Il calore prohibito 5

di
genere
corna

La macchina si allontana lenta, i fanali posteriori rossi che si dissolvono nella pioggia fine come due gocce di sangue diluito, e io resto ancora lì, la fronte appoggiata al vetro freddo, il respiro che disegna nuvole di condensa, il cappotto aperto sul nulla, le dita ancora dentro di me, bagnate fino al polso del mio stesso squirt, le cosce che tremano come se il piacere non volesse andarsene mai, come se il corpo rifiutasse di tornare alla normalità dopo aver visto Marco scopare Claudia con quella rabbia animale, dopo aver visto il culo perfetto di lei che si contraeva ad ogni affondo, dopo aver sentito il suo urlo ovattato che mi è arrivato dritto al clitoride; e quando l’Audi sparisce dietro l’angolo mi sembra che si porti via anche l’aria, che mi lasci vuota, scavata, con la fica che pulsa ancora a vuoto, con un dolore dolce tra le gambe che è desiderio e gelosia mischiati insieme, così forte che quasi mi piego in due, le ginocchia che cedono, il cuore che sbatte contro le costole come se volesse uscire e correre dietro a loro, supplicare Marco di tornare indietro, di scegliere me, di riempirmi come ha appena riempito lei.
Ma non c’è tempo di crollare.
Dall’altra stanza arriva il colpo di tosse rauco del vecchio, poi la voce stanca, tremolante: «Sofia… Sofia, mi potresti fare il bagno? Mi sento sporco oggi».
E io, ancora con le dita appiccicose del mio piacere, ancora con il sapore amaro della gelosia in bocca, chiudo il cappotto di scatto, tiro giù la gonna di velluto che mi si era appiccicata alle chiappe bagnate, mi passo una mano tra i capelli arruffati e vado, vado come un automa, perché è il mio lavoro, perché è la mia scusa per restare in questa casa, perché è l’unico modo di restare vicino a lui anche quando lui è lontano.
Entro in bagno, l’acqua già scorre calda, il vapore che riempie tutto, che mi si appiccica alla pelle come una seconda pelle di sudore e desiderio; il vecchio è già seduto sul bordo della vasca, la camicia da notte slacciata, il corpo magro, pallido, pieno di macchie dell’età, le gambe penzoloni nell’acqua come rami secchi, e mi sorride con quella dolcezza innocente che mi fa sentire ancora più sporca, ancora più troia, mentre io chiudo la porta, mi inginocchio accanto alla vasca, prendo la spugna e comincio a sfregargli le spalle, il petto, le braccia, ma ogni tocco è un pensiero di Marco, ogni goccia che scivola sulla sua pelle vecchia è una goccia che vorrei vedere scivolare sul torace del figlio, duro, teso, sudato dopo aver scopato.
E quando arrivo più in basso, quando la spugna tocca il suo sesso flaccido, piccolo, accartocciato tra le cosce pallide come un lombrico stanco, qualcosa dentro di me si spezza e si riaccende allo stesso tempo: chiudo gli occhi un secondo solo e rivedo il cazzo di Marco, quel cazzo che conosco centimetro per centimetro, lungo, spesso, sempre un po’ piegato a sinistra quando è al massimo, la cappella larga che diventa viola scuro prima di esplodere, le vene gonfie che pulsano sotto la pelle calda, il peso che mi riempie la bocca, la gola, la fica, il modo in cui mi spacca in due quando entra tutto in un colpo solo; e allora le mie dita, senza che io lo voglia davvero, abbandonano la spugna, si chiudono nude intorno a quel sesso vecchio e inerme, lo insaponano lento, lo accarezzano dalla base alla punta con movimenti lunghi, continui, circolari, come se potessi, con la sola forza del desiderio, trasformarlo, farlo diventare duro, giovane, potente, farlo diventare lui.
Strofino, stringo piano, tiro la pelle raggrinzita verso l’alto e poi verso il basso, il sapone che fa schiuma bianca e densa intorno al glande molle, e nella mia testa è Marco che geme, è Marco che mi afferra i capelli, è Marco che mi dice «più forte, puttana» mentre io lo prendo tutto fino in gola; il vecchio sospira di benessere, crede sia solo cura, solo premura della badante, non sa che ogni passata è una supplica, che ogni cerchio di sapone è un «ti prego, torna», che ogni goccia d’acqua che scivola via è una lacrima di voglia repressa; e più strofino quel cazzo che non reagisce, più la mia fica si contrae violentemente nel vuoto, più sento il mio stesso liquido caldo colarmi lento lungo l’interno coscia, più il respiro mi esce a rantoli che cerco di soffocare mordendomi il labbro fino a sanguinare, perché non posso venire, lui me lo ha proibito, non posso toccarmi, non posso avere sollievo, posso solo lavare il padre pensando al figlio, adorare un sesso morto fantasticando su quello vivo che in questo momento è ancora dentro Claudia, che ancora cola dentro di lei, che ancora le appartiene.
E resto lì, china sulla vasca, le tette che quasi escono dal reggiseno, il culo in aria sotto la gonna, le cosce aperte, la fica che gocciola direttamente sul pavimento di piastrelle, il corpo che trema di un orgasmo che non arriva mai, che è sospeso, trattenuto, punito, perché ho osato sparire per tre giorni, perché ho osato avere un cuore oltre alla fica.
Il vecchio chiude gli occhi, beato, quasi si addormenta nell’acqua che si raffredda.
Io continuo a strofinare, a pregare, a desiderare, a soffrire.Il vecchio finisce il bagno con un sospiro soddisfatto, l’acqua ormai tiepida che scivola via dal suo corpo magro mentre lo avvolgo nell’accappatoio, lo aiuto a uscire dalla vasca con le gambe tremanti, le mie, non le sue, perché dentro di me c’è ancora quel fuoco che brucia, quel vuoto che urla, quel desiderio che mi sta mangiando viva dopo aver lavato il padre pensando al figlio, dopo aver strofinato quel sesso morto immaginando quello vivo di Marco che in questo momento è ancora dentro Claudia, che le ha appena riempito la fica perfetta, che le ha dato tutto quello che a me ha negato.
Lo asciugo piano, gli passo la spugna sulle spalle, sul petto, ma la voce dolce, «adesso la porto in cucina, signor Giovanni, le preparo un caffè caldo», e lui annuisce beato, ignaro, con quel sorriso da bambino vecchio che mi fa sentire ancora più sporca mentre lo accompagno passo dopo passo verso la cucina, il braccio sotto il suo, il corpo di lui che si appoggia a me, pesante e fragile insieme.
Ma prima di uscire dal bagno, mentre lui è di spalle che cerca le ciabatte, io apro il cassetto sotto il lavandino, prendo la prima cosa che vedo: il manico lungo e spesso dello scopino del water, di legno liscio, freddo, duro, perfetto, lo passo veloce sotto l’acqua calda per togliere ogni traccia, lo asciugo con l’asciugamano e, senza pensarci due volte, con il cuore che mi sbatte in gola, mi alzo la gonna di velluto nero fino alla vita, mi abbasso le mutandine fradice fino alle ginocchia e me lo infilo dentro in un colpo solo, lento ma deciso, tutta la lunghezza, fino a sentire la base larga premere contro le labbra gonfie, il freddo che diventa subito caldo dentro di me, più lungo, più rigido, più osceno.
Un gemito mi sfugge dalla gola, lo soffoco mordendomi il labbro, tiro su le mutandine per tenerlo fermo, abbasso la gonna, e già sento ogni passo che lo sposta dentro di me, che lo spinge più a fondo, che mi fa tremare le cosce.
Lo accompagno in cucina, lenta, passo dopo passo, il manico che sbatte contro le pareti della fica a ogni movimento, che preme sul clitoride quando mi fermo, che mi fa colare il liquido caldo lungo le gambe mentre gli preparo la sedia, gli sistemo il cuscino dietro la schiena, gli verso il caffè con mano tremante.
Mi siedo di fronte a lui, le gambe larghe sotto il tavolo, la gonna tirata su quel tanto che basta, e comincio a strusciarmi, piano, prima contro il bordo della sedia di legno, poi contro lo spigolo del tavolo, poi contro il bracciolo, il bacino che ondeggia in avanti e indietro, lento, continuo, come se stessi solo sistemandomi, come se stessi solo cercando una posizione comoda, mentre parlo con lui con la voce rotta, «allora signor Giovanni, ha dormito bene stanotte? vuole un po’ di zucchero in più? il pane è caldo, lo prenda pure», e ogni parola è un ansito trattenuto, ogni sorriso è una smorfia di piacere, ogni movimento è una scopata segreta con quell’oggetto duro che mi riempie, che mi spacca, che mi fa impazzire.
Il vecchio parla, della televisione, del vicino, del tempo, e io annuisco, «sì… certo… ha ragione…», mentre sotto il tavolo mi strofino più forte, il clitoride che sbatte contro il legno, il manico che entra ed esce di pochi millimetri a ogni spinta del bacino, la fica che si contrae spasmodica, che squirta piano dentro le mutandine, che cola sul pavimento, e io serro le labbra, mi mordo la lingua, stringo il bordo del tavolo con le unghie, perché sto venendo, sto venendo forte, in silenzio, davanti a lui, mentre gli passo il piattino dei biscotti, mentre gli sorrido dolce, mentre dentro di me urlo il nome di Marco, mentre immagino che sia il suo cazzo, non questo pezzo di legno, a scoparmi così, a possedermi così, a farmi tremare così.
E quando l’orgasmo mi travolge, un’onda lunga, silenziosa, devastante, mi piego appena in avanti, appoggio la fronte sul tavolo un secondo, fingendo stanchezza, «scusi… mi è girata un po’ la testa…», e il vecchio mi accarezza la mano con quella sua mano vecchia e rugosa, «riposati pure, Sofia, sei sempre così premurosa», e io sorrido, le lacrime agli occhi dal piacere, la fica che ancora pulsa intorno al manico, il corpo che trema, il respiro spezzato.
E dentro di me, una sola frase, ripetuta come una preghiera oscena:
«Marco…
se solo sapessi quanto sono troia divento
quando tu non ci sei…
quanto mi umilio per sentirti dentro
anche solo per un secondo.»
scritto il
2025-11-28
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