Mi chiamo Renata e questa è la mia storia
di
Renata1975
genere
confessioni
Quando Riccardo mi ha toccata, non ho detto nulla.
Avrei potuto, forse. Avrei potuto voltarmi, sputargli in faccia, urlare che era uno sporco bastardo. Invece sono rimasta lì, ferma, con la faccia a pochi centimetri dal muro grezzo della cucina, le mani sulle assi consumate del tavolo, lo sguardo perso nel vuoto. Sentivo il suo respiro sulla nuca, la mano calda che mi premeva sulla schiena, e qualcosa dentro di me, tra le cosce, che pulsava da sola. Un battito muto, sordo, che non ascoltavo da anni.
Non era amore. Non era nemmeno desiderio, almeno non come me l’avevano insegnato a chiamarlo. Era fame, vergogna, fiele e miele insieme, un groviglio schifoso di ciò che mi avevano detto essere peccato.
Eppure, la figa colava. Maledetta. Traditrice.
Lui lo sapeva. Riccardo sapeva leggere il mio corpo meglio di quanto io sapessi farlo. E io? Io recitavo. Facevo la brava. Tenevo gli occhi bassi, una mano aggrappata al bordo del tavolo, l’altra stretta a pugno come se potesse fermare il tremore. E mentre lui si abbassava i pantaloni dietro di me, io mi mordevo il labbro per non gemere.
Non per dolore. Per rabbia.
Perché non era lui che mi stava scopando.
Ero io che stavo lasciando che accadesse.
Lo sentii posizionarsi. La cappella del suo cazzo, calda, viva, sfiorò le mie labbra intime. Un fremito mi attraversò la schiena. Non avevo idea di quanto fossi bagnata finché non lo sentii scivolare, lento, con una sicurezza oscena.
— «Puttana», pensai. Ma non a lui. A me stessa.
Entrò a metà. E poi si fermò. Bastardo. Voleva che fossi io a muovermi.
E io, cazzo, l’ho fatto.
Ho iniziato a spingere indietro, un poco per volta, finché l’ho sentito tutto dentro. Un’onda mi ha presa allo stomaco. Mi veniva da vomitare e da urlare insieme. E allora ho iniziato a scoparlo, sì, con movimenti lenti ma sempre più decisi. Sentivo le cosce bruciarmi, le ginocchia tremare. Il cazzo di Riccardo era duro, grosso, vibrava dentro come un motore.
Ero io a comandare.
Ero io la troia che non avevo mai osato essere.
Lui mi teneva per la vita, forte, troppo forte. Aveva mani grandi, mani da uomo che ha lavorato. E mi scopava con foga, come se volesse aprirmi in due. E io? Io urlavo senza voce, con la bocca aperta e gli occhi chiusi, mentre i miei fianchi si muovevano da soli.
Una parte di me piangeva.
Un’altra rideva.
E una terza, quella che mi stava venendo addosso, quella gridava grazie.
Era troppo. Troppo tutto. Troppo sporco, troppo vero, troppo tardi per pentirsi.
Quando lui si è piegato su di me e ha affondato ancora di più, ho perso il senso di dove finiva il mio corpo e dove iniziava il suo. Il cazzo mi batteva sul fondo, bagnato del mio stesso liquido, e Riccardo gemette come un animale.
Ero io a tenerlo dentro. Io a farlo venire.
E io che godevo come non avevo mai goduto in tutta la mia vita.
Mi si piegarono le gambe. Il tavolo scricchiolò. L’orgasmo mi prese nel basso ventre come un pugno. E finalmente, urlai, ma non il suo nome. Nessun nome. Solo un suono rotto, violento, primordiale.
Quando finì, restai piegata, la fronte sudata contro il legno ruvido. Non mi mossi. Non dissi nulla.
Lui nemmeno.
Solo il nostro respiro che ansimava in cucina. E una goccia di sperma che colava lenta lungo la mia coscia destra.
Avrei potuto, forse. Avrei potuto voltarmi, sputargli in faccia, urlare che era uno sporco bastardo. Invece sono rimasta lì, ferma, con la faccia a pochi centimetri dal muro grezzo della cucina, le mani sulle assi consumate del tavolo, lo sguardo perso nel vuoto. Sentivo il suo respiro sulla nuca, la mano calda che mi premeva sulla schiena, e qualcosa dentro di me, tra le cosce, che pulsava da sola. Un battito muto, sordo, che non ascoltavo da anni.
Non era amore. Non era nemmeno desiderio, almeno non come me l’avevano insegnato a chiamarlo. Era fame, vergogna, fiele e miele insieme, un groviglio schifoso di ciò che mi avevano detto essere peccato.
Eppure, la figa colava. Maledetta. Traditrice.
Lui lo sapeva. Riccardo sapeva leggere il mio corpo meglio di quanto io sapessi farlo. E io? Io recitavo. Facevo la brava. Tenevo gli occhi bassi, una mano aggrappata al bordo del tavolo, l’altra stretta a pugno come se potesse fermare il tremore. E mentre lui si abbassava i pantaloni dietro di me, io mi mordevo il labbro per non gemere.
Non per dolore. Per rabbia.
Perché non era lui che mi stava scopando.
Ero io che stavo lasciando che accadesse.
Lo sentii posizionarsi. La cappella del suo cazzo, calda, viva, sfiorò le mie labbra intime. Un fremito mi attraversò la schiena. Non avevo idea di quanto fossi bagnata finché non lo sentii scivolare, lento, con una sicurezza oscena.
— «Puttana», pensai. Ma non a lui. A me stessa.
Entrò a metà. E poi si fermò. Bastardo. Voleva che fossi io a muovermi.
E io, cazzo, l’ho fatto.
Ho iniziato a spingere indietro, un poco per volta, finché l’ho sentito tutto dentro. Un’onda mi ha presa allo stomaco. Mi veniva da vomitare e da urlare insieme. E allora ho iniziato a scoparlo, sì, con movimenti lenti ma sempre più decisi. Sentivo le cosce bruciarmi, le ginocchia tremare. Il cazzo di Riccardo era duro, grosso, vibrava dentro come un motore.
Ero io a comandare.
Ero io la troia che non avevo mai osato essere.
Lui mi teneva per la vita, forte, troppo forte. Aveva mani grandi, mani da uomo che ha lavorato. E mi scopava con foga, come se volesse aprirmi in due. E io? Io urlavo senza voce, con la bocca aperta e gli occhi chiusi, mentre i miei fianchi si muovevano da soli.
Una parte di me piangeva.
Un’altra rideva.
E una terza, quella che mi stava venendo addosso, quella gridava grazie.
Era troppo. Troppo tutto. Troppo sporco, troppo vero, troppo tardi per pentirsi.
Quando lui si è piegato su di me e ha affondato ancora di più, ho perso il senso di dove finiva il mio corpo e dove iniziava il suo. Il cazzo mi batteva sul fondo, bagnato del mio stesso liquido, e Riccardo gemette come un animale.
Ero io a tenerlo dentro. Io a farlo venire.
E io che godevo come non avevo mai goduto in tutta la mia vita.
Mi si piegarono le gambe. Il tavolo scricchiolò. L’orgasmo mi prese nel basso ventre come un pugno. E finalmente, urlai, ma non il suo nome. Nessun nome. Solo un suono rotto, violento, primordiale.
Quando finì, restai piegata, la fronte sudata contro il legno ruvido. Non mi mossi. Non dissi nulla.
Lui nemmeno.
Solo il nostro respiro che ansimava in cucina. E una goccia di sperma che colava lenta lungo la mia coscia destra.
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