La stanza chiusa. Ep. 2 - la sedia rotta
di
Cantastorie28
genere
tradimenti
Le 11:17. Una sedia cede. Un rumore secco, netto. Un piccolo schianto, come se anche il legno avesse deciso di mollare.
Mi alzai di scatto, la gamba ancora incastrata nel sostegno rotto, la schiena tesa.
«Perfetto,» sibilai tra i denti, «adesso anche i mobili smettono di reggermi.»
Era l’unica sedia comoda della cucina. Quella dove mi sedevo a lavorare. Quella che conosceva il peso delle mie ore.
Guardai il pezzo spezzato, poi lo presi in mano come se potessi incollarci sopra la frustrazione.
Poi accadde qualcosa che non era previsto.
Un rumore alla porta. Un colpo. Due. Poi silenzio.
Aprii.
E Andrea era lì.
«Tutto bene?»
Nessuna fretta nella voce. Solo quel tono… basso, caldo, maschile.
E quel modo di scrutarmi come se già sapesse.
«Solo una sedia rotta,» risposi.
Lui guardò dentro, oltre la mia spalla.
«Serve una mano?»
Esitai.
Una parte di me voleva chiudere subito. Ma un’altra, più sottile, voleva vedere cosa sarebbe successo se avessi detto di sì.
Scostai la porta.
«Entra.»
Andrea attraversò la soglia con naturalezza. Non chiese permesso, ma non fu invadente. Si muoveva come chi non deve chiedere scusa alla propria presenza.
«Questa?»
Indicò la sedia. Poi si inginocchiò accanto, afferrando il sostegno spezzato. Le sue mani forti si muovevano con calma.
Io lo osservavo.
Anche da quella posizione — basso, raccolto — sembrava avere il controllo della scena.
«Può essere riparata, ma ha bisogno di un innesto nuovo. O di essere cambiata.»
«Ha sempre questa visione pragmatica delle cose?»
Lui alzò lo sguardo verso di me.
Lentamente.
E in quel gesto c’era più pericolo che gentilezza.
«Solo quando qualcosa è rotto. E tu…»
Fece una pausa impercettibile.
«…non sembri il tipo da buttare via facilmente.»
Il tu, al posto del lei. Non per caso. Non per disattenzione. Fu una scelta.
Sentii la gola seccarsi. Il ricordo del sogno mi attraversò il ventre come una corrente. Mi mossi verso il piano cucina, cercando di prendere tempo. Ma lui era già in piedi. Vicino. Più vicino di quanto ricordassi.
«Hai dormito?»
La sua voce si abbassò ancora.
Lo fissai. «Poco.»
«Sognato?»
Non risposi.
E lui sorrise, ma non per scherno. Perché sapeva.
Sapeva.
«Sai che il corpo parla anche quando neghiamo.»
«E cosa dice il mio?»
Fece un passo. Non mi toccò. Ma il suo petto era a pochi centimetri dal mio.
«Che stai lottando con qualcosa che già ti abita.»
Lo guardavo. Troppo a lungo. Troppo intensamente. E mi sentii fuori posto.
Con i miei quarantasette anni, la pelle che non era più quella di prima, le curve abbondanti, vere, segnate.
Lui ne aveva trenta. Forse meno. Forse di più — ma comunque il tempo sembrava star dalla sua parte.
Mi venne voglia di fuggire. Non per pudore. Ma per vergogna. Perché desiderarlo a quell’età significava qualcosa che non osavo ancora ammettere.
Come se la fame avesse una data di scadenza.
Come se il desiderio non avesse più diritto a passare da me.
Eppure… c’era. Feroce. Vivo. Inaccettabile.
Restammo così. Fermi. Due corpi trattenuti da fili invisibili.
Poi fui io a spezzare quel momento. Un passo indietro. Uno solo. Ma bastò.
Andrea non insistette. Raccolse il pezzo di legno, lo poggiò sul tavolo.
E, prima di uscire, disse:
«Le cose che si spezzano all’improvviso… non lo fanno mai per caso.»
La porta si richiuse.
E io rimasi lì, con il cuore in gola, senza più sapere se avevo appena evitato qualcosa o se l’avevo solo rimandata.
Mi sedetti sul divano, ancora scalza, le mani vuote in grembo.
Avevo pranzato tardi, come sempre quando le emozioni mi divorano l’appetito.
Il sonno arretrato mi annebbiava la testa.
Chiusi gli occhi solo un istante. Uno.
E invece sprofondai.
Mi rividi lì, nella cucina, con la sedia appena rotta. Solo che, stavolta, mentre mi alzavo, sentivo un dolore improvviso alla caviglia.
Andrea mi era accanto, e prima ancora che potessi lamentarmi, la sua voce si fece ferma, quasi un ordine:
«Siediti.»
Non c’era spazio per il rifiuto. Lo feci.
Lui scomparve per un istante, poi tornò con una pomata in mano.
Sapeva dove fosse. Come se quella fosse casa sua. Come se io… gli appartenessi.
Si inginocchiò davanti a me.
Era estate. Il mio abito leggero sfiorava appena le cosce.
Sotto, solo la pelle. Calda. Viva. In attesa.
Lui aprì il tubetto, versò una quantità generosa di crema tra le dita, poi iniziò a massaggiarmi la caviglia con una delicatezza concentrata, lenta, sensuale.
Le mani erano forti, sicure, decise.
Il tocco risalì poco a poco. Dalla caviglia al polpaccio. Dal polpaccio al ginocchio.
Le sue dita sfioravano l’interno coscia, e io… io aprivo appena le gambe, senza volerlo.
Lui alzò gli occhi.
Mi stava guardando.
Non solo il volto.
Guardava me. Tutta.
Il vestito si era sollevato senza che me ne accorgessi.
Il mio respiro era cambiato.
Lo sentivo mentre saliva, mentre il suo palmo caldo trovava la strada tra le mie cosce, con una lentezza così perfetta da sembrare studiata.
Non parlava.
Mi leggeva.
Quando mi toccò, fu come un’apertura.
Un varco.
Un cedimento del muro che avevo tenuto per anni.
Le sue dita scivolarono dentro il mio sesso, sapendo esattamente come e dove.
Io mi inarcai, i muscoli delle gambe che tremavano, la bocca semiaperta.
Lo guardai.
Lui sorrideva, appena. Come se fosse la cosa più naturale del mondo darmi piacere così.
E io lo lasciai fare.
Senza parole.
Senza più difese.
Senza più tempo.
Mi svegliai di colpo.
Il battito accelerato, la pelle umida, le cosce strette tra loro come se potessero trattenere il ricordo.
Guardai l’orologio. Solo venti minuti.
Un sogno. Solo un sogno. Ma le dita tra le mie gambe sembravano ancora lì.
Mi alzai lentamente, camminando scalza per casa, come se qualcosa dentro di me fosse stato... risvegliato.
E avessi paura che non volesse più dormire.
Mi alzai di scatto, la gamba ancora incastrata nel sostegno rotto, la schiena tesa.
«Perfetto,» sibilai tra i denti, «adesso anche i mobili smettono di reggermi.»
Era l’unica sedia comoda della cucina. Quella dove mi sedevo a lavorare. Quella che conosceva il peso delle mie ore.
Guardai il pezzo spezzato, poi lo presi in mano come se potessi incollarci sopra la frustrazione.
Poi accadde qualcosa che non era previsto.
Un rumore alla porta. Un colpo. Due. Poi silenzio.
Aprii.
E Andrea era lì.
«Tutto bene?»
Nessuna fretta nella voce. Solo quel tono… basso, caldo, maschile.
E quel modo di scrutarmi come se già sapesse.
«Solo una sedia rotta,» risposi.
Lui guardò dentro, oltre la mia spalla.
«Serve una mano?»
Esitai.
Una parte di me voleva chiudere subito. Ma un’altra, più sottile, voleva vedere cosa sarebbe successo se avessi detto di sì.
Scostai la porta.
«Entra.»
Andrea attraversò la soglia con naturalezza. Non chiese permesso, ma non fu invadente. Si muoveva come chi non deve chiedere scusa alla propria presenza.
«Questa?»
Indicò la sedia. Poi si inginocchiò accanto, afferrando il sostegno spezzato. Le sue mani forti si muovevano con calma.
Io lo osservavo.
Anche da quella posizione — basso, raccolto — sembrava avere il controllo della scena.
«Può essere riparata, ma ha bisogno di un innesto nuovo. O di essere cambiata.»
«Ha sempre questa visione pragmatica delle cose?»
Lui alzò lo sguardo verso di me.
Lentamente.
E in quel gesto c’era più pericolo che gentilezza.
«Solo quando qualcosa è rotto. E tu…»
Fece una pausa impercettibile.
«…non sembri il tipo da buttare via facilmente.»
Il tu, al posto del lei. Non per caso. Non per disattenzione. Fu una scelta.
Sentii la gola seccarsi. Il ricordo del sogno mi attraversò il ventre come una corrente. Mi mossi verso il piano cucina, cercando di prendere tempo. Ma lui era già in piedi. Vicino. Più vicino di quanto ricordassi.
«Hai dormito?»
La sua voce si abbassò ancora.
Lo fissai. «Poco.»
«Sognato?»
Non risposi.
E lui sorrise, ma non per scherno. Perché sapeva.
Sapeva.
«Sai che il corpo parla anche quando neghiamo.»
«E cosa dice il mio?»
Fece un passo. Non mi toccò. Ma il suo petto era a pochi centimetri dal mio.
«Che stai lottando con qualcosa che già ti abita.»
Lo guardavo. Troppo a lungo. Troppo intensamente. E mi sentii fuori posto.
Con i miei quarantasette anni, la pelle che non era più quella di prima, le curve abbondanti, vere, segnate.
Lui ne aveva trenta. Forse meno. Forse di più — ma comunque il tempo sembrava star dalla sua parte.
Mi venne voglia di fuggire. Non per pudore. Ma per vergogna. Perché desiderarlo a quell’età significava qualcosa che non osavo ancora ammettere.
Come se la fame avesse una data di scadenza.
Come se il desiderio non avesse più diritto a passare da me.
Eppure… c’era. Feroce. Vivo. Inaccettabile.
Restammo così. Fermi. Due corpi trattenuti da fili invisibili.
Poi fui io a spezzare quel momento. Un passo indietro. Uno solo. Ma bastò.
Andrea non insistette. Raccolse il pezzo di legno, lo poggiò sul tavolo.
E, prima di uscire, disse:
«Le cose che si spezzano all’improvviso… non lo fanno mai per caso.»
La porta si richiuse.
E io rimasi lì, con il cuore in gola, senza più sapere se avevo appena evitato qualcosa o se l’avevo solo rimandata.
Mi sedetti sul divano, ancora scalza, le mani vuote in grembo.
Avevo pranzato tardi, come sempre quando le emozioni mi divorano l’appetito.
Il sonno arretrato mi annebbiava la testa.
Chiusi gli occhi solo un istante. Uno.
E invece sprofondai.
Mi rividi lì, nella cucina, con la sedia appena rotta. Solo che, stavolta, mentre mi alzavo, sentivo un dolore improvviso alla caviglia.
Andrea mi era accanto, e prima ancora che potessi lamentarmi, la sua voce si fece ferma, quasi un ordine:
«Siediti.»
Non c’era spazio per il rifiuto. Lo feci.
Lui scomparve per un istante, poi tornò con una pomata in mano.
Sapeva dove fosse. Come se quella fosse casa sua. Come se io… gli appartenessi.
Si inginocchiò davanti a me.
Era estate. Il mio abito leggero sfiorava appena le cosce.
Sotto, solo la pelle. Calda. Viva. In attesa.
Lui aprì il tubetto, versò una quantità generosa di crema tra le dita, poi iniziò a massaggiarmi la caviglia con una delicatezza concentrata, lenta, sensuale.
Le mani erano forti, sicure, decise.
Il tocco risalì poco a poco. Dalla caviglia al polpaccio. Dal polpaccio al ginocchio.
Le sue dita sfioravano l’interno coscia, e io… io aprivo appena le gambe, senza volerlo.
Lui alzò gli occhi.
Mi stava guardando.
Non solo il volto.
Guardava me. Tutta.
Il vestito si era sollevato senza che me ne accorgessi.
Il mio respiro era cambiato.
Lo sentivo mentre saliva, mentre il suo palmo caldo trovava la strada tra le mie cosce, con una lentezza così perfetta da sembrare studiata.
Non parlava.
Mi leggeva.
Quando mi toccò, fu come un’apertura.
Un varco.
Un cedimento del muro che avevo tenuto per anni.
Le sue dita scivolarono dentro il mio sesso, sapendo esattamente come e dove.
Io mi inarcai, i muscoli delle gambe che tremavano, la bocca semiaperta.
Lo guardai.
Lui sorrideva, appena. Come se fosse la cosa più naturale del mondo darmi piacere così.
E io lo lasciai fare.
Senza parole.
Senza più difese.
Senza più tempo.
Mi svegliai di colpo.
Il battito accelerato, la pelle umida, le cosce strette tra loro come se potessero trattenere il ricordo.
Guardai l’orologio. Solo venti minuti.
Un sogno. Solo un sogno. Ma le dita tra le mie gambe sembravano ancora lì.
Mi alzai lentamente, camminando scalza per casa, come se qualcosa dentro di me fosse stato... risvegliato.
E avessi paura che non volesse più dormire.
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