Mi chiamo Renata. Questa è la mia storia 2

di
genere
prime esperienze

Non so bene quando ha cominciato. Forse la prima volta che l’ho visto. O forse molto prima. Quando ancora non sapevo che il desiderio potesse avere un odore, o che il corpo potesse avere fame di qualcosa che non si dice ad alta voce.
Lui si chiama Riccardo. È il nipote della mia vicina, la signora Marisa. Una di quelle vecchie pettegole, sempre in vestaglia, che spiano dal balcone e sanno tutto di tutti. Eppure, quella volta, non ha visto niente. Non ha visto quello che si è mosso dentro di me quando l’ho visto arrivare con quella valigia a rotelle e lo zaino buttato sulla spalla come un ragazzino delle medie.
Avrà avuto trent’anni. Io, dieci di più. Forse quindici. Non importa. Non mi è mai importato.
Era estate. Di quelle afose, appiccicose, in cui le finestre restano aperte anche di notte e il sudore ti scivola tra le tette mentre cerchi di dormire. Io ero sola, come sempre, in quella casa troppo grande e troppo silenziosa. Vestivo solo una canotta bianca e un paio di mutandine che non avrei mai mostrato a nessuno.
Non a un uomo. Non a quel tipo di uomo.
E invece, quando l’ho visto scendere dalla macchina, mi sono sentita… guardata. Ero alla finestra, nascosta dietro le tende, con un bicchiere in mano. Lui ha alzato gli occhi.
Non sorrideva. Non diceva niente.
Ma mi ha vista. E io mi sono bagnata. Lo giuro. Solo a vederlo. Solo a sapere che sarebbe stato lì, in quella palazzina, per tutto agosto.
Mi chiamo Renata. Ho quarantasette anni. Nessuno mi ha mai chiamata Reny, né Rena, né amore. Nemmeno mio marito, Dio lo perdoni. Morto di infarto cinque anni fa, e mai, in ventiquattro anni di matrimonio, mi ha fatto venire una sola volta.
Mi dicono che sono una bella donna. Lo dicono con quel tono tra la pietà e l’invidia.
«Sei ancora in forma, Renata.»
«Hai dei begli occhi, Renata.»
«Dovresti uscire di più.»
Ma io non voglio uscire. Non ho bisogno di uscire. Non ho bisogno di parole. Solo di mani, pelle, lingua, cazzo.
E lui, Riccardo, aveva tutto questo. E non lo sapeva nemmeno.
La prima volta che l’ho incontrato davvero, non era niente di speciale.
Ero sulle scale, con la borsa della spesa. Lui saliva con due casse d’acqua in braccio.
Ci siamo incrociati a metà.
«Prego», ha detto, scostandosi.
La sua voce era ruvida, bassa, sfregata dal fumo e dalle notti sbagliate. Ho detto grazie, senza guardarlo, e ho proseguito. Ma ho sentito il suo sguardo sulla schiena.
E l’ho amato. Lì. In quel secondo. Come una pazza. Come una troia pazza.
Sono tornata in casa con le cosce che sfregavano tra loro, calde, bagnate, vive. Ho aperto il frigorifero, non per sete ma per calmarmi. Mi sono seduta. Ho infilato la mano tra le gambe. E ho pensato a lui.
A quella voce. A quelle braccia. A quel modo di non sorridere. Mi sono fatta venire da sola.
Nel silenzio. Senza neanche togliermi le mutandine.
Nei giorni seguenti, facevo in modo di incontrarlo. In ascensore, nell’androne, sulla terrazza. Mi vestivo con abiti più leggeri. Non troppo. Il giusto per far scivolare lo sguardo. Tenevo i capelli sciolti, le labbra lucide. E fingevo distrazione.
Ma dentro, Dio, dentro ero in fiamme.
Una mattina l’ho trovato al piano terra, con la porta del box aperta. Stava trafficando con una bicicletta. Aveva una canotta nera, le braccia unte di sudore e olio, le dita sporche. Quelle dita.
Mi ha detto:
«Buongiorno, signora.»
E io, come un’adolescente:
«Renata, per favore.»
Lui ha sorriso. Il primo sorriso. E io ho sentito i capezzoli indurirsi sotto la camicetta.
«Piacere, Riccardo.»
E mi ha teso la mano. Io l’ho stretta. Forte. Troppo forte. Ho sentito la scossa. Lui no, forse. Ma io sì. Da lì, tutto è cambiato. Ogni giorno diventava un lento, esasperante rituale di attesa. Aspettavo un suo passo sulle scale, una sigaretta al balcone, un’occhiata. E poi, una sera, è salito.
Avevo lasciato la porta socchiusa. Per sbaglio. Per sbaglio, un cazzo.
scritto il
2025-09-23
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