Mi chiamo Renata. Questa è la mia storia 3
di
Renata1975
genere
prime esperienze
La porta era socchiusa. L’avevo lasciata così apposta, con la scusa dell’aria che non circolava. Il cuore mi martellava nelle orecchie. Non sapevo se avrebbe avuto il coraggio di entrare, ma sapevo che io non avrei avuto il coraggio di fermarlo.
E lui entrò. Senza bussare. Senza parlare.
Il rumore delle sue scarpe sul pavimento mi fece vibrare le cosce. Io ero lì, in cucina, con un bicchiere di vino a metà. Una vestaglia leggera, annodata male, che lasciava intravedere una coscia. L’avevo fatto apposta.
«Signora?» disse.
«Renata», lo corressi, la voce roca, quasi un sussurro.
Si avvicinò. Potevo sentire il suo odore: fumo, sudore, strada. Maschio. Cazzo. Un odore che mi faceva colare tra le gambe più del vino che tenevo in mano.
Si fermò davanti a me. Non sorrideva, non diceva niente. E io non ce la feci più. Buttai il bicchiere sul tavolo, mi alzai e gli presi la mano. Quelle dita sporche di grasso qualche giorno prima ora erano pulite, ma io le vedevo ancora nere, luride, e le volevo dentro.
«Non dire niente», sibilai. «Toccami.»
Lui mi guardò. Forse sorpreso, forse eccitato. Non lo so, non mi importava. Mi prese la vita con una mano e me la strinse fino a farmi male. Io gemetti, non di dolore ma di voglia.
E la vestaglia cadde. Così, senza neanche che la slacciassi. Sotto non avevo niente. Solo pelle, capezzoli duri, figa bagnata.
La sua mano scivolò subito lì, tra le gambe. Grossolana, pesante, sporca. Mi infilò due dita dentro senza dire una parola. Io urlai. Non un urlo elegante, non un gemito da film. No. Un urlo sporco, da troia.
«Sì, cazzo! Così!»
Lui mi spinse contro il tavolo. I bicchieri caddero, il vino si rovesciò sul pavimento. Non gliene fregava niente. Non me ne fregava niente. Volevo solo sentirmi sfondata, riempita, usata. E lui lo capì.
Tirò giù i pantaloni, senza fretta, ma io li strappai con le mani. Lo volevo fuori, duro, dentro di me. Quando lo vidi, mi mancò il fiato. Grosso, venoso, vivo. Un cazzo vero, finalmente. Non quello morto di mio marito.
Me lo sbatté in faccia. Io aprii la bocca e lo succhiai come se stessi annegando e quello fosse l’unico tubo dell’ossigeno. Mi teneva i capelli stretti, mi muoveva la testa come una bambola. Mi faceva ingoiare, soffocare, sbavare. Io godevo. Mi faceva schifo me stessa, e proprio per quello godevo ancora di più.
Poi mi sollevò, mi piegò sul tavolo, e mi entrò dentro senza avvisare. Senza un gesto dolce. Solo forza. Uno strappo. Io urlai di nuovo, più forte. Ero aperta, tirata, bagnata, e sentivo il suo cazzo che mi spaccava in due.
«Troia…» mormorò. La prima parola sporca uscita dalla sua bocca.
E io risi. «Sì, fammi tua troia, Riccardo. Sfonda questa figa che non gode da anni.»
E lui lo fece. Mi prese da dietro, con le mani che mi schiacciavano i fianchi, con le palle che sbattevano forte sul mio culo. Mi spingeva fino a farmi sbattere la testa sul legno del tavolo. E io godevo. Dio, se godevo.
E lui entrò. Senza bussare. Senza parlare.
Il rumore delle sue scarpe sul pavimento mi fece vibrare le cosce. Io ero lì, in cucina, con un bicchiere di vino a metà. Una vestaglia leggera, annodata male, che lasciava intravedere una coscia. L’avevo fatto apposta.
«Signora?» disse.
«Renata», lo corressi, la voce roca, quasi un sussurro.
Si avvicinò. Potevo sentire il suo odore: fumo, sudore, strada. Maschio. Cazzo. Un odore che mi faceva colare tra le gambe più del vino che tenevo in mano.
Si fermò davanti a me. Non sorrideva, non diceva niente. E io non ce la feci più. Buttai il bicchiere sul tavolo, mi alzai e gli presi la mano. Quelle dita sporche di grasso qualche giorno prima ora erano pulite, ma io le vedevo ancora nere, luride, e le volevo dentro.
«Non dire niente», sibilai. «Toccami.»
Lui mi guardò. Forse sorpreso, forse eccitato. Non lo so, non mi importava. Mi prese la vita con una mano e me la strinse fino a farmi male. Io gemetti, non di dolore ma di voglia.
E la vestaglia cadde. Così, senza neanche che la slacciassi. Sotto non avevo niente. Solo pelle, capezzoli duri, figa bagnata.
La sua mano scivolò subito lì, tra le gambe. Grossolana, pesante, sporca. Mi infilò due dita dentro senza dire una parola. Io urlai. Non un urlo elegante, non un gemito da film. No. Un urlo sporco, da troia.
«Sì, cazzo! Così!»
Lui mi spinse contro il tavolo. I bicchieri caddero, il vino si rovesciò sul pavimento. Non gliene fregava niente. Non me ne fregava niente. Volevo solo sentirmi sfondata, riempita, usata. E lui lo capì.
Tirò giù i pantaloni, senza fretta, ma io li strappai con le mani. Lo volevo fuori, duro, dentro di me. Quando lo vidi, mi mancò il fiato. Grosso, venoso, vivo. Un cazzo vero, finalmente. Non quello morto di mio marito.
Me lo sbatté in faccia. Io aprii la bocca e lo succhiai come se stessi annegando e quello fosse l’unico tubo dell’ossigeno. Mi teneva i capelli stretti, mi muoveva la testa come una bambola. Mi faceva ingoiare, soffocare, sbavare. Io godevo. Mi faceva schifo me stessa, e proprio per quello godevo ancora di più.
Poi mi sollevò, mi piegò sul tavolo, e mi entrò dentro senza avvisare. Senza un gesto dolce. Solo forza. Uno strappo. Io urlai di nuovo, più forte. Ero aperta, tirata, bagnata, e sentivo il suo cazzo che mi spaccava in due.
«Troia…» mormorò. La prima parola sporca uscita dalla sua bocca.
E io risi. «Sì, fammi tua troia, Riccardo. Sfonda questa figa che non gode da anni.»
E lui lo fece. Mi prese da dietro, con le mani che mi schiacciavano i fianchi, con le palle che sbattevano forte sul mio culo. Mi spingeva fino a farmi sbattere la testa sul legno del tavolo. E io godevo. Dio, se godevo.
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