Uno spazio tutto suo

di
genere
tradimenti

In principio fu una piccola frase che dissi tra me e me. Una piccola innocua frase: “Vediamo che succede”. E non è che stessi facendo riferimento a chissà quale atto in particolare. Semplicemente, un giorno, mi ero detto che, invece di erigere a priori barriere interiori a certe scelte, avrei invece lasciato andare le cose come venivano, senza volerle controllare, senza volerle forzare, improvvisando, provando a rispondere agli avvenimenti mettendo da parte la razionalità.

Razionalità che mi aveva contraddistinto per tanto tempo, che mi aveva garantito un posto nella schiera degli uomini dalla coscienza limpida, ma che non mi aveva evitato rimpianti e situazioni di cui mi ero pentito e figure del cazzo – con annessa riprovazione femminile - alle 4 di notte, per un semplice inopportuno messaggio whatsapp che non sarebbe dovuto uscire e che invece avevo inviato in quell’ora della notte in cui fare cazzate sull’onda dell’emotività ti sembra una buona idea.

Un “Vediamo che succede” pensato mentre ascolto con fare fintamente neutro ma sufficientemente interessato una collega di scuola, che aveva attirato la mia attenzione pochi mesi prima, raccontarmi la sua vita nei particolari, sotto la finestra della vicepreside, fumando quella che sarebbe stata la prima di una delle infinite sigarette che avremmo poi fumato assieme nei più diversi contesti...

… Al bar durante l’ennesima conversazione in cui lei mi raccontava dei suoi sensi di colpa per essere lì, a mangiare un tramezzino insieme a me, all’insaputa del suo compagno.
… A casa sua dopo aver fatto l’amore, quando il compagno l’aveva ormai lasciato.
… In uno spiazzo laterale lungo una strada di campagna, prima di scopare, avendomi raggiunto dopo due ore di macchina nella località in cui stavo passando le vacanze. Non da solo.

Mille volte avevo provato a ripercorrere con la mente come da un “Vediamo che succede” in poche settimane mi fossi trovato a rispondere “Guarda, solo il mignolo non è ancora dentro” ad una sua certa domanda.
Che la donna non poteva controllare da sola la situazione.

Ed ogni volta mi tornava in mente quel percorso quasi lineare: il dipanarsi della nostra relazione attraverso la sequenza di incontri nelle toilette: diversi bagni pubblici, diversi contesti, diversi orari, diversi stati d’animo e scoperte reciproche.
Tappe forzate, per una marcia che ci condusse a dove eravamo.

La prima fu una finzione di toilette, quella del teatro Argentina che usai come scenografia per un racconto in cui collocai lei, la collega, lievemente trasfigurata, conosciuta pochi giorni prima, in attesa di essere convocati per un consiglio di classe. Una breve chiacchiera di qualche minuto in cui mi fece parte di tanti particolari della sua vita. Una sconosciuta estroversa il cui sguardo vivo mi fissa attraverso occhiali femminili. Sguardo che si aggancia a qualcosa dentro di me.

Quel bagno, seppur immaginario, ebbe però un ruolo fondamentale. Perché, leggendosi personaggio dipinto sotto la punta delle dita che avevano battuto su questa tastiera, lei si era riconosciuta. Aveva riconosciuto qualcosa rimasto sepolto dentro di sé a causa di una sgangherata relazione che durava da troppi anni senza decollare, sottraendole energie.

La soglia del bagno di scuola fu teatro dell’incontro successivo, soglia che vide le prime innocenti confidenze in cui due personalità cominciavano a riconoscersi, cominciavano a risuonare. ADHD, problemi con i figli, impegno civile, insegnare a scuola.

Nulla che preludesse le indicibili confessioni che ci saremmo scambiati di lì a poco.

Nulla che preludesse un primo bacio strappato in sala professori. Fugace, inaspettato, semplice. Labbra fin lì sconosciute che si incontrano, un braccio attorno al suo fianco, per una mia insistenza, una pulsione che non riuscivo più a tenere a freno. Esasperata per la rabbia, generata da una situazione che vorticava su sé stessa in una spirale senza fine. Una evidente attrazione e la sua negazione per legittime resistenze interiori verso il tradimento dell’uomo con cui aveva condiviso quei quattro anni.

Da quella soglia, una cascata; una valanga inarrestabile.

La toilette di un altro teatro, quello che ospitava il saggio scolastico di fine anno, in cui ci saremmo di nuovo baciati. Un bacio non troppo diverso da quello che probabilmente qualche nostro studente si era dato nello stesso bagno, labbra adolescenti, una certa innocente allegria fatta di risatine e sorpresa per la situazione inaspettata. L’unico timore quello di essere visti da chi non ci doveva vedere. E una minzione che avrei atteso rispettoso ma fremente da dietro la porta, nascosta alla mia vista.

Quello che mi risulta sorprendente è la rapida sequela di sconcezze che sarebbero seguite nelle settimane successive, sempre intrecciate con romanticismi e umorismi e la buffa sensazione di conoscersi da sempre.

Perché il seguente bagno pubblico, quello che non si può dimenticare come il primo bacio, fu quello che evocai io con un “C’è una toilette là dietro!”

Cos’era successo? A quale domanda avevo dato quella risposta? Un passo indietro di qualche ora: giornata di scrutini, giornata ininterrotta di provocazioni e romanticherie che si sperava fossero passate inosservate nonostante i colleghi ad un passo da noi.
E lei che si lascia sfuggire una supplica, consumando l’ennesimo dei nostri caffè+tramezzino: “Avrei bisogno di qualcosa dentro, ora!”

Cosa avrei potuto rispondere se non “C’è una toilette là dietro”?

Quella frase mi uscì in maniera del tutto naturale, messe da parte tante remore e altrettante insicurezze nel momento in cui avevo deciso cosa volessi da quella donna. Una volta che mi era chiaro cosa lei avrebbe potuto offrirmi.
“Io intanto pago!” disse.

Non era un sì.
Ma gli assomigliava molto.

Chiudersi a chiave la porta alle spalle, contando che l’antibagno avrebbe garantito un po’ di privacy, senza che gli avventori del bar intuissero ciò che stava accadendo.
Trovarsi con le dita infilate nell’intimità di quella donna che conoscevo da così poco, un inconfondibile rumore di sciacquettìo là in basso, la mia mente che torna alle sue parole sussurrate in un sorriso, divisi da uno dei nostri tanti tavolini: “Io squirto!”. Pensare: “Chi era quella che diceva che trovarsi con la faccia contro un muro di mattonelle la manda fuori di testa come poco altro?”. Baciarle il collo per assaggiarne il sapore, mentre il mio corpo la blocca contro la parete.

E poi un ultimo gesto dopo il sesso. Che mi venne spontaneo e naturale, come mi ero ripromesso con quel “Vediamo che succede”.
Un gesto che lei accolse con un sorpreso ma soddisfatto sorriso: la mia mano che sparisce in mezzo alle sue cosce mentre lei si china per fare pipì dopo la masturbazione interrotta per evitare di fare un macello là in basso senza poter rimediare. Mi trovo un’altra volta il suo sguardo divertito fissarmi attraverso i suoi occhiali femminili.

E quello non era stato l’ultimo dei gesti inaspettati che le avrei regalato quel giorno, in quel piccolo vano piastrellato, di un bianco accecante. Come il desiderio a cui avevamo finalmente dato soddisfazione.
“Ma ti è piaciuto anche quando ho fatto quell’altra cosa?”
“Sì, da morire….” Ci saremmo scritti la sera.
Non saremmo mai più tornati in quel bar.

Next stop: bagno di un elegante bar in zona centro. Il conto salato per due caffè freddi e un biscottino (9 euro… NOVE EURO!) giustificato solamente dallo stato immacolato del pavimento della toilette, che mi rese accettabile l’idea di distendermi a terra per ammirare in tutta la sua gloria il momento in cui avrebbe finalmente soddisfatto per l’ennesima volta quel bisogno impellente dovuto ai troppi bicchieri d’acqua ad accompagnare caffeina e nicotina. Ormai l’intimità era tale che avevo potuto chiederle le mutandine in memoria di una giornata passate assieme, ma solo perché avevamo potuto fare un acquisto con cui fare un onesto scambio.

L’ultimo bagno fu il più inaspettato, ma a suo modo un archetipo dei bagni pubblici da cui non si poteva prescindere. Che, particolarmente nel mio caso, aveva uno status tutto suo. E quando mi arrivò la sua proposta, un suo “Vieni!” detto prendendomi per mano, e trascinandomi fuori dalla folla sotto il palco di un concerto, nel mezzo di un pezzo che stavamo cantando senza conoscerlo, mi sembrò la cosa più ovvia che potesse succedere.
Che di concerti ne ho visti in vita mia. E di storie di pompini nelle toilette di un concerto ne avevo ascoltate. Ma non ne ero mai stato protagonista.

Ritrovarmi in quello spazio angusto in due, certi che fuori sapevano perfettamente ciò che stava accadendo, considerando che si vedevano sia i miei piedi che i suoi, mi trascinò in una realtà fino a quel momento solo narrata, che proprio non riuscivo a fare mia, considerando quanto poco tempo fosse passato per giungere a quella notte a partire da quel primo bacio in sala prof.

Solo un piccolissimo dettaglio era cambiato nel frattempo. Lei aveva lasciato il suo compagno. Ed ogni remora era caduta. Come mi aveva promesso. E la donna che avevo intravisto sotto tanta rigida correttezza, la donna che diceva di sé: “mi vedo un’aura di castità attorno” era emersa. Continuai a chiedermi come avesse potuto tenerla repressa per quei quattro anni. E a sentirmi a mio modo orgoglioso di averla aiutata a rompere il guscio.

Non intendevo peccare di vanità, riconoscendomi solo l’onore di aver dato ascolto alle sue parole, che lei parlava di sé attraverso citazioni letterarie. Parlava di uno spazio tutto suo da riconquistare.

Perché con quel “vieni” era stata lei a condurmi dove non mi aspettavo fino a qualche settimana prima. Quando scrissi quel racconto, rubandole l’identità senza chiedere la sua autorizzazione. Quando la incontrai in attesa del consiglio di classe, per ascoltare le sue concitate parole parlare di figli e del suo precedente lavoro.

Una Beatrice che conduceva Dante dal Purgatorio al Paradiso.
Ma anche una Anna Karenina fermamente convinta di fuggire il suo triste destino.
“Non mi getterò sotto le rotaie di un treno, né giù da un dirupo” mi annunciava solenne.
Chiedendo di essere chiamata come quell’altra Anna il cui nome è legato a Stratford-upon-Avon, ma sentendosi un po’ Romeo, invece.
Una Lara Antipova sicura che il tempo avrebbe giocato a suo favore.
Rifiutandosi di essere una Marguerite con le sue camelie.
Abbracciando o rigettando la sorte di questa o quella figura letteraria femminile.

Perché tutto in lei era teatrale e orgogliosamente letterario. Dalle espressioni che sottolineavano uno stato d’animo o un pensiero, alla maniera con cui raccontava delle sue vicissitudini in questo o in quel contesto, alla passione che metteva nel cercare di spiegarmi quel tecnicismo della linguistica che a me, incline alle scienze, era invece ignoto.

In un contrasto tra alto e basso continuamente destabilizzante ed erotico.

Come quell’immacolato bagno di quel bar in cui ci fecero pagare 9 euro per due caffè ed un biscottino, tanto immacolato quanto sconce erano le tenerezze che ci saremmo scambiati prima che lei mi regalasse le sue mutandine impregnate dell’odore della nostra giornata assieme.

Una appassionata Virginia Woolf che, avendomi concesso l’ingresso in quello spazio tutto suo, preso atto del mio “Guarda, solo il mignolo non è ancora dentro”, prona sul letto, il bacino inarcato verso l’alto per facilitarmi l’operazione mentre le baciavo il collo, rispose “Senti, infilami dentro pure il mignolo. Vediamo che succede!”
di
scritto il
2025-08-22
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