L'attesa
di
Luisa Damore
genere
sentimentali
Lo sentivo ancora prima che varcasse la soglia.
Il suo respiro era un’eco lontana che mi faceva vibrare le vene, e ogni passo era una promessa che incendiava l’aria.
Io ero lì, immobile solo in apparenza, mentre dentro mi agitavo come un mare in tempesta.
Non serviva che mi sfiorasse: bastava il suo sguardo.
Il modo in cui i suoi occhi si posavano sul mio corpo mi faceva tremare, come se già mi stesse spogliando, centimetro dopo centimetro.
Le mie labbra si socchiusero in un ansimare sottile, mentre le dita correvano lente sul tessuto leggero della veste, incapaci di restare ferme.
Era un gesto innocente, eppure portava con sé tutta la mia confessione segreta: il desiderio di sentirmi sua.
Lui rimase fermo, a guardarmi, e quell’immobilità era più crudele di qualsiasi assalto.
Mi costringeva ad arrossire, a perdere fiato, a bramare.
Io già mi toccavo, piano, cercando di ingannare l’attesa, mentre il calore cresceva, implacabile.
Era libertà e condanna insieme: un orgasmo che voleva nascere e non sapeva ancora come esplodere.
Il silenzio si riempì di sudore, di respiro, di quel filo invisibile che ci legava e che stava per spezzarsi… o forse sfondare ogni barriera.
Si avvicinò lentamente, come un predatore che conosce già la resa della sua preda.
Ogni passo era un colpo al cuore, e io mi accorgevo di quanto fossi già posseduta da lui, ancora prima che le sue mani mi raggiungessero.
Le sue dita, finalmente, mi sfiorarono.
Non c’era dolcezza in quel gesto, ma una fame che mi fece rabbrividire: la sua pelle che trovava la mia era una scossa che attraversava tutto il corpo.
Le mie labbra si dischiusero in un gemito soffocato, mentre le mani mi cercavano da sole, spinte da un desiderio che non avevo più la forza di trattenere.
La veste cadde, lenta, e rimasi nuda davanti al suo sguardo bruciante.
Non mi vergognavo: era come se la vergogna avesse abbandonato la stanza, lasciando solo il desiderio nudo e crudo, feroce.
Il suo respiro si fece più profondo, e io sentii il bisogno di chiudere gli occhi, di lasciarmi guidare da quel suono animale che prometteva libertà e condanna insieme.
Mi prese il volto tra le mani e mi baciò.
Non fu un bacio d’amore, ma di conquista: lingua contro lingua, un combattimento che si trasformava in resa totale.
Io ansimavo, e nell’ansimare già sentivo il corpo sciogliersi, pronto a cedere.
Quando la sua mano scese, io non opposi resistenza.
Era ciò che avevo bramato per ore, per giorni: quel tocco che sfondava la mia essenza, che mi ricordava che esistevo solo in quel momento.
E mentre lui mi stringeva, io già mi stavo perdendo: le mie dita si aggrappavano alla sua pelle, cercando un appiglio, mentre il piacere montava come un’onda che non si poteva fermare.
L’orgasmo arrivò senza avvertire.
Un grido soffocato, un fremito che attraversò il mio corpo come un terremoto, lasciandomi sospesa tra follia e libertà.
Io ero sudore, ero respiro, ero carne che esplodeva di vita.
E lui era lì, addosso a me, a ricordarmi che a volte il desiderio non si spegne: ti sfonda, ti travolge, ti divora.
Restammo immobili, pochi istanti, a guardarci negli occhi.
E in quel silenzio c’era tutto: la follia, la passione, il ricordo che non si cancellerà mai.
Il silenzio dopo il piacere ha un suono che pochi conoscono.
Non è vuoto: è colmo di battiti che faticano a calmarsi, di respiri che cercano ritmo, di pelle che ancora trema.
Era lì che mi trovavo, distesa tra le sue braccia, con il corpo ancora scosso da piccoli brividi che non volevano abbandonarmi.
Sentivo il suo petto contro la mia schiena, caldo, intriso di sudore come il mio.
Era un’àncora, ma anche una ferita: sapevo che quel momento non poteva durare per sempre, e proprio per questo lo stringevo a me, come a volerlo imprigionare nel tempo.
Le sue mani, ora più lente, mi accarezzavano come se fossero cieche: esploravano la mia pelle senza fretta, come se ogni curva, ogni piega, fosse da ricordare, da imprimere per sempre.
Io chiusi gli occhi, e lasciai che il silenzio parlasse per noi.
Non c’erano più gemiti, non c’era più la furia del desiderio: c’era solo l’eco.
L’eco di ciò che eravamo stati un attimo prima, e che in qualche modo restava impresso in me.
Come una cicatrice invisibile, come un segreto inciso nella carne.
«Resterai?» mi chiese a voce bassa, quasi temendo la risposta.
Non risposi.
Perché certe domande non hanno bisogno di parole: hanno già la loro verità negli sguardi, nei tremiti, nella pelle che ancora odora di noi.
E fu così che mi addormentai.
Non con la paura di perderlo, ma con la certezza che, ovunque sarei andata, quell’eco mi avrebbe seguito.
Era la prova che non tutto svanisce: certi atti restano sospesi, pronti a vibrare ancora, ogni volta che il cuore decide di ricordare.
Il suo respiro era un’eco lontana che mi faceva vibrare le vene, e ogni passo era una promessa che incendiava l’aria.
Io ero lì, immobile solo in apparenza, mentre dentro mi agitavo come un mare in tempesta.
Non serviva che mi sfiorasse: bastava il suo sguardo.
Il modo in cui i suoi occhi si posavano sul mio corpo mi faceva tremare, come se già mi stesse spogliando, centimetro dopo centimetro.
Le mie labbra si socchiusero in un ansimare sottile, mentre le dita correvano lente sul tessuto leggero della veste, incapaci di restare ferme.
Era un gesto innocente, eppure portava con sé tutta la mia confessione segreta: il desiderio di sentirmi sua.
Lui rimase fermo, a guardarmi, e quell’immobilità era più crudele di qualsiasi assalto.
Mi costringeva ad arrossire, a perdere fiato, a bramare.
Io già mi toccavo, piano, cercando di ingannare l’attesa, mentre il calore cresceva, implacabile.
Era libertà e condanna insieme: un orgasmo che voleva nascere e non sapeva ancora come esplodere.
Il silenzio si riempì di sudore, di respiro, di quel filo invisibile che ci legava e che stava per spezzarsi… o forse sfondare ogni barriera.
Si avvicinò lentamente, come un predatore che conosce già la resa della sua preda.
Ogni passo era un colpo al cuore, e io mi accorgevo di quanto fossi già posseduta da lui, ancora prima che le sue mani mi raggiungessero.
Le sue dita, finalmente, mi sfiorarono.
Non c’era dolcezza in quel gesto, ma una fame che mi fece rabbrividire: la sua pelle che trovava la mia era una scossa che attraversava tutto il corpo.
Le mie labbra si dischiusero in un gemito soffocato, mentre le mani mi cercavano da sole, spinte da un desiderio che non avevo più la forza di trattenere.
La veste cadde, lenta, e rimasi nuda davanti al suo sguardo bruciante.
Non mi vergognavo: era come se la vergogna avesse abbandonato la stanza, lasciando solo il desiderio nudo e crudo, feroce.
Il suo respiro si fece più profondo, e io sentii il bisogno di chiudere gli occhi, di lasciarmi guidare da quel suono animale che prometteva libertà e condanna insieme.
Mi prese il volto tra le mani e mi baciò.
Non fu un bacio d’amore, ma di conquista: lingua contro lingua, un combattimento che si trasformava in resa totale.
Io ansimavo, e nell’ansimare già sentivo il corpo sciogliersi, pronto a cedere.
Quando la sua mano scese, io non opposi resistenza.
Era ciò che avevo bramato per ore, per giorni: quel tocco che sfondava la mia essenza, che mi ricordava che esistevo solo in quel momento.
E mentre lui mi stringeva, io già mi stavo perdendo: le mie dita si aggrappavano alla sua pelle, cercando un appiglio, mentre il piacere montava come un’onda che non si poteva fermare.
L’orgasmo arrivò senza avvertire.
Un grido soffocato, un fremito che attraversò il mio corpo come un terremoto, lasciandomi sospesa tra follia e libertà.
Io ero sudore, ero respiro, ero carne che esplodeva di vita.
E lui era lì, addosso a me, a ricordarmi che a volte il desiderio non si spegne: ti sfonda, ti travolge, ti divora.
Restammo immobili, pochi istanti, a guardarci negli occhi.
E in quel silenzio c’era tutto: la follia, la passione, il ricordo che non si cancellerà mai.
Il silenzio dopo il piacere ha un suono che pochi conoscono.
Non è vuoto: è colmo di battiti che faticano a calmarsi, di respiri che cercano ritmo, di pelle che ancora trema.
Era lì che mi trovavo, distesa tra le sue braccia, con il corpo ancora scosso da piccoli brividi che non volevano abbandonarmi.
Sentivo il suo petto contro la mia schiena, caldo, intriso di sudore come il mio.
Era un’àncora, ma anche una ferita: sapevo che quel momento non poteva durare per sempre, e proprio per questo lo stringevo a me, come a volerlo imprigionare nel tempo.
Le sue mani, ora più lente, mi accarezzavano come se fossero cieche: esploravano la mia pelle senza fretta, come se ogni curva, ogni piega, fosse da ricordare, da imprimere per sempre.
Io chiusi gli occhi, e lasciai che il silenzio parlasse per noi.
Non c’erano più gemiti, non c’era più la furia del desiderio: c’era solo l’eco.
L’eco di ciò che eravamo stati un attimo prima, e che in qualche modo restava impresso in me.
Come una cicatrice invisibile, come un segreto inciso nella carne.
«Resterai?» mi chiese a voce bassa, quasi temendo la risposta.
Non risposi.
Perché certe domande non hanno bisogno di parole: hanno già la loro verità negli sguardi, nei tremiti, nella pelle che ancora odora di noi.
E fu così che mi addormentai.
Non con la paura di perderlo, ma con la certezza che, ovunque sarei andata, quell’eco mi avrebbe seguito.
Era la prova che non tutto svanisce: certi atti restano sospesi, pronti a vibrare ancora, ogni volta che il cuore decide di ricordare.
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