemmeno il tempo di riprendere la trama del dormiveglia che bussano alla porta. Prima al campanello, poi con le mani. Insomma, tocca alzarmi.

“Ci sei, allora”, mi fa Linda con un pelo di ostilità, ansimando per i quattro piani di scale. “L’ascensore che la tenete a fare, è sempre guasta”, sacramenta ed entra. Ha entrambe le mani occupate. L’alleggerisco di una borsa termica giallo limone e di una sporta di verdure – prodotti, evidentemente, del suo ultimo hobby: l’orto sinergico -, mentre lei trotterella verso il tavolo della cucina depositandovi sopra una capiente sacca di tela. Indossa una gonna bianca semitrasparente - le si notano le mutandine verdi - e una camiciola azzurra, molto leggera, dalla cui scollatura, generosamente riempita dal seno abbronzato compresso nel push-up, pendono un paio di grosse lenti scure. I capelli freschi di colpi di sole sciolti sulle spalle e i piedi dalle unghie smaltate di azzurro, in pendant con l’ombretto, infilati in un paio di décolleté in sughero con un due dita di tacco, completano il quadro. “Bisogna metterle nella ghiacciaia quelle cose che stanno nella borsa termica. Passamele, altrimenti sono sicura che ci marciscono lì dentro. E poi comunque la borsa devo riportarmela, che mi serve”, dice prendendo vasetti e contenitori di plastica che le passo meccanicamente, senza nemmeno vederne il contenuto.

“Sei in partenza?”, le chiedo passandole l’ultimo vasetto contenente, credo, pesto.

“Sì, andiamo a Palinuro. Cercate di non farla perdere ‘sta roba, che è peccato. Tutte cose genuine dell’orto. Fagliela fare subito la verdura, a Veronica, c’è la verza, la bietola e i ceci sono già cotti, basta riscaldarli. A proposito, è uscita?”

“Sì sì, è ad una festa popolare non-so-dove. E lui dov’è?”, dico distratto.

“Mi sta aspettando giù, davanti al bar, lo sai che non lascia mai incustodita la sua macchina in questo quartiere”, fa Linda, aprendo il frigo e riempiendolo di altra roba.

“M-mm”, annuisco ironico.

“Senza che fai quel verso. Voglio vedere quando vi decidete voi due ad avere un rapporto civile. Non che dobbiate diventare amiconi, ma almeno deporre l’ascia di guerra. Voglio dire, è pur sempre mio marito, e per Veronica è comunque una persona cara e un punto di riferimento. E poi, lui, proprio come me, vuole soltanto il vostro bene e ci soffre nel vedervi così... così campati in aria, e non riesce a starsi zitto. E non ha tutti i torti quando vi critica, magari sbaglia nei modi, ma...”.

“Ecco sì, magari nei modi...”, intervengo acido, accendendo una sigaretta.

“Ma nella sostanza ciò che dice è vero”, prosegue ignorando l’obiezione, lanciata oramai sul suo cavallo di battaglia, “siete così precari, vivete alla giornata senza un progetto. Insomma, Veronica ha il suo lavoro, per quanto ancora precario, ma tu... insomma, tu sei un caso paradossale, da studiare direi. Hai due lauree eppure rimedi lavoracci da quattro soldi, quando li trovi. Se solo avessi un minimo di ambizione e amor proprio, chissà dove arriveresti e quale futuro daresti a mia figlia e...”

“E???”

“E ai vostri figli!”, sbotta esasperata, “Che male c’è a tenerli a conto? È forse un delitto? Invece, non vi ponete proprio, né tu né lei, ad una vita regolare. Insieme siete due sbandati e...”

“Senti, basta!”, la interrompo piccato, “Di grillo parlante me ne basta uno, d’accordo?, e ha già fatto il suo show, quindi per oggi basta. E comunque, se Massimo fosse salito con te, non l’avrei lasciato fuori alla porta” - non fosse altro per godermi la faccia schifata con la quale si sarebbe guardato intorno restando in piedi, non ritenendo meritevole una delle Stefan Ikea per le sue terga rivestite da Armani – “Ti va una birra?”, chiedo poi cambiando discorso e stappandone una. Lei mi fa segno di no con l’indice, visibilmente contrita, e si dirige verso la finestra. Si sporge fuori, fa un ampio gesto col braccio sollevato, come se cercasse l’attenzione di qualcuno, e chiama il suo Massimo – ma con un tono così debole che a stento la sento io. Finisco la birra in due corpose sorsate, rutto poderosamente, spengo la cicca nella lattina e mi sfilo i bermuda che ho infilato prima di andare ad aprire la porta, gettandoli sul tavolo. Quindi mi avvicino alla finestra e le appoggio il pacco gonfio fra le chiappe.

Ha cinquantant’anni suonati, Linda, ma un corpo ancora tonico, temprato dallo sport, dallo yoga, dai massaggi ayuverdici e da un’alimentazione messa a punto su misura dal nutrizionista del momento, senza sgarri di alcun tipo, nemmeno a Pasqua e a Natale le si vede masticare qualcosa che le possa far sbalzare un equilibrio proteico che sembra essere tarato per fare della sua silhouette un’arrizzacazzi deambulante. Mi ha sempre arrapato, Linda, fin dal giorno in cui Veronica me l’ha presentata, un paio di mesi dopo l’inizio della nostra storia. Era, all’epoca, da poco ritornata a nuova vita dopo essere rimasta vedova a 35 anni, a causa di un incidente stradale che le strappò l’amore adolescenziale conservato fino all’altare, cui giunse, gravida di dieci settimane, poco più che ventenne per non subire l’infamia dei paesani, la facile bollatura e i sensi di colpa nei confronti di papà e mamma, che l’avevano allevata secondo i più rigidi dettami dell’ortodossia cattolica. Dopo un lungo periodo di depressione, durante il quale Veronica, non ancora quattordicenne, fu affidata temporaneamente ai nonni paterni, Linda convolò in seconde nozze con l’ing. Massimo De Rosa, responsabile della sede napoletana dell’IBM, realizzando così le mai sopite ambizioni di scalata sociale – lei che veniva dal mondo contadino della provincia più remota del Sannio – congelate, per così dire, dalla devozione a quel fidanzato, poi marito, che conduceva una vita bohemien, fotografo dall’occhio smaliziato con attitudini artistiche, antesignano e mentore a Benevento dei futuri videomakers che adesso proliferano un po’ dappertutto in città, tombeur de femmes incallito – come ammetteva la figlia quando si lasciava andare a ricordi di sfuriate tra i suoi genitori a causa delle presunte infedeltà del padre, il che, per questo come per l’aspetto trasandato e la dedizione ad alcol e sostanze psicotrope di varia natura, a suo dire mi rendeva molto simile a lui, confermando una sua personale teoria, mutuata dagli studi sull’attaccamento di Bowlby e altri, in base alla quale le ragazze tendono a scegliere come partner proiezioni più o meno approssimative delle figure paterne, per poi concludere, nel rilassamento languoroso post-coitale, di essere in dotazione di una massiccia dose di masochismo e autolesionismo, constatate le pene inflitte dalla sua relazione con me, del tutto simili a quelle che affliggevano la madre, scorticata dalla gelosia e dai dubbi sulla fedeltà del suo uomo – ma, allo stesso tempo, padre impeccabile, generoso e affettuosissimo. Durante gli ultimi difficili anni del lutto, prolungati dall’abuso di psicofarmaci che la devastarono nel corpo e nella mente, Linda si legò a Massimo, il quale, a sua volta fresco vedovo, si prese cura di lei come di una bambina malata, accolse la sua fragilità maneggiandola con la delicatezza dovuta ad una porcellana di Capodimonte, gradualmente divenne il suo punto di riferimento, il faro illuminante che sferza le acque procellose col suo fascio di luce indicandole la via della salvezza, le mise a disposizione un mondo di benessere e sicurezze, fatto di oggetti di lusso e domestici, beauty farm e palestre di fitness, ma anche di valori condivisi e mutuo soccorso, un mondo insomma confacente in tutto e per tutto al suo arrivismo di ragazza contadina che sognava da signora, alternando gli Harmony ai classici latini e greci nelle lunghe ore chiusa in camera, protetta e coccolata dalle aspirazioni di genitori che davano sangue e sudore ad una terra aspra e ritrosa e si piegavano dalla fatica per garantire a quella loro figlia così promettente un futuro diverso dal loro, e alla fine, resuscitata dal restyling made in De Rosa, se lo sposò.

Feci la sua conoscenza in qualità di fidanzato ufficiale della figlia in una calda serata di fine maggio, nella location Villa De Rosa, una suntuosa costruzione stile liberty che troneggiava sul cucuzzolo di una collina a pochi chilometri da Benevento, dove si era trasferita dopo il matrimonio. Alla residenza si accedeva attraverso un enorme cancello di ferro battuto che spezzava la continuità del muro di cinta alto almeno quattro metri e ricoperto di rampicanti. Alla guida della Punto di Veronica, decisamente più presentabile della scalcagnata Panda ereditata da mio nonno quando le cataratte non gli consentirono più di distinguere i pedoni che gli fuggivano da sotto le ruote, mi inoltrai per il viale di ghiaia che ad un tratto diventava una biscia ritorta tra sentieri di siepi alte come un uomo di buona statura e curatissime - oltre le quali, a destra come a manca, si aprivano squarci di giardini impreziositi da fontane circolari con l’acqua che zampillava da statue in marmo di divinità mitologiche e che facevano sfoggio di una quantità di piante e fiori tali da dover essere minimo un botanico per riconoscerli e classificarli tutti – mentre Veronica, in elegante tubino nero di stretch smanicato, con le spalle coperte da un foulard rosso, finiva di ricordarmi per l’ennesima volta il galateo da rispettare per la serata e il perimetro della zona rossa dei tabù da non violare nella maniera più categorica. Parcheggiai accanto all’ultimo modello di Audi nello spiazzo antistante le due scalinate in pietra che, incontrandosi sul patio ampio come un trilocale, conducevano al portone d’ingresso. Ad accoglierci sull’uscio c’era Linda, la cui figura, infilata in una gonna nera a pieghe a mezza coscia e in un’aderentissima canottiera bianca – mise decisamente più consona ad un’adolescente che a una donna nel pieno della maturità, se non fosse che chi mi stava di fronte e mi porgeva una mano, gratificata dalla presenza di un trilogy all’anulare, per le presentazioni di rito, la si sarebbe tranquillamente potuta identificare come la sorella maggiore di Veronica - si stagliava nella luce porporina del tramonto che, piovendo morbida da ovest, allungava le nostre ombre, affusolandole, sulla pavimentazione in Pietra di Rapolano del patio. Repressi un moto di nausea per lo sfarzo che ci circondava e per i modi manierati con cui la padrona di casa ci diede il benvenuto, sorrisi e accennai anche un mezzo inchino mentre, ingoffato dal mio completo di lino chiaro recuperato in extremis da un amico, stringevo la destra a Linda e declinavo le mie generalità dichiarandomi onorato dell’invito a cena, sforzandomi di recitare una parte a me stesso ostile per guadagnarmi l’ambita mercede promessami da Veronica se fosse filato tutto liscio.

Fu, infatti, la promessa di un rapporto anale a farmi sopportare la presenza tracotante di Massimo – che ci attendeva nel giardino sul retro della villa, un’enorme area moquettata a prato inglese, nessun filo d’erba fuori posto, protetta ai lati da siepi di eucalipto e sull’estremità, a una cinquantina di passi abbondanti dalla casa, da una corona di cipressi disposti a emiciclo che ombreggiavano la piscina olimpionica con gli angoli arrotondati e attrezzati per l’idromassaggio, sdraio e lettini prendisole sparsi a qualche metro dai bordi, al centro del giardino un gazebo in marmo, con sette colonne intarsiate a reggere la cupola in ferro rivestita di edera, illuminato da faretti disposti in modo tale da presentare nel migliore dei modi l’antipasto di mare che già era in tavola, insieme a due bottiglie di Greco di Tufo che spuntavano ammalianti dai cestelli ghiacciati, mentre il resto della cena attendeva in portavivande d’argento su quattro ruote -, la sua boria, l’arroganza di chi si abroga il diritto di poter dire la propria su ogni argomento in virtù della posizione sociale acquisita e del conto in banca, le movenze affettate tipiche degli arricchiti che tradiscono una ripudiata origine popolare e la cialtroneria con la quale liquidava sul nascere qualsiasi punto di vista che potesse scostarsi dal suo Credo e, soprattutto, la possibilità di infilarlo nel buchetto scuro e grinzoso di Veronica mi inibì da qualsiasi evidente reazione alle occhiate viscide che quel Trimalchione 2.0 rivolgeva alla sua e alla mia donna, nonché a quelle di acritica ammirazione che queste gli rimandavano spompinandogli a due mani l’Ego smisurato. La serata non fu semplice, pertanto, ma comunque passò, complice la disabitudine all’alcol e al gozzovigliare in genere che alla fine stesero il virtuoso anfitrione, scortato prontamente nelle stanze padronali dalla sua chaperon, non prima di avere indicato a Veronica il piano e la camera in cui avremmo pernottato. Rimasti soli, leggendomi nel pensiero, Veronica mi fulminò con occhi grondanti luce e brillantezza, eppure acuminati e penetranti come baionette, al fine di evitare da parte mia qualsiasi commento e, per dare a se stessa la garanzia che nessuna polemica le avrebbe guastato l’umore, comunque ottimo per aver fatto un passo importante e nient’affatto scontato nell’esito, visto i personaggi in gioco, si alzò in piedi, riacquistò dopo un attimo di ebbra incertezza l’equilibrio sui tacchi dei decolleté appuntiti come lapis, incrociò le mani sull’orlo del tubino e, con un movimento leggero e armonico, lo sfilò lentamente dal basso verso l’alto, scoprendo in successione le cosce, il perizoma retato contro cui premeva la macchia scura del pelo, il ventre lievemente arrotondato, i seni nudi, alti, sodi, puntuti, il collo e infine la testa col suo cesto di riccioli dorati. A bocca aperta come un demente, sigaretta in una mano, bicchiere di Or de Jean Martell nell’altra, la vidi genuflettersi fra le mie cosce, tirare giù la lampo e stringere tra le lunghe dita il cazzo già infoiato, massaggiarne per un po’ l’estremità col pollice, titillarne la cappella con la sola punta della lingua, usandola a mo’ di miretta per ridefinirne i contorni gonfi, avvertii il tremore della carne e netta la sensazione dell’orgasmo incipiente, immediatamente percepito da Veronica stessa che si affrettò a ingoiare e succhiare, dettando il ritmo della fellatio con decise strizzate ai coglioni, pesantemente accoccolati nel palmo dell’altra mano, fin quando, ruggendo, non eiaculo l’eiaculabile nell’antro profondo della sua bocca, le cui labbra rimangono serrate ermeticamente al membro palpitante vuotandolo fino all’ultima goccia. Poi si tirò su, mi prese la mano esortandomi ad alzarmi – operazione che eseguii con qualche difficoltà, stordito com’ero da quel pompino d’accademia – e seguii come un automa il suo culo spettacolare, magnificamente ondeggiante sulle gambe tornite accarezzate dalla luna argentata, rotondità di carne senza cedimento alcuno ma sode come succosi frutti maturi. Ci baciammo avidamente sul bordo della piscina, baci violenti, fragorosi come scrosci di pioggia, lingue morse, succhiate, ferite, mentre mi liberavo dei vestiti e lei del perizoma e delle scarpe, e entravamo nell’acqua riscaldata, sedendoci sui gradini nell’angolo idromassaggio, le bolle calde che pungolavano i nostri corpi tesi. Veronica si accoccolò sulle mie gambe stese, il membro di nuovo duro che raspava fra il suo pelo folto, il collo stretto fra le sue braccia, la bocca che smise di baciarmi e mi sussurrò all’orecchio Sei stato bravo, stasera. Eccoti la ricompensa, e subito dopo si voltò, infilò una mano fra le cosce e afferrò il cazzo appuntandolo contro l’ano, poi si calò lentamente manovrandolo come una cloche, trovò l’angolazione buona e forzò l’elastico inglobando il glande. Nei secondi di immobilismo che seguirono assaporai tutta l’intensità di una scarica elettrica che dalla punta del cazzo arrivava a sferzami la radice dei capelli. Trattenni il respiro, contrassi l’addome per ricacciare nei visceri l’impulso ad esplodere di nuovo, e mi concentrai su un piccolo neo della schiena di Veronica, poggiato sulla seconda vertebra come una mosca assassina. Dopo fu la volta della cappella intera, quindi tre dita di carne furono dentro. Mi pareva si sentire l’elastico cedere, microlesionarsi, mentre, mugolando roca, Veronica continuava a calare il culo sul palo fino ad incollare le chiappe al mio ventre. Ci mordemmo entrambi le labbra per non urlare. Scopammo così, immobili, il cazzo piantato nel suo intestino, le sue mani che frenetiche sgrillettavano il clitoride, i respiri sempre più affannosi, fin quando gli spasmi del suo orgasmo impetuoso non contrassero gli sfinteri che presero a succhiarmi letteralmente l’uccello, facendomi esplodere.

Al di là del dopocena, che rese quella serata dai coniugi De Rosa memorabile, comunque non si può dire che feci grande impressione. L’antipatia e l’inconciliabile diversità ideologica tra me e Massimo furono chiare ed evidenti fin dalle prime battute, aleggiarono sulla tavola minacciose come nuvole grigiotopo che promettevano tempesta da un momento all’altro, e non vennero a galla solo grazie ad una escatologica visione a luci rosse del mio destino prossimo futuro in virtù della quale tenni la bocca chiusa per quasi tutto il tempo, dandomi licenza di intervenire soltanto su futilità o per rispondere a domande dirette, ma sempre se esse rimanevano fuori dalla zona rossa perimetrata da Veronica. Tuttavia, tra me e Linda corse subito una strana energia, fin dalla stretta di mano sul patio, e non solo a causa mia, che registrai immediatamente i punti di forza di quel corpo che sembrava venir fuori dai pensieri più lubrici del giovane adulto medio, cresciuto a suon di commedia erotica anni ’70, ma anche lei ci mise del suo, con lo sguardo altrettanto standardizzato della maliarda che adocchia e annusa la presenza ormonale della carne fresca e che, rotta la crosta delle norme civili e religiose, cederebbe, sebbene dopo strenua resistenza, alle lusinghe del novello Edipo. Non ci eravamo simpatici, su questo nulla da obiettare – io odio ancora i suoi modi affettati da parvenu cattoborghese, tutta presa dalla forma e dal decoro di facciata; lei di me ha sempre disapprovato quasi tutto, schifa il mio modo di vivere, mi ritiene un mollaccione, un ozioso privo di ambizioni e, nel complesso, una persona negativa per la figlia, destinata, al contrario, a radiosi orizzonti e che io invece offusco col mio squallore fuligginoso e dilagante – ma Linda in un certo qual modo, ad una certa profondità del suo essere, avevo la sensazione che fosse attratta da quell’ologramma del suo antico amore che mio malgrado finivo per incarnare e che lei, per capriccioso e imponderabile schiribizzo della mente, arricchiva di tutti quegli ingredienti che allo strato superficiale dell’etica comportamentale ripugnava e rubricava come selvatici e immorali, ma che nell’alcova protetta della propria immaginazione trasformava in carne e sangue e istinto e desiderio che la facevano vibrare e tremare come una corda di violino, sprofondandola nel disagio più colpevole allorché si sorprendeva a galleggiare in questa nebulosa di languidi pensieri in mia presenza, come se questi pensieri potessi leggerli attraverso la sua mente di colpo trasparente. La sensazione divenne sempre più certezza nei mesi e negli anni che seguirono quel primo incontro. Più di una volta, specie al mare, quando ci ospitava nella sua magione a Palinuro – o, per meglio dire, nella magione di Massimo – l’ho sorpresa a fissarmi di sbieco e, immaginandomi distratto, a puntare il mio pacco gonfio. Da parte mia, usando tutto il frasario di una grammatica silenziosa ma efficacissima, facevo in modo che lei intendesse che mi attizzava non poco, e più di una volta, negli oziosi e caldi pomeriggi, quando tutti gli ospiti della villa erano sbracati sui letti per la siesta, mi stendevo sull’amaca, al fresco degli ulivi, e come avvertivo la sua presenza in giardino, dove approdava leggera e furtiva come un gatto, in prendisole acquamarina cortissimo, che le lasciava scoperte le spalle e le cosce abbronzatissime, lo tiravo fuori dalle mutande e a occhi chiusi me lo menavo immaginando a cosa pensasse mentre mi guardava, e cosa provasse la milfona golosa di giovane carne dura che, ne ero certo, grattava e urlava sotto il guano di perbenismo che si spalmava addosso come crema solare tutte le mattine – di sicuro non orrore e repulsione, visto che, aprendo leggermente le palpebre, potevo vederla posizionata nella traiettoria migliore, fissarmi per un po’, ritirare lo sguardo e, subito dopo, riposarlo sulla mano stretta intorno al cazzo fino agli schizzi poderosi e abbondanti. Così come me la immaginavo la notte, distesa sveglia accanto al marito sedato dal valium, mentre mi chiavavo forte la figlia nella camera accanto, la testiera del letto che sbatteva violentemente contro la parete che ci divideva, mentre Veronica, rantolando per il piacere, mi implorava senza troppa convinzione di fare più piano, che avrei svegliato i suoi, ovvero sua madre, visto che Massimo sarebbe risorto soltanto alle sei del mattino, pronto per la passeggiata mattutina sulla spiaggia con la consorte, ma l’idea di Linda con l’orecchio teso, turbata dai rumori dell’amplesso al punto da portarsi la mano nelle mutande e sgrillettarsi il clitoride fino a godere mordendosi a sangue il labbro inferiore, mi infoiava ancora di più e ci davo dentro come un matto, il ventre lanciato a briglia sciolta furiosamente contro le chiappe marmoree del mio amore, che alla fine capitolava e si lasciava andare a prolungate grida acutissime, che avrebbero rischiato davvero di svegliare quel grand’uomo del padrone di casa. Fantasie ed episodi, questi, che non mancavo di riversare nei racconti pubblicati su Lupanare, che Linda trafugava ogni mese da casa e che leggeva di nascosto da Massimo – il quale aveva bollato la rivista come merda al primo sguardo -, ben sapendo chi si nascondesse dietro lo pseudonimo col quale erano firmati, ma senza mai pronunciare una sillaba a riguardo, arroccata dietro l’ipocrita convincimento che non è cosa realizzabile in questo mondo che sua figlia si accompagnasse ad un sordido di questa risma, capace di fare della nobile arte della scrittura un mezzo così effimero e balordo, buono a solleticare le voglie di altri perdigiorno e niente più.

Questo era, dunque, il terreno sul quale si innervava il nostro rapporto, fino a quando, due giorni dopo una furiosa lite tra me e Veronica – scaturita dalla scoperta della sua tresca col suo datore di lavor, circostanza che mi fece sbroccare e dare di matto al punto da mollarle uno schiaffone in pieno viso, del quale subito mi pentii ma che contribuì a spostare l’ago delle ragioni e favorì l’esplosione della sua reazione furiosa, che non risparmiò né oggetti personali né il mio orgoglio virile, i primi distrutti contro la parete e il pavimento, il secondo umiliato in virtù delle presunte colpe che mi sarebbero appartenute per non essere in grado di soddisfare appieno le esigenze di donna della mia compagna, le quali non si riducevano certo alla sfera sessuale, ma che richiedevano attenzioni, complicità di altro tipo e, soprattutto, di esclusività e fedeltà (argomento, questo, che trovava qui espressione per la prima volta ma che, negli anni a venire, sarebbe stato affinato e arricchito di altri corollari, macrodiscorso onnipresente sotto il quale rubricare tutti i suoi tradimenti ritorcendomeli contro in quanto indotti e causati da me medesimo, dalle mie mancanze, dalle mie incurie, dalle mie insicurezze, dalla mia assenza, dalla mia infedeltà ecc. ecc.), il tutto urlando e sbraitando, cosa che non facilitava il discorso razionale e teneva lontana la semplice e logica osservazione che col suo capo ci aveva scopato e che pertanto non si era allontanata poi tanto da quella sfera sessuale che recriminava come gabbia del nostro rapporto - in seguito alla quale lei prese una parte della sua roba, la richiuse in due valigie e le portò con sé a casa della madre, Linda si presentò da me. Dritta sull’uscio della porta d’ingresso, il viso contratto in una maschera tragica e gli occhi un po’ gonfi, mi chiese di entrare e fare quattro chiacchiere. Alzai seccato lo sguardo al soffitto, fissando una macchia di umido a forma di farfalla, sbuffai e la feci passare. Linda guadagnò il centro del soggiorno, fece finta di non badare al casino imperante che traboccava da ogni dove, appese alla spalliera di una sedia la cinghia della borsa griffata Prada, rosa shocking e tempestata di brillantini – ennesimo presente del suo Massimo, supposi, probabilmente regalatale in occasione dell’ultima convention dell’IBM, affinché nessuno degli astanti potesse avere dubbi sul glamour della moglie del capo ingegneri -, incrociò le braccia sotto al seno, modellato dalla camicetta bianca D&G, perfettamente aderente sui fianchi di violino – che mai si sarebbe potuta permettere, come tutto il resto della sua mise, d’altra parte, compresi i sandali in suade rosa, identico colore della borsa ovviamente, con la doppia G dorata di Gucci a completare il design a frange, col solo stipendio di professoressa, sebbene di un prestigioso Liceo classico - e mi cercò con lo sguardo mentre mi stravaccavo a cosce larghe sulla poltrona davanti a lei – così da assumere una posa sguaiata provocatoriamente in antitesi alla rigida compostezza della sua – e ingollavo una robusta sorsata di sambuca direttamente dalla bottiglia. Mi asciugai le labbra col dorso della mano, mi rullai una sigaretta di trinciato, l’accesi, sbuffai il fumo di lato e con un’esplicita alzata di mento la invitai a parlare. Non feci gli onori di casa e non le offrii niente, del resto ero sicuro che non avrebbe accettato nemmeno un bicchiere d’acqua. Dalla finestra aperta sul pomeriggio infuocato entravano ovattati e fiacchi i rumori della canicolare controra, particolarmente spietata nei quartieri popolari ad alta densità di umanità e miseria, e il caldo nella stanza faceva sudare anche stando fermi. Linda abbandonò la postura da bodyguard, si lisciò la gonna a fiori rossi su sfondo nero, leggera, morbida come sa esserlo solo un capo di boutique di via del Corso, lunga al ginocchio, dal quale partiva il resto delle gambe abbronzate, lucide, lisce come legno levigato, mi fissò ancora per qualche secondo – notai, appena percepibile, uno spasmo delle labbra a mo’ di disapprovazione o, più probabilmente, di disprezzo -, tirò un sospiro incamerando l’aria cocente e satura, e cominciò.

“Sai perché sono qui?”

“Posso immaginarlo”, grugnii con un gesto di fastidio della mano, disegnando uno svolazzo di fumo con la sigaretta nell’aria immobile, “La bambina è andata a piangere dalla mammina ed eccoti qua. Cos’è, vuoi sculacciarmi?”

“Se sono qui non è certo per questo, né per incolparti di tutto ciò che è successo... Conosco Veronica e so...”

“Cosa sai, eh? Tu non sai un bel niente e se pure sapessi, al tuo solito faresti finta di niente, perché è la facciata ciò che conta, e la merda va tenuta sotto i tappeti. Veronica ti avrà detto ciò che più fa comodo a lei e a te, quindi il tuo punto di vista è parziale e tendenzioso” – e giù un’altra sorsata.

“Non sono qui per giudicare”, ribatté sforzandosi di essere conciliante, “né per distribuire colpe. Per come la vedo io, sbagliate entrambi. Io vorrei solo che vi riconciliaste” – pausa – “O che vi lasciaste definitivamente”, aggiunse.

La guardai sprezzante, spensi la cicca nel posacenere stracolmo e tornai a fissare i suoi occhi lucidi, dello stesso verde foglia della figlia. Bevvi ancora e tacqui.

“Voglio il meglio per entrambi, credimi”, proseguì incoraggiata dal mio silenzio, “È già parecchio che state insieme e siete una bella coppia quando andate d’amore e d’accordo. Ma la vita non è solo feste, divertimenti, ozi... insomma, c’è anche altro. C’è il dovere di trovarsi un lavoro onesto, l’obbligo morale di costruirsi un futuro, di ritagliarsi un posto onorevole nella società. Veronica è questo che vuole e ce la sta mettendo tutta, ha vinto un concorso importante, anche se al momento il contratto è ancora determinato, ma a fatica si sta tracciando una strada che è quella giusta. Al momento opportuno vorrà una famiglia, ma per tutto questo ha bisogno di un uomo accanto che abbia pari ambizioni, stessi valori, stessi obiettivi. Che c’è di male in questo, me lo spieghi? Perché non ti moduli sulla sua stessa frequenza d’onda e non ti dai da fare, ti cerchi un lavoro degno di questo nome, metti a frutto decentemente i talenti che pur hai, come tutti?”

“Perché non mi modulo sulla stessa frequenza d’onda?”, sbottai imbufalito, “Ma come diamine parli? Da dove tiri un’espressione così priva di senso? E, soprattutto, come fai ad adottare sempre il punto di vista dello struzzo, a guardare le cose e a volerle giudicare sempre con la testa sotto alla realtà? Mi stai dicendo che Veronica è avviata sulla retta via e che io le sono a rimorchio, la palla d’acciaio legata alla sua caviglia? Veronica ha vinto un concorso pubblico di un certo rilievo? Certo, come no” – sorrisi amaro cercando di calmarmi.

“Ripeto, voglio solo che entrambi vi diate una calmata e insieme cerchiate di sistemarvi. Cosa aspettate, dico, a mettere la testa a posto e ad essere affidabili l’uno per l’altra? Ma soprattutto tu, te lo dico da mamma, devi darti una mossa, cambiare per il bene tuo e di Veronica, cercare di essere più pratico, serio... sì, insomma, affidabile”.

“Affidabile come tuo marito?”, risi sarcastico.

“Cosa c’entra Massimo, adesso?”, si irrigidì, poi riprese subito il controllo, “A parte che stiamo parlando di un uomo maturo, che ha il doppio dei tuoi anni, per cui dovresti portargli rispetto a prescindere, Massimo è un monumento alla serietà e all’affidabilità, uno che si è dato da fare da subito, che ha studiato e lavorato sodo senza avere grilli per la testa o velleità di vario tipo, che con l’impegno e la pervicacia è arrivato ai vertici di un’azienda importantissima, che ha cresciuto tre figli e accudito fino alla fine la moglie, fino a quando il cancro non se l’è presa, povera Chiara, e che altrettanto fa adesso con me e Veronica, si prende cura di noi, lo trovi sempre vicino quando hai bisogno, perciò sciacquati la bocca quando parli di lui, intesi? Massimo è il tipo d’uomo di cui ha bisogno ogni donna. Veronica compresa” – le ultime due parole furono sputate velenosamente, con cattiveria malcelata.

“Come no”, commentai acido, umiliato dal paragone con Massimo, “il tipo d’uomo come Rosario, vero?, il grande psichiatra altrimenti noto con l’epiteto Il Viscido, non per altro caro amico di Massimo e del tuo defunto marito” – sapevo di giocare sporco nominando il padre di Veronica, ma ero troppo incazzato e l’alcol e l’ira mi facevano straparlare – “L’amico di famiglia che al momento di bandire un concorso pubblico all’Asl, si è ricordato della figlia del suo vecchio amico tragicamente scomparso, tu hai anche il coraggio di venirmi a parlare di lavoro, onestà, sacrificio, retta via e altre stronzate? La realtà è che tua figlia ha vinto un concorso volgarmente truccato ed è riconoscente al suo mentore facendosi chiavare prona a quattro zampe sul lettino nel suo studio. Ma di che stiamo parlando?!”

Linda si coprì il volto con le mani, scosse il capo più volte, mi implorò di smetterla, ma oramai ero in pieno delirio, completamente fuori controllo. Mi alzai e mi avvicinai a lei, le afferrai i polsi e le piantai gli occhi spiritati nei suoi spaesati. Poi proseguii, con la bava alla bocca: “ Non te l’ha detto questo, la santarellina? Ti ha solo parlato dello schiaffo che le ho dato? Che sono un violento, un ubriacone, un depravato? Non ti ha detto nulla delle sue sedute a pecorina dal Viscido?”

“Smettila, smettila, smettila!”, urlò spingendomi con entrambe le mani, “Veronica meritava quel posto, è preparatissima e lo sai bene. Anche se non ci fosse stato Rosario, avrebbe vinto lo stesso quel concorso. Quanto a Rosario, lo conosco da una vita, è di un’onestà dichiarata, di una moralità cristallina, non avrebbe nemmeno pensato ciò di cui lo stai accusando. Devi solo vergognarti. La tua mente è malata, perversa, pensi solo al sesso. Hai pensieri malati, da maniaco, sporchi come la tua anima”.

Risi sonoramente. “Come suona male la realtà quando non ci si ha dimestichezza, vero? Come sono più confortanti le menzogne e le ipocrisie. Io sono sporco, la mia anima è sporca, mentre la tua e quella di tua figlia sono immacolate, vero? L’anima di tua figlia è sporca quanto la mia, se lo vuoi sapere, e le piace il cazzo e farsi fottere esattamente come a me piace la fica e fottere. Sarà per questo che stiamo insieme, non ci hai pensato? E per te è lo stesso, solo che tu, a differenza nostra, reprimi... ed effettivamente, visto l’uomo che ti sei scelto, non puoi fare altro”, affondai il colpo malignamente.

“Che vuoi dire, stronzo”, gracchiò rossa in viso.

“Ah-ah, vedo che ci siamo sciolte, eh”, dissi avvicinandomi di nuovo e braccandola contro il tavolo.

“Me l’hai strappato di bocca, scusami”, rispose cercando di svicolare e riprendersi il ruolo da gran signora, “È che sei senza rispetto, mi irriti”.

“Ti irrita parlare di sesso? Anche Veronica ha la stessa reazione quando se ne parla in toni espliciti, prevale in lei il pudore della gatta morta, ma il cazzo si accaparra gran parte dei suoi pensieri, puoi giocarci la borsa e le scarpe su questo. Le piace il cazzo, eccome se le piace”, e mi avvicinai di un altro passo fino a sfiorarle la gonna col pacco che gonfiava i bermuda, “e piace anche a te”, aggiunsi in un rantolo.

“Sei ubriaco, meglio che vada via”, disse spingendomi ancora. Stavolta non indietreggiai di un millimetro. Braccata, Linda reagì con calma e tenne botta. “Forse non ci piace il modo con cui parli di certe cose, non t’è mai venuto in mente? Sei morboso, volgare, osceno...”

“Mentre Massimo com’è, eh?”, le sussurrai alitandole sul collo, mentre la mano già si infilava sotto alla gonna in cerca delle mutandine. Che non trovai. Il sesso era nudo, al tatto individuai una striscia di pelo che solcava nel mezzo il Monte di Venere, sotto le labbra glabre e aperte, bagnate come un fiore sotto la pioggia. “Uh-uuuh”, uggiolai, “nemmeno tua figlia, con tutta la sua troiaggine a rimorchio, è mai arrivata a tanto”. Risi di gusto e le infilai dentro un dito, che affondò come in un vasetto di miele lasciato al sole. La situazione, per lei decisamente imbarazzante, ne inibì la reazione, così invece di protestare e fare di tutto per liberarsi, tentò una giustificazione. “Avevo fretta di venire a parlarti, in testa mille pensieri, così dopo la doccia mi sono vestita dimenticandomi le mutande”. Il tono le uscì roco e voluttuoso per gli effetti provocati dal ditalino, le braccia persero la spinta sul mio petto e le ricaddero languide lungo i fianchi. “Lasciami andare adesso”, sospirò, “e facciamo finta che non sia successo niente”.

“Niente?!”, esplosi teatralmente afferrandole la mano dalle unghie fresche di manicure e smaltate di rosso, in civettuolo pendant con le rose della gonna, e guidandola sopra l’erezione che premeva violenta contro i calzoni, “Questo lo chiami niente? Guarda che effetto mi fai, Linda, e anche tu mi pare che hai voglia, no?”

“Non è questo”, sospirò ancora dandosi da fare freneticamente con la zip, “È che non è giusto, sei il compagno di mia figlia... potresti essere mio figlio...” – il cazzo schizzò fuori dalla patta ruggendo e vibrando nell’aria immobile – “e io sono una donna seria e fedele...” – ma la mano ora stringeva e segava la mazza e il collo si abbandonava all’indietro e si offriva alla lingua e alle labbra del maschio infoiato, come un capretto che, dopo tanto scalciare, si arrende alla scure del boia.

“Da quanto non scopi, eh? Da quanto Massimo non inzuppa il suo biscottino in questa ebe degli dei?”, la ghermii provocatoriamente, aggiungendo un altro dito e accelerando il pompaggio nel sua fica sempre più dilatata.

“Aaaaah... al diavolo, stronzo, entrami dentro... entra dentro che non ce la faccio più... fammi vedere se non è solo con le parole che ti sai dar da fare”.

Ci demmo dentro come adolescenti, copulando animalescamente prima sul tavolo – sul quale ululammo come licantropi e che Linda, rischiando di compromettere seriamente il vernis à ongle, quasi scorticò con le unghie al momento dell’esplosione orgasmica che le devastò i visceri, sferzò muscoli e tendini, le inarcò la schiena innaturalmente, come per effetto di una scarica elettrica, prima di farla ricadere di schianto con un tonfo secco sull’impiallacciatura di rovere, per ricevere subito dopo sul ventre, sulla faccia, ahimè!, sulla camicetta D&G, il copioso versamento dei miei testicoli - poi una seconda volta, il tempo di caricarmela su una spalla come un cavernicolo del Pleistocene con la sua preda, in camera da letto - dove assaggiai il suo sesso, dalle labbra ancora indolenzite per la foga selvaggia della penetrazione che ne aveva testate poco prima l’elasticità ancora integra, abbeverandomi a quel favo stillante miele come un assetato a una sorgente, mentre la sua bocca riattivava la circolazione nel cazzo rendendolo di nuovo robusto come un ramo e abile per un’altra galoppata che eseguì da esperta cavallerizza, serrandomi le reni fra le cosce possenti e saltellando col culo sull’asta come una bimba sul tappeto elastico -, infine nel cesso, allorché, impegnata a smacchiare nel lavandino la camicetta dagli schizzi del mio primo orgasmo, mentre mi catechizzava sul fatto che avrei potuto venirle anche dentro, visto che era da anni in menopausa, volle subito verificare da brava professoressa che il monito fosse stato recepito dal recalcitrante alunno, pertanto, divaricando le gambe e chinandosi sugli avambracci puntati sull’orlo del lavabo, fronteggiò con le superbe chiappe l’erezione non ancora doma, stuzzicandola con suadenti ancheggiate, le quali provocarono il nitrito del guerriero e una pecorina che mi mandò in visibilio, completamente fatto dal piacere e infiammato dall’idea incalzante ad ogni affondo che mi stessi chiavando Veronica tra vent’anni, se è vero – come almeno in questo caso fervidamente mi auguravo - che le madri sono lo specchio futuro delle figlie.

Questo, dunque, l’antefatto (cui ne seguirono diversi altri intervallati da più o meno lunghe pause) all’origine del mio intimo accostarmi ai maestosi glutei di Linda, mentre, affacciata alla finestra, cerca di comunicare col marito. Tuttavia, a contatto con l’erezione si irrigidisce, la mano le rimane aperta a mezz’aria, per indicare all’interlocutore 5 minuti, di aspettarla solo 5 minuti, come ripete sillabando a labbra mute, manco il tipo da sotto potesse leggerle il labiale, mentre le mie mani scivolano sotto la gonna carezzandole le cosce sode e calde dal basso verso l’alto, fino al culo massiccio e tosto, pezzo pregiato anche della figlia, ansimandole all’orecchio se il suo uomo si è accorto che le si vedono le mutande in controluce. Poi, educato, faccio capolino da dietro la sua spalla destra, schiacciandomi ancor di più contro il suo corpo, e sfoggiando il miglior sorriso di circostanza saluto con la mano Massimo Il Grande, che se ne sta appoggiato al cofano della sua auto, con il 24 ore tutto spiegazzato in una mano e un fazzoletto di stoffa, con cui si deterge l’ampia fronte, nell’altra. Nel frattempo, la mano non impegnata nell’ipocrita omaggio, non è rimasta inoperosa, ma ha tirato giù le mutandine e adesso un dito è scivolato nel solco sudato e ha raggiunto la valletta già abbondantemente lubrificata, ghermendo le labbra aperte e titillandole il clitoride. Linda reagisce chiudendo le gambe in una morsa che quasi mi procura una frattura e tirandosi indietro di scatto. Si volta e con occhi fiammeggianti e gote avvampate, dopo avermi dato del maiale e rimbrottato – come chiosa al discorso di cui sopra - sul fatto che se avessi avuto tanta ambizione quanta voglia nel cazzo sarei stato certamente qualcuno, mi dice che non abbiamo molto tempo, ma che non può partire senza averne preso un po’, e mentre parla l’ha già tirato fuori dalle mutande, duro e arzillo come un bimbetto al luna park, e con una mano accarezza l’asta e con l’altra saggia la consistenza dei coglioni gonfi, prima di chinarsi quasi a 90 gradi e ingoiare la cappella tumida e violacea, iniziativa che mi fa sospirare e ansimare, sebbene non riesca ad evitare il pensiero che s’interroga su se la maliarda succhiatrice avverta il sapore degli umori della figlia, nel qual caso non devono dispiacerle perché aspira con una voluttà e una forza ansiosa che sembra stiano facendo un repulisti generale dei miei succhi interni. Fortuna che dura poco e, prima che le sbrodi in bocca, si alza e mi dà le spalle, tirandosi sulla groppa la gonna e mostrandomi il culo da cavalla da monta che si ritrova, con il segno bianco del costume stampato su un’esigua porzione delle chiappe color cannella. La dicotomia cromatica m’infoia ancor di più e mi fiondo su di lei con la lancia in resta, puntata contro la potta palpitante che fa capolino da sotto le chiappe.

“Fermo!”, mi intima Linda perentoria, bloccando il cazzo ad un pelo dall’entrata, “Prendi l’altra strada”.

“U-uuuuh”, ululo divertito, “cos’è, stasera è la scadenza trimestrale? Il Divin Trombone si concede?”

“Cretino. È che ho la candida, ci manca solo che la passi a Veronica”, spiega, poi, con sollecitazione: “Muoviti, che il tempo passa...”, e poggia la testa sul bracciolo della poltrona, per scaricare sulla fronte il peso della posizione una volta allargate le natiche con ambo le mani. Il buchetto, come un piccolo muso imbronciato, fa bella mostra di sé e sembra che mi stia invitando strizzandomi l’occhietto. Vorrei dedicarmici con più calma, ma in effetti i 5 minuti sono già trascorsi da parecchio, per cui appunto la cappella contro l’ano grinzoso e spingo. Gli sfinteri riconoscono la carne e vi aderiscono intorno a ventosa, quasi risucchiando il resto del transito che vi scorre dentro lento ma inesorabile, producendo una serie di mugolii da parte di Linda sempre più intensi e acuti. Una volta dentro, col mio ventre incollato alle sue chiappe, comincio a muovermi piano, con un’esasperata lentezza che finisce con lo snervare Linda e farle perdere di vista la notoria compostezza del suo vocabolario. Obiettivo raggiunto, dico tra me sorridendo allorché lei m’invita a chiavarla come si deve, che non è una ragazzina che lo vede per la prima volta, accidenti, e che vuole sentirlo nello stomaco, il mio cazzone, altrimenti cosa diavolo è venuta a fare, a portarmi la spesa? A quel punto non mi faccio pregare oltre, mi tiro un po’ fuori, come a prendere la rincorsa, e glielo spingo dentro con forza prendendo a farmela con furia, mentre con due dita della destra le pompo la fica e con quelle della sinistra le sgrilletto forte e veloce il clitoride, lungo e carnoso come un cazzillo. Urla in maniera inarticolata, adesso, roba incomprensibile che le gorgheggia in gola ed evapora in raschi voluttuosi, quasi inquietanti. Riesco a cogliere solo qualche oscenità diretta alla mia persona. Continuo a fottermela selvaggiamente, mordendomi il labbro per ricacciare l’orgasmo che sento montare nelle viscere. Friziono il suo clitoride forsennatamente, come un giocatore malato alle prese con un gratta&vinci, fin quando, atteso, le mie dita ricevono lo spruzzo abbondante e caldo del suo squirt. Linda crolla sulla seduta della poltrona, con la testa piegata contro il bracciolo, le palpebre tremolanti, la bocca deformata in un ghigno che può essere di dolore come di estasi. La tengo per le chiappe e continuo a fottermela a quel modo, nel culo, i cui sfinteri mi stringono forte il cazzo, fino ad inondarle gli intestini col mio seme rovente.

*

Il cellulare di Linda, lanciato a massimo volume in una sinfonia a me sconosciuta, ci strappa con forza dalla trance lisergica nella quale siamo sprofondati. “Oh cazzo”, sbotta Linda tirandosi su con la forza dei nervi e scrollandosi me di dosso come se fossi uno zainetto, “Massimo!”. Corre verso il tavolo, ravana nella borsa e recupera lo smartphone. La voce gracchiante di Massimo la sento da qua e mi viene da ridere per le scuse in cui si prostra Linda, adducendo un attacco di colite a giustificazione del ritardo.

“Scendo subito, tesoro. Metti pure in moto, che sono già lì”, e chiude la conversazione. Poi si fionda in bagno, lisciandosi gonna e camicia sgualcite e rifacendosi il trucco ad una velocità impensabile per uno dai modi bradipeschi come il sottoscritto.

“Venite a trovarci presto a Palinuro”, mi fa sull’uscio e mi dà un bacio umido sulle labbra stringendomi in una mano la proboscide ancora sgocciolante, “E prendi questi”, aggiunge passandomi una banconota da 100, “per il viaggio”, precisa per spazzar via scuse di natura economica alla nostra puntata nel Cilento. Quindi si volta e scappa via, la borsetta assicurata alla spalla e la borsa termica infilata nel braccio sinistro. Seguo il suo culo imboccare le scale di buon passo, con la gonna che le svolazza dietro ad ogni saltello e il lampo verde delle mutande che si imprime per un’ultima volta sulla retina, prima che scompaia dalla mia vista.

Richiudo la porta e, ciondolante come un automa che abbisogna di una stretta agli arti inferiori, mi dirigo verso la doccia, sfilandomi durante il tragitto la t-shirt dei Motorhead zuppa di sudore.

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