Dentro/Fuori

di
genere
orge


Era una di quelle giornate pigre al mare, quando il sole calava lento e la noia si mescolava alla sabbia. Sdraiati sulle sdraio, in bikini e bermuda, cercavamo un diversivo. Qualcuno propose un gioco: bigliettini estratti a sorte, con domande e sfide sul coraggio.
All’inizio erano stupidaggini: un tuffo dalla piattaforma, una canzone urlata a squarciagola. Poi, inevitabilmente, le prove diventarono più maliziose.
Il mio biglietto lo lessi ad alta voce, con un sorriso che voleva sembrare spavaldo:
— Scoperesti con i tuoi amici, anche qui, davanti a tutti?
Gli occhi di tutti addosso, le risatine soffocate. Le ragazze si scambiarono sguardi complici, una alzò le sopracciglia, un’altra scoppiò a ridere:
«Ma figurati se lo fa davvero!»
«Ci vuole del coraggio.»
«Secondo me …ci sta pensando.»
Quelle frasi risuonavano di sfida. Avrei potuto tirarmi indietro, ridere, dire che era solo uno scherzo. D’impulso, senza riflettere:
«Accetto» dissi, fissando il gruppo.
Ci fu un boato di commenti, metà increduli metà eccitati. Uno rise: «Allora andiamo!» Un altro aggiunse: «Non ci credo finché non vedo.»
E un’amica, velenosa: «Beh, la cosa si fa interessante.»
Fu deciso che ci saremmo spostati in una cabina spogliatoio, non potendo farlo in spiaggia. Ma dil luogo pubblico rendeva la circostanza elettrica e rischiosa.
Il mazzo di carte comparve da qualche zaino. Mischiato, distribuito, chiamato l’ordine. Tirarono a sorte chi sarebbe entrato per primo, chi dopo. Tutti ridevano, si davano pacche sulle spalle, e le ragazze sghignazzavano e bisbigliavano a mezza voce: «Quella è proprio una troia.»
Il cuore mi batteva forte quando la porta si chiuse dietro di noi con un colpo sordo. La luce calò, lasciando solo un chiarore sporco che filtrava dalle fessure. L’aria era calda, appiccicosa, satura di legno arroventato.
Lui non perse tempo: mi spinse contro la parete, mi abbassò gli slip e mi prese con la bocca, famelico. Il mio respiro si spezzava, e insieme al suo sentivo nitido, da fuori, lo stridio allegro di una bambina che correva gridando “Prendimi, prendimi!”. Io mi piegai in avanti, mordendo il braccio per non rispondere con lo stesso tono acuto.
Quando un altro aprì la porta ed entrò, la cabina si riempì di un lampo di rumori: bicchieri al bar, un motivetto di musica leggera, le risate di un gruppo di ragazzi. Poi di nuovo il buio, il respiro caldo e lui che mi sollevava le anche per prendermi da dietro. Ogni spinta faceva scricchiolare il legno, e fuori qualcuno gridava “Punto!” al tavolo da ping pong. Era come se il loro ritmo e il suo fossero la stessa cosa.
Mi tenevo con le mani sulla parete, le gambe divaricate, il culo in fuori. Il cazzo dentro di me affondava rapido, mentre da fuori arrivava il rumore dei passi nella ghiaia, il tonfo di un pallone da beach volley, un cor o di “occhio!” e risate. Io ansimavo in silenzio, pregando che nessuno notasse i colpi che facevano vibrare le assi della cabina.
Poi fu un altro a prendermi per i capelli e a spingermi in ginocchio. La mia bocca si aprì, la gola invasa, le lacrime agli occhi. Tossivo, ingoiavo, gorgogliavo, e intanto da fuori arrivava l’odore dolciastro delle granite, il fischio del bagnino che richiamava qualcuno troppo al largo. Io con la bocca piena, a soffocare, mentre il mondo continuava ordinato e innocente.
Ogni volta che uno usciva ridendo, accolto da fischi e pacche, un altro entrava, e io dentro ripetevo lo stesso rito: il ripensamento feroce, il desiderio che mi spingeva, la vergogna che mi bruciava le guance. Avrei voluto dire basta, ma l’orgoglio non me lo permetteva. Non avrei mai dato alle ragazze là fuori la soddisfazione di vedermi cedere.
Ero sudore, sperma, sabbia, saliva. Ogni goccia che colava tra le cosce mi ricordava che fuori, a pochi metri, la gente rideva, beveva, giocava. Il loro mondo spensierato mi avvolgeva da dietro la porta, eppure dentro quella cabina io ero un’altra: disfatta, troia, usata.
Quando toccò all’ultimo, il silenzio cadde. Fuori non c’erano più risate sguaiate, ma un’attesa tesa, morbosamente carica. Lui entrò senza parlare, chiuse la porta dietro di sé e mi guardò. Io ansimavo, distrutta, eppure decisa. Non avrei mollato proprio ora.
Mi piegai in avanti, le chiappe nude, pronta. Sentii le sue mani che mi aprivano, decise, e poi il colpo secco, violento, che mi squarciò dietro, il culo. Un urlo mi sfuggì, strozzato sul polso che mordevo con forza. Il dolore acuto si mescolò a un piacere torbido che mi fece girare la testa.
Fuori, il venditore ambulante cantilenava: «Cocco bello, cocco fresco!» La sua voce nasale si intrecciava al ritmo animalesco che mi spingeva più in fondo. Io gemevo, e questa volta non soffocai del tutto. Lasciai che si sentisse, che trapassasse le assi della cabina
Mi tirò i capelli, mi spinse giù di nuovo, il cazzo che entrava e usciva dalla mia bocca già disfatta, poi tornava dentro, dietro, fino a farmi piangere. Era l’ultima prova, la più estrema, quella che avrebbe deciso tutto. E io, tra le lacrime e il respiro spezzato, pensavo: se solo qualcuno spalancasse la porta e tutti potessero vedere, adesso. La barriera era così sottile: un’assicella di legno, e il mio segreto sarebbe stato gridato al sole. Ero disfatta, esausta, senza più provare piacere, con la voglia che finisse tutto e ultimamente pentita della scelta. Ma non lo avrei mai ammesso.
Quando infine la porta rimase chiusa e non entrò più nessuno, caddi sulle ginocchia, esausta. L’aria era densa, acre, ogni cavità pulsava, mi bruciava. Rimasi lì un attimo, disfatta, i pensieri che giravano a vuoto col tanfo acre di sperma e umidità che impregnava l’aria.
Il mondo di fuori scorreva normale: passi leggeri sulla ghiaia, il richiamo di una madre al figlio che tardava a uscire dall’acqua, lo scoppio secco di un pallone. Dentro invece, ogni fibra del suo corpo gridava che nulla sarebbe stato più come prima.
Un bussare improvviso alla porta la fece trasalire.
— È libero?
La voce era calma, gentile, educata. Ma a lei parve come una scossa elettrica. Le mani corsero d’istinto a ripulirsi, a rivestirsi. Cercai di ricompormi in fretta, la gola secca.
— …Un attimo.
Quando aprii, l’uomo di mezza età mi guardò negli occhi, un sorriso breve e complice. Non disse niente, ma mi sentii letta dentro.
Mi guardava. I suoi occhi, fissi su di me, erano pieni di un’ammirazione silenziosa che mi lasciò spiazzata.
Forse aveva visto i segni, il viavai dei compagni, probabilmente aveva intuito ogni cosa. Non sembrava scandalizzato, né giudicava. Solo guardava, con quella calma velata di ironia che mi faceva sentire il sangue ribollire di nuovo.

Feci pochi passi e il sole mi investì. Le grida dei bambini, il ticchettio del ping pong, il vociare della gente: tutto come prima, come se niente fosse accaduto. Io mi sedetti rigida, respirando ancora forte. Sentivo addosso l’odore acre della cabina, mentre il vento portava profumo di cocco e di sale. Ogni sillaba sussurrata delle ragazze mi trapassava come lame invisibili, ma non pronunciavo una parola. Non c’era difesa, non c’era scusa. Solo il mio corpo ancora caldo e disfatto e un orgoglio sordo che mi teneva ferma.
Le risatine, le frasi crude e volgari, i commenti maligni continuavano a filtrare tra i raggi di luce e il fruscio della sabbia fuori:
«Hai visto come cammina? L’avranno sfondata…quanto si sarà fatta usare, là dentro? Che puttana!»
Non avrei mai permesso loro di vedere il cedimento, né che mi ero pentita di averlo fatto. Ogni parola che percepivo alimentava una tensione interna che mi faceva stringere i denti e sentire un brivido che partiva dalla schiena fino tra le gambe.
Seduta sull’asciugamano, gli occhi fissi su un punto indefinito della spiaggia, ero insieme distrutta e orgogliosa. Avevo fatto tutto, fino in fondo, e restavo lì, immobile, lasciando che il peso della loro cattiveria rimbalzasse sul mio silenzio.


scritto il
2025-09-16
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