Latte: La Mia Ossessione per il Seno Gigante di Mia Sorella

di
genere
incesti

Questa sera era incisa a caratteri d'oro nel calendario della mia vita: avrei finalmente conosciuto il mio nipotino, Simone, l'ultimo arrivato, il piccolo miracolo di mia sorella Lorena e di suo marito Daniele. L'attesa era stata lunga e carica di una dolce impazienza; l'idea di stringere quel fagottino di vita, che portava un pezzo della mia famiglia, mi riempiva di una gioia pura, ineffabile.

Lorena era tornata a casa dall'ospedale da qualche giorno e aveva organizzato un piccolo, intimo ricevimento. Non una festa in grande stile, ma un caloroso ritrovo tra i pochi parenti e gli amici più cari, tutti ansiosi di dare il benvenuto ufficiale al nuovo membro del clan. In un certo senso, era un rito di presentazione, un modo per condividere l'immensa felicità che aveva invaso la loro casa.

Ero davvero impaziente. Mentre guidavo, le immagini di mia sorella, raggiante e finalmente madre, si mescolavano a una curiosità quasi febbrile per il viso assonnato e perfetto di mio nipote. Finalmente, giunsi sul vialetto di casa di Lorena e Daniele. Chiusi l’auto e notai subito che non ero l’unico in preda all’entusiasmo: dalle numerose vetture parcheggiate, capii che tutti gli altri invitati erano già arrivati, e l’aria era già vibrante di festa.

Arrivai davanti al portone e suonai. Dopo un brevissimo istante, la porta si aprì e lì c'era lei, Lorena. Il suo viso si illuminò in un sorriso talmente grande e sincero da contagiarmi all'istante. “Ciaooo!” mi salutò con quel tono caldo e familiare che mi era mancato. Contraccambiai il saluto con un abbraccio stretto, sentendo già nell'aria la meravigliosa aura di novità e felicità.

Entrando, salutai Daniele e mi unii al brusio allegro degli altri presenti, ma fu quasi impossibile distogliere lo sguardo da Lorena. Mia sorella aveva sempre avuto un fisico generoso, "burroso" come diceva lei scherzando, ma la gravidanza le aveva lasciato un segno evidente. Qualche chilo in più si era distribuito con una morbidezza nuova su tutto il corpo, accentuandosi in modo spettacolare sul suo seno. Già prima del parto, il seno di Lorena era enorme, ma ora era a dir poco gigantesco, trasformato dalla montata lattea.

Il mio sguardo si fissò inevitabilmente sulla camicetta che indossava. Era di un azzurro pallido, quasi ceruleo, un tessuto leggero e sottile come una garza, forse lino o un cotone molto fine. Il taglio, pensato per un abbigliamento formale, ora era sottoposto a una tensione estrema. La camicetta era così gonfiata, così stirata dalla pressione interna, che sembrava sul punto di cedere in qualsiasi momento. Ogni piega, ogni punto del tessuto contribuiva a malapena a contenere l'esuberanza del suo busto.

Ero particolarmente colpito da come il tessuto così sottile e leggero si tendesse, diventando semi-trasparente in alcuni punti, lasciando intravedere l'ombra discreta di un reggiseno e il contorno delle forme sottostanti. Le asole, in particolare, stavano vivendo una battaglia persa contro il volume. Erano stirate orizzontalmente fino al limite. I piccoli bottoni bianchi sembravano pallottole in attesa di essere sparate, tenuti in sede da un filo di stoffa teso come la corda di un arco. Tra un bottone e l'altro, si formavano delle piccole fessure a forma di sorriso, che si aprivano e chiudevano leggermente a ogni suo respiro, rivelando l'interno e rendendo palese la difficoltà della camicetta nel gestire una simile abbondanza.

Non era un capo di abbigliamento, sembrava una diga fragile costruita per contenere un'ondata. L'impressione generale era che, con un sospiro appena più profondo, o un movimento improvviso, l'intera fila di bottoni potesse saltare con un piccolo schiocco.
Quella camicetta, così in difficoltà, era la dimostrazione visiva della grande trasformazione che aveva vissuto, un simbolo della nuova vita che aveva appena dato. Con un sorriso impaziente, chiesi: "E Simone? Dov'è il mio nipotino?"

"È nella culla, sta dormendo beato," rispose Lorena con un luccichio negli occhi che non lasciava dubbi sulla profondità del suo amore materno. "Ma tra poco si sveglierà per la poppata, e potrai vederlo."

Un sospiro leggero mi sfuggì. L'attesa era quasi insostenibile, ma capivo. Non volevo certo disturbarlo. Decisi di pazientare, anche se il desiderio di stringere quel piccoletto mi pizzicava l'anima. Mi voltai verso la sala, dove l'atmosfera era vivace e allegra. Mi avvicinai a Daniele, che sfoggiava un sorriso stanco ma felicissimo. Ci scambiammo un abbraccio e qualche battuta sulla nuova routine fatta di pannolini e notti insonni.

Poi fu la volta di salutare gli altri. C'erano gli amici più stretti di Lorena e Daniele, facce familiari che non vedevo da un po'. Le conversazioni si accavallavano: chiacchiere sul lavoro, sui progetti futuri, sui ricordi di vecchie serate. Ascoltavo, rispondevo, ma una parte della mia mente rimaneva costantemente ancorata a Lorena.

Non riuscivo a non notarla. Mentre si muoveva con una nuova, dolce lentezza tra gli invitati, offrendo stuzzichini e bevande, la sua figura era un magnete per i miei occhi. La camicetta azzurra continuava a essere il centro della mia involontaria osservazione. Era come un esperimento di fisica in diretta: ogni movimento di Lorena metteva alla prova la resistenza del tessuto. Quando si piegava leggermente per prendere qualcosa dal tavolino, o si girava per rispondere a qualcuno, potevo percepire la tensione che si accumulava.

Le asole non erano più semplici fessure; ora, con il movimento, si aprivano e si chiudevano quasi in un respiro autonomo. I bottoni, quei poveri bottoni, sembravano sul punto di implorare pietà. In particolare, quello esattamente al centro del petto, era i più in difficoltà. Erano così stirati che il filo con cui erano cuciti era visibile, teso come una corda di violino. Si capiva che il tessuto circostante cedeva un po', formando una piccola conca intorno a ogni bottone, come se stessero per strapparsi via dalla stoffa.

Di tanto in tanto, un sospiro più profondo di Lorena, o un braccio che si alzava per sistemare i capelli, causava un ulteriore, infinitesimale aumento di tensione. Era quasi ipnotico. Mi chiedevo se lei stessa si rendesse conto di quanto fosse a rischio la tenuta della camicetta. Non era volgare, affatto; era semplicemente una testimonianza visiva di un cambiamento fisico imponente e naturale. Era una camicetta in lotta, un capo d'abbigliamento che con dignità cercava di assolvere al suo compito, ma che era chiaramente destinato a fallire di lì a poco.

Ricordo un momento in cui si chinò per parlare con una delle amiche sedute sul divano. In quella posizione, la gravità sembrava collaborare con la pressione interna. La camicetta si tese ancora di più, e per un istante, tra due bottoni, si aprì una fessura più ampia del solito, lasciando intravedere una porzione ancora maggiore della pelle chiara e del reggiseno che si indovinava sotto il tessuto quasi trasparente. Poi, si raddrizzò, e il tessuto si ricompose, ma l'immagine di quella tensione estrema mi rimase impressa.

Lorena, ignara della mia (e forse altrui) discreta osservazione, continuava a essere la perfetta padrona di casa, con una serenità che solo la maternità può donare. Parlava, rideva, e io, mentre annuivo e sorridevo alle chiacchiere degli altri, continuavo a fare una sorta di conto alla rovescia silenzioso per quel momento in cui il piccolo Simone si sarebbe svegliato. E forse, nel frattempo, assistevo involontariamente al grande spettacolo della camicetta che combatteva la sua battaglia.

Passarono alcuni minuti, che a me parvero ore. Poi, dall'altra stanza, giunse un suono delicato ma inequivocabile: un piccolo vagito. Il mondo si fermò. Lorena si girò di scatto, un'espressione di gioia e istinto materno che le illuminò il viso.

"Si è svegliato!" disse, e in quel momento. Finalmente, era giunto il momento.

Il piccolo vagito aveva interrotto il chiacchiericcio, portando un silenzio carico di aspettativa. Lorena si mosse con la grazia innata di chi è guidata dall'istinto, il suo sorriso ora velato da una tenera urgenza.

"È ora," sussurrò, e si avviò verso la camera da letto.

Tutti i presenti si mossero in una processione silenziosa, l'eccitazione palpabile nell'aria. Varcammo la soglia della stanza, un ambiente sereno e ordinato, illuminato da una luce soffusa. Al centro, in una culla, giaceva Simone, che aveva smesso di piangere e si agitava con piccoli, lenti movimenti, come un uccellino nel nido.

Lorena sollevò con estrema delicatezza il suo bambino. Per me fu il momento più emozionante: finalmente, lo vidi da vicino, il mio nipotino. Era minuscolo, perfetto, con piccole mani che si aprivano e chiudevano e un'espressione assonnata e leggermente irritata. Lo salutai con un sussurro strozzato dall'emozione, il cuore che mi si stringeva per la tenerezza.

Dopo aver mostrato il bambino a tutti, Lorena si sedette con cautela sul bordo del letto, appoggiando Simone tra le sue braccia con la maestria di chi ha già acquisito confidenza con il ruolo. L'atmosfera si fece ancora più intima, carica di un rispetto quasi sacro.

Lorena guardò il bambino, poi sollevò gli occhi verso di noi, un'espressione di pacata naturalezza sul viso. Senza fretta, portò le dita al centro della camicetta azzurra, ormai da tempo al limite della sua resistenza.

Con un gesto semplice e deciso, cominciò a slacciare i bottoni. Il primo si aprì con un leggero ma udibile 'pop'. Poi il secondo e il terzo. Ogni bottone sbottonato aumentava lo spazio tra i due lembi della camicetta, che si divaricarono lentamente, liberando la pressione. Il tessuto, finalmente libero, si aprì rivelando immediatamente il reggiseno che, anch'esso, si vedeva costretto a cedere sotto il peso.

Lorena scostò i lembi della camicetta e afferrò il bordo del reggiseno da allattamento. Con la stessa calma, sganciò il ferretto e tirò giù la coppa.

Fu in quel momento che la sua gigantesca mammella fu completamente esposta.

Non era più la forma contenuta e gonfia che avevamo indovinato sotto il tessuto azzurro; era una massa di carne viva, enorme, che subiva la gravità con la sua grandezza. La mammella era colossale, pesantemente piena, con una forma allungata e cadente tipica di un seno materno stracolmo di latte. La pelle era estremamente liscia e lucida per la tensione, e sulla superficie si vedevano chiaramente le smagliature, come sottili venature chiare e rosate che si diramavano a raggiera, testimonianza del lavoro immane della gravidanza e della montata lattea.




Il peso della mammella era impressionante. Con Lorena seduta sul bordo del letto, la sua curva inferiore si estendeva ben oltre la linea dell'ombelico, scendendo in basso fino a sfiorare il bacino nel punto in cui la coscia si congiungeva al tronco. Era una cascata di carne che si adagiava pesantemente su sé stessa, un monumento alla generosità del suo corpo.

Al centro di questa forma imponente, l’areola era scura e massiccia. La sua ampiezza era così vasta da poter essere paragonata piattino. Non era centrata sul punto più alto, ma era posizionata sulla parte inferiore della mammella, proprio a causa della sua incredibile caduta e del suo volume.

Al centro dell'areola spuntava il capezzolo: era spesso, scuro e di una lunghezza notevole, quasi come il pollice di un bambino, e si proiettava vigorosamente in avanti, pronto. La sua dimensione era imponente, chiaramente visibile anche da lontano.

Era un organo di nutrimento, potentemente vivo e abbondante, che per dimensione e volume superava di gran lunga ogni cosa che avessi mai immaginato.

Lorena, senza battere ciglio, prese delicatamente il seno con la mano libera, sollevando il peso monumentale con uno sforzo misurato per portarlo più facilmente all'altezza della bocca di Simone. Era un gesto di pura funzionalità e amore. Il piccolo, guidato da un istinto ancestrale, si attaccò immediatamente, e nella stanza si sentì solo il suo succhiare vigoroso.

Era un momento di intimità assoluta, una scena primordiale di nutrimento e vita. Tutti i presenti rimasero in silenzio, testimoni di quella bellezza cruda e innegabile della maternità.

Mentre il piccolo Simone succhiava avidamente, il silenzio nella stanza divenne greve, riempito solo dai delicati rumori della poppata. Ero in piedi con gli altri, ma la mia attenzione era interamente rapita da quella scena primordiale e inebriante.

La vista della mammella di Lorena, quel monumento di carne viva e nutriente, scatenò in me una tempesta emotiva. Sentii immediatamente un’ondata di eccitazione salirmi, rapida e inattesa, un brivido che mi percorse la spina dorsale. Era un’attrazione quasi istintiva, potente, generata dalle dimensioni e dalla completa nudità di una forma così intima, così straordinariamente abbondante. I miei occhi erano calamitati su quelle smagliature pallide, sulla vastità dell'areola scura e sul capezzolo imponente, e sentivo la mia mente farsi stranamente offuscata, elettrizzata.

Ma quasi nello stesso istante, quel turbinio di eccitazione fu sferzato da un sentimento ugualmente violento: una gelosia bruciante. Osservai gli altri uomini presenti nella stanza: Daniele, ovviamente, ma anche gli amici di famiglia, con i loro sguardi pacati e rispettosi. Nonostante la loro compostezza, l'idea che potessero provare anche loro, magari di nascosto, la stessa mia scarica di desiderio, la stessa segreta attrazione per quello spettacolo, mi fece ribollire il sangue.

Non era giusto. Quella era mia sorella. Quel seno, anche se ora era uno strumento di maternità, era qualcosa che sentivo in qualche modo legato alla mia sfera intima e familiare. Il fatto che fosse così in mostra, così offerto alla vista di tutti, aumentava la mia eccitazione per la sua audacia, ma al tempo stesso alimentava una rabbia sorda, una possessività inconfessabile. La gelosia amplificava l'eccitazione, creando un circolo vizioso: più mi sentivo possessivo e furioso che gli altri la vedessero, più il mio desiderio per la nudità di quella mammella aumentava.

Dovevo fare uno sforzo immane per mantenere una facciata di assoluta normalità. Annuii a una battuta di Daniele sulla tranquillità del bambino, sorrisi, commentai l'aspetto di Simone, ma ero teso come una corda di violino.
E poi c’era Lorena stessa. Questo era l'aspetto più inspiegabile e che più di ogni altro aggiungeva carburante alla mia confusione e alla mia eccitazione. Ricordavo una Lorena bambina e adolescente di una timidezza quasi patologica. Se si fosse rotta un braccio, avrebbe preferito nasconderlo piuttosto che esporsi. Era sempre stata estremamente riservata sul suo corpo, eppure, ora, sedeva lì, la camicetta aperta, con una mammella gigantesca che pendeva fino al bacino, completamente esposta a occhi estranei. E lo faceva con una calma impassibile, come se stesse semplicemente allacciandosi una scarpa.

Come poteva?

Quel contrasto – la Lorena schiva di un tempo contro la madre disinvolta di oggi – mi colpì con la forza di un'epifania e fece salire l'eccitazione a un livello quasi insopportabile. Era come se la maternità l'avesse trasformata, spogliandola non solo dei suoi indumenti, ma anche della sua antica vergogna. Questo atto di totale, naturale esibizione era così inatteso, così potente, che mi sentii come se fossi l'unico a essere ancora imprigionato da vecchi schemi e inibizioni, mentre lei aveva attraversato una soglia.

Continuai a sorridere e a chiacchierare, l'esterno calmo, l'interno in fiamme, oscillando tra il desiderio inconfessabile e la gelosia tossica, tenuti a bada solo dalla paura che la mia agitazione fosse visibile. Non sapevo quanto ancora sarei riuscito a sostenere quello spettacolo senza che le mie emozioni, ormai incontrollabili, tradissero le mie vere sensazioni.

L'eccitazione era ormai un'onda che montava senza controllo. Era una sensazione gonfia e potente, che sentivo pulsare distintamente, trasformando la gelosia e il suo desiderio in una reazione fisica innegabile. Quella visione – il seno nudo e gigantesco di Lorena, la sua calma imperturbabile – aveva innescato qualcosa di primordiale.

Il problema, ora, non era solo interiore. Sentivo il rigonfiamento evidente sotto i pantaloni e un terrore glaciale si mescolò al calore dell'eccitazione. Ero in piedi in una stanza piena di parenti e amici, e la possibilità che qualcuno potesse notare la mia reazione fisica era un incubo. Dovevo agire. Con un gesto che spero sembrasse disinvolto, intrecciai le mani davanti a me, stringendole all'altezza del bacino. Fu l'unica cosa che mi venne in mente: un tentativo disperato di creare una barriera, un velo per nascondere l'imbarazzante e traditrice evidenza della mia condizione.

Quell'eccitazione mi stava annebbiando la lucidità. Le voci degli altri, il rumore del succhiare di Simone, persino l'immagine di Lorena, si trasformavano in un rumore di fondo ovattato. Fortunatamente, in quel momento, il buon senso prevalse. Una dopo l'altra, le persone che avevano affollato la camera cominciarono a uscire, in un atto di rispettosa discrezione, per garantire a Lorena e al bambino quel momento di naturale intimità.

Era il momento di uscire anch'io.

Mi voltai per seguire gli altri. Feci un passo verso la porta, ma proprio un attimo prima di varcare la soglia e di lasciare Lorena e Simone da soli, mi girai un’ultima volta, un istinto irrefrenabile a rubare un altro sguardo.

Fu solo un attimo, un rapido frammento catturato con la coda dell'occhio prima di uscire definitivamente. Quell’immagine, fugace come un flash, mi si conficcò a fuoco nella mente. Non ebbi il tempo di analizzarla, di capirla; fu solo un lampo visivo che si blocca in un frame nitido dietro le mie palpebre, destinato a tormentarmi.

Uscii dalla camera, ritrovandomi nella sala principale, dove gli altri si stavano già affollando. I convenevoli ripresero con rinnovato vigore. C'era chi commentava la bellezza di Simone, chi parlava della somiglianza con il padre, chi si scambiava aneddoti sui neonati. Mi inserii nel flusso delle conversazioni. Parlavo, sorridevo, annuivo con finta partecipazione.

Ma l'eccitazione non si era affievolita, tutt'altro. Continuava a essere una presenza calda, potente e fastidiosa. Le mani incrociate restavano il mio precario scudo. Ero intrappolato: in piedi nella sala di mia sorella, in attesa di un addio che non arrivava mai abbastanza presto, con la testa piena di una scena che non dovevo aver visto e il corpo in piena rivolta. Dovevo solo aspettare che Lorena finisse, salutare la famigliola e andarmene, ma in quei minuti di attesa, mi sentivo completamente alla mercé dei miei impulsi.

Passarono minuti che sembrarono eterni. Nella sala, l'attesa si faceva densa, interrotta solo dalle chiacchiere di circostanza. La mia eccitazione, lungi dall'attenuarsi, pulsava ancora fastidiosamente, tenuta a bada solo dalla posizione disperata delle mie mani incrociate.

Finalmente, la porta della camera da letto si aprì e Lorena tornò nella sala.
La vidi, e il mio respiro si bloccò. Quello che notai subito fu un dettaglio così lampante da farmi sussultare interiormente, minacciando la mia maschera di indifferenza. Lorena non indossava più il reggiseno.

La sua figura, già imponente, era ora travolgente. La camicetta azzurra, già stremata, aveva perso la suo unico alleato. La mancanza del sostegno del reggiseno aveva lasciato i suoi seni enormi completamente liberi, e l'effetto era drammatico. I due volumi, giganteschi e pesanti, pendevano liberi e pieni sotto il tessuto sottile, appesantendo la camicetta fino a farla sembrare un drappeggio appeso alle enormi masse.

Il tessuto azzurro non era più semplicemente teso; era modellato e scolpito dalla forma della sua abbondanza. Potevo distinguere chiaramente l'intera linea di separazione tra i seni, una valle profonda e scura che scendeva verso il basso. La parte superiore della camicetta, appena sotto la clavicola, era relativamente vuota, mentre la maggior parte della stoffa era risucchiata dalla gravità verso il basso, stirata in orizzontale in un modo quasi doloroso.

Le asole e i bottoni erano tornati in una lotta ancora più disperata di prima. Il tessuto, non più livellato dal reggiseno, si incurvava in modo irregolare attorno ai bottoni, creando ampie e inconfondibili fessure triangolari e ovali. Queste fessure si aprivano e chiudevano a ogni minimo movimento, e in molte di esse era possibile intravedere la pelle chiara, liscia e tesa del suo petto.

Ma il dettaglio che mi fece mancare il fiato e che non potevo ignorare era l'effetto dei capezzoli. Sulla parte inferiore e centrale di ogni enorme curva, potei distinguere chiaramente due rigonfiamenti perfettamente circolari, scuri e turgidi. Gli enormi capezzoli, ancora eretti dopo la poppata, spingevano contro la stoffa, rigonfiandola con una precisione scultorea. La camicetta, azzurra e sottile, si estendeva come una pelle di tamburo in quel punto, creando un cono di tessuto teso che ne delineava la forma e la dimensione con estrema chiarezza. Era un dettaglio quasi grafico, impossibile da non notare, che urlava la nudità sottostante.

Ero sconvolto. Quella non era più la naturalezza di una madre che allatta. Era una scelta. Aveva tolto il reggiseno dopo la poppata e l'atto di tornare in sala in quelle condizioni era un atto di sfacciata esibizione, una disinibizione che non riuscivo a conciliare con la timidezza della sorella che avevo conosciuto.

Il mio disfacimento interiore fu istantaneo. La mia reazione fisica tornò irrefrenabile. La gelosia per l'attenzione che gli uomini presenti potevano dare a quello spettacolo aumentò l'eccitazione a livelli insopportabili. Ero intrappolato tra il desiderio ossessivo e la rabbia impotente per l'esposizione.

Fortunatamente, l'apparizione di Lorena segnò la fine dell'incontro. Gli invitati cominciarono a salutarla e a dirigersi verso l'uscita. Finalmente, potevo muovermi. Salutai frettolosamente Lorena e Daniele, mantenendo le mani ostinatamente incrociate a schermare l'evidenza del mio stato, e mi diressi verso la porta. Uscii per ultimo. L'aria fresca della sera mi colpì, ma non mitigò il calore che mi avvolgeva. Raggiunsi il vialetto affollato e mi diressi verso la mia auto, con la mente in subbuglio, ossessionato dall'immagine della camicetta azzurra e dai due rigonfiamenti turgidi che ne sfidavano la resistenza.

Entrai nella mia auto. Il buio dell'abitacolo era una cortina che tagliava fuori il mondo, offrendomi finalmente un rifugio solitario. Mi lasciai cadere sul sedile, chiudendo lo sportello con un tonfo secco che sigillò la mia disperazione.

L'eccitazione non era più solo un impulso fastidioso; era diventata dolorosa, una tensione acuta e martellante che pulsava violentemente sotto i pantaloni, insopportabile. Il mio respiro era affannoso e superficiale.

L'isolamento mi diede il coraggio e la necessità di agire. Con un gesto tremante, portai le mani al centro e abbassai la lampo dei pantaloni. Subito, un minimo di sollievo fisico si diffuse, ma l'urgenza mentale era immutata.

Chiusi gli occhi, e la mia mente, ormai priva di ogni filtro razionale, proiettò immediatamente quel frame, quell'immagine rubata un attimo prima di uscire dalla camera di Lorena, il colpo di scena che non avevo avuto il tempo di registrare pienamente.

Vidi di nuovo la sua mammella gigantesca, inondata di luce soffusa. Vidi Simone che si staccava per un istante, distratto da un rumore o saturo per un secondo, e in quell'intervallo, un rivolo di latte bianco e denso fuoriusciva dal suo grosso capezzolo turgido. Quel filo di vita seguiva la curva della pelle, scorrendo in basso attraverso la gigantesca areola scura, e poi, superato il bordo inferiore, precipitava nel vuoto per essere assorbito dal tessuto o dalla coperta.

Quell'immagine era la mia rovina finale. Alimentò la mia eccitazione in modo irrefrenabile, perverso. La mia mente si accartocciò in un desiderio assurdo e proibito: volevo essere al posto del bambino. Volevo sentire il peso di quel volume, volevo allungare la lingua per raccogliere il latte fuoriuscito, quel rivolo sprecato. Volevo, con una brama che mi faceva male, attaccarmi al capezzolo di mia sorella, sentire la pienezza di quel seno contro la mia bocca, come se solo quel contatto potesse placare la tempesta che lei aveva scatenato.

Mentre queste immagini oscene e potenti si affollavano nella mia testa in un ciclo ossessivo, la mia mano si mosse. La portai all'interno dei pantaloni, afferrando e tirando fuori la mia eccitazione pulsante. Iniziai a muovere la mano con un ritmo lento e metodico, cercando di dare un sollievo finale a quel turgore doloroso e di liberare la mente da quell'ossessione che mi aveva consumato.

Ero solo, immerso nel buio, e l'ultima cosa che percepivo era il calore e la pressione che fuoriusciva inarrestabile rispondendo in modo incontrollabile allo spettacolo della maternità esposta di Lorena.


Fine.
scritto il
2025-10-03
1 . 5 K
visite
1 1
voti
valutazione
5.2
il tuo voto

Continua a leggere racconti dello stesso autore

Segnala abuso in questo racconto erotico

Commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.