Silenzio in sala
di
P&P
genere
sadomaso
Quando ancora ero un cattolico praticante, seguivo gli incontri di un prete dalle doti comunicative più uniche che rare.
Aveva una voce incredibile, che controllava in maniera impeccabile, modulandola con una maestria non comune.
Volendo essere blasfermo, oserei dire che poteva farti bagnare le mutande solo con la voce.
Il fatto era che, nel suo background, c'era un passato da violoncellista: l'evangelizzatore aveva un invidiabile orecchio musicale che, unito ad un umorismo graffiante ma anche popolare, rendeva le sue prediche al pari di spettacoli di cui non stancarsi mai.
Ricordo ancora una inebriante catechesi sul "non rubare" che durò almeno 5 ore, senza pause, e senza un attimo di cedimento alla noia o alla sonnolenza.
Mi sembra ancora incredibile a ripensarci.
Il prete tenne, per pochi di noi, qualche lezione sulle tecniche di comunicazione e, tra le tante cose, ci invitò a fare attenzione ai silenzi, insegnandoci a riconoscerne i vari tipi.
Da allora non mi fu difficile accorgermi di quei momenti unici in cui regna il silenzio dell'ascolto profondo, quello che può calare anche in una sala piena di gente, quando tutti trattengono il fiato inconsapevolmente, rapiti: una mente sola con l'oratore, che li conduce al guinzaglio della propria voce, nel dipanarsi del discorso, gli occhi fissi su di sé senza possibilità di staccarsi.
Ecco: quel silenzio c'era ieri nella stanza del nostro Day Use Hotel, quando mi snodai la cravatta, passandola quindi nell'asola del choker di cuoio che impreziosiva il suo collo.
E quando, afferrata con forza la stessa cravatta ora assicurata al suo collo, la costrinsi a sollevarsi un poco sulle punte per farsi baciare.
Lo stesso silenzio c'era quando, seduta seminuda sul letto circolare, le intimai di slacciarmi la cintura e farla scivolare nei passanti del pantalone del mio abito scuro, per liberarla e porgermela.
In quel momento sospeso io provavo ad immaginare in che stato fosse laggiù, in mezzo alle sue cosce, pregustando ciò che stava per succedere.
Lo stesso silenzio c'era quando lei era a carponi sul letto, il suo culo a mia disposizione, la cinta che scivolava sulla sua pelle, accarezzandola...
Anzi, no!
In quel momento non c'era lo stesso tipo di silenzio, perché lei si lasciava sfuggire qualche sospiro, e qualche mugolio, soprattutto quando io non resistevo e - contravvenendo al distaccato ruolo di cui mi ero rivestito in quel momento - le lasciavo scivolare le dita nella sua intimità fradicia, o direttamente nella rosellina a mia disposizione.
Gli stessi sospiri che rilasciava poco prima quando - supina, ginocchia aperte - avendole chiesto di divaricare con le dita le grandi labbra, mi ero inchinato in mezzo alle sue cosce per odorarla, soffiandole sul clitoride.
Ma invece, quel silenzio era tornato qualche istante dopo.
Quando lei era in attesa.
Senza guardarmi, che la sua faccia era schiacciata sul letto.
Quando cercava di intuire i miei movimenti per capire quando sarebbe arrivato il prossimo colpo.
E doveva trattenere il fiato. Per prepararsi.
E io gustavo quel silenzio.
Sapendo che l'avrei rotto di lì a poco.
Il rumore che ruppe il silenzio era lo schiocco della cintura.
Impeccabile.
Tagliente.
La vibrazione della striscia di cuoio che la colpiva sulle natiche.
A cui fece eco un suo nuovo sospiro.
In realtà, in quel momento, non avevo fatto troppo caso alla grana di quello schiocco, ché ero concentrato su altro: sui segni rossi lasciati dalla cintura sulla pelle dei suoi glutei; sulla sensazione di "fare bene" anche in un ruolo a cui non ero abituato; sul suo corpo inginocchiato a mia disposizione; sull'odore di lei che mi era rimasto nelle narici oppure nella testa, ché non avevo resistito a infilare il mio naso tra le sue natiche per odorarla e leccarle il buchino alla mia mercé.
E quindi, in quegli interminabili minuti, proprio non avevo colto l'intensità di quel suono, al contrario di lei che ne assaporava ogni sfumatura.
Nonostante quel silenzio contrastasse con l’abituale ciarliera vitalità del nostro sesso, normalmente condito da chiacchiere, battute e tenerezze, mentre quel giorno avevo inizialmente deciso di mettere da parte le parole per gustare ogni istante, quasi stupito del ruolo che lei mi aveva concesso e richiesto di ricoprire: quello del dispensatore di dolore, certa che al dolore sarebbe seguito il piacere.
“Io non voglio pensare. Non voglio decidere. Fai di me quello che vuoi.”
Lei voleva non pensare; bramava solamente ricevere altri colpi di cinghia sulle proprie natiche: quelli attendeva da me, dopo tanto tempo.
“Ti farò delle domande: se risponderai correttamente ti darò quello che desideri, altrimenti mi interromperò”
Attesi qualche istante, per sincerarmi che avesse capito.
Le posi la prima, scandendo le parole; domanda a cui lei rispose correttamente, ricevendo in premio 5 colpi di cintura, un sospiro per ogni schiocco.
La cinta di cuoio nera sembrava essere stata fabbricata per quello scopo: l’avevo comprata qualche anno addietro, in un tempo i cui non immaginavo che sarebbe diventata lo strumento di un legame con una donna che ancora dovevo conoscere
Poi la seconda, e lei nuovamente si fece trovare preparata, ricevendo i desiderati altri 5 colpi, inferti con misurata lentezza.
(lei non avrebbe resistito a darmi qualche istruzione, chiedendo di alternare il lato così da bilanciare il dolore)
Ma quelle erano solamente domande introduttive all’unica che volevo porle dall’inizio, l’unica che veramente mi importasse e che l’avrebbe condotta di fronte al dilemma: darmi ragione e ricevere in premio altre 10 scudisciate, oppure mantenere il punto, su una cosa discussa tante volte, che riguardava noi due, e non solo.
La nostra complicata storia. E le nostre vite.
E non solo.
Una domanda apparentemente innocua: “E’ importante che su whatsapp abbia scritto “qual’è”, con l’apostrofo?”
Si girò a guardarmi corrucciando la fronte, le sue labbra increspate da un doloroso sorriso, avendo intuito dove volessi andare a parare.
“Sì, è importante, perché è sbagliato. Non si scrive così!”
“Non è quello il punto: certo che si scrive senza apostrofo, lo so bene. Ma è così importante?”
“… ma è sbagliato…” replicò lamentosa, sapendo bene che insistere sulla sua posizione le avrebbe sottratto quello che voleva.
“Sei proprio testarda…” conclusi e poi non aggiunsi altro e pure lei non proferì parola, nuda con le ginocchia al petto, distesa di fianco sulle lenzuola ancora candide e asciutte, io seduto accanto a lei nel mio impeccabile abito grigio scuro, accarezzando i capelli della mia bimba.
Poggiai la cintura sul letto circolare distendendomi accanto a lei.
“Basta frustate, allora, peggio per te…”
“…ma… è… sbagliato… non posso accettarlo un errore del genere…”
Cominciai a spogliarmi, che Sonia era adorabile in quel momento di fragilità, ed io era tutto il giorno che volevo fare l’amore con lei. E mi faceva impazzire il fatto che la grammar-nazi dentro la prof non facesse un passo indietro, pur sapendo a cosa stava rinunciando per non concedere un po’ di misericordia di fronte ad un errore per me veniale.
Errore, che peraltro, non ero stato io a commettere.
Perché lui avrà avuto la colpa di una ortografia incerta, ma aveva mille altri pregi che non potevano essere messi in secondo piano di fronte ad un apostrofo di troppo, primo fra tutti quello di essere single.
“Va bene, facciamo così.” Provò a negoziare, sperando che riprendessi in mano la cintura per sentirne di nuovo il suono dei colpi su di sé
“Scrivere “qual’è” , è sbagliato, ma gli concederò comunque di andare alle terme insieme, va bene?”
“Sei una paracula! Mi spiace: basta frustate…” che, ammettiamolo, in fondo ero più contento così, che due ore passano in fretta. Ed io ancora non avevo potuto scivolarle dentro e farmi bagnare da lei.
E la nostra stanza si sarebbe riempita delle nostre risate e delle nostre chiacchiere e delle nostre volgarità sussurrate tra denti stretti: il caos delle nostre quotidiane interazioni, io che non capivo mai un cazzo e lei che aveva una testa capace di immagazzinare miliardi di informazioni con impressionante precisione.
Il silenzio non avrebbe avuto più dimora in quella stanza quel pomeriggio.
Tornai il giorno seguente a godere del suono di quelle frustate che emergeva in tutto il suo splendore dal silenzio profondo del nostro gioco, quando insieme rivedemmo qualche minuto del video che avevamo registrato a testimonianza di quel pomeriggio unico.
Nel parcheggio di scuola, bevendo il caffè, sotto un sole accecante.
Facemmo partire il video dal suo cellulare e - nel calma della assolata mattinata romana, gli studenti tutti nelle loro classi - quel suono... cazzo: un colpo di pistola risuonò tra di noi.
Lo schiocco che taglia come una lametta quel silenzio profondo di cui parlava quel prete dall’abito nero come la mia cinta di cuoio, in un contrasto che ne accentuava la violenza, che mi diede un brivido nel riascoltarlo.
Ci fissammo negli occhi a quel suono, un sorriso soddisfatto sulle sue labbra, e mille parole mai pronunciate per descrivere le sensazioni che avevamo provato il giorno prima.
Ora... l'unico dubbio che mi resta è che, distratti, non ci fossimo accorti della collega che arrivava proprio in quell'istante, sulla sua bicicletta; la collega che, sorridente e maliziosa, avrebbe fatto una battutina sul fatto di trovarci là insieme, "come piccioncini" (una figura un po' melensa che non si addiceva esattamente a quello che stavamo guardando in quel momento).
La prof di motoria che noi avremmo salutato senza tradire l'imbarazzo per essere stati scoperti nel guardare un video dai contenuti discutibili, noi protagonisti, lo stupendo sedere di Sonia a dominare la scena nella sua cerea carnagione, il resto delle sagome che andavano dal verde erba della tappezzeria al grigio scuro del mio vestito.
Perché, ok: lei aveva spiegato il giorno prima a quella collega il motivo di tanto insistito consumo di succo d'ananas (bevanda che non era mai stata fino a ieri nelle sue abitudini, e a cui la collega aveva reagito con una smorfia di disappunto).
E avrebbe potuto anche mostrarle la foto di due zucchine che le avevo inviato su Whatsapp direttamente dal Todis a poche centinaia di metri dalla scuola.
Ma credo invece che Sonia non avesse avuto ancora modo di raccontarle che mi sarei presentato a scuola da lei, vestito di tutto punto: abito scuro, camicia bianca e cravatta, come quando - anni fa - mi preparavo per le negoziazioni con i clienti, in cui erano in gioco contratti da decine di milioni di euro.
Un lungo cappotto grigio a coprire il tutto.
Ed una cintura nera ai fianchi.
Che non mi sarebbe servita solo per reggere i pantaloni.
Ci sarà modo di raccontare del succo d'ananas.
E delle zucchine.
Ma quelli son dettagli secondari.
Aveva una voce incredibile, che controllava in maniera impeccabile, modulandola con una maestria non comune.
Volendo essere blasfermo, oserei dire che poteva farti bagnare le mutande solo con la voce.
Il fatto era che, nel suo background, c'era un passato da violoncellista: l'evangelizzatore aveva un invidiabile orecchio musicale che, unito ad un umorismo graffiante ma anche popolare, rendeva le sue prediche al pari di spettacoli di cui non stancarsi mai.
Ricordo ancora una inebriante catechesi sul "non rubare" che durò almeno 5 ore, senza pause, e senza un attimo di cedimento alla noia o alla sonnolenza.
Mi sembra ancora incredibile a ripensarci.
Il prete tenne, per pochi di noi, qualche lezione sulle tecniche di comunicazione e, tra le tante cose, ci invitò a fare attenzione ai silenzi, insegnandoci a riconoscerne i vari tipi.
Da allora non mi fu difficile accorgermi di quei momenti unici in cui regna il silenzio dell'ascolto profondo, quello che può calare anche in una sala piena di gente, quando tutti trattengono il fiato inconsapevolmente, rapiti: una mente sola con l'oratore, che li conduce al guinzaglio della propria voce, nel dipanarsi del discorso, gli occhi fissi su di sé senza possibilità di staccarsi.
Ecco: quel silenzio c'era ieri nella stanza del nostro Day Use Hotel, quando mi snodai la cravatta, passandola quindi nell'asola del choker di cuoio che impreziosiva il suo collo.
E quando, afferrata con forza la stessa cravatta ora assicurata al suo collo, la costrinsi a sollevarsi un poco sulle punte per farsi baciare.
Lo stesso silenzio c'era quando, seduta seminuda sul letto circolare, le intimai di slacciarmi la cintura e farla scivolare nei passanti del pantalone del mio abito scuro, per liberarla e porgermela.
In quel momento sospeso io provavo ad immaginare in che stato fosse laggiù, in mezzo alle sue cosce, pregustando ciò che stava per succedere.
Lo stesso silenzio c'era quando lei era a carponi sul letto, il suo culo a mia disposizione, la cinta che scivolava sulla sua pelle, accarezzandola...
Anzi, no!
In quel momento non c'era lo stesso tipo di silenzio, perché lei si lasciava sfuggire qualche sospiro, e qualche mugolio, soprattutto quando io non resistevo e - contravvenendo al distaccato ruolo di cui mi ero rivestito in quel momento - le lasciavo scivolare le dita nella sua intimità fradicia, o direttamente nella rosellina a mia disposizione.
Gli stessi sospiri che rilasciava poco prima quando - supina, ginocchia aperte - avendole chiesto di divaricare con le dita le grandi labbra, mi ero inchinato in mezzo alle sue cosce per odorarla, soffiandole sul clitoride.
Ma invece, quel silenzio era tornato qualche istante dopo.
Quando lei era in attesa.
Senza guardarmi, che la sua faccia era schiacciata sul letto.
Quando cercava di intuire i miei movimenti per capire quando sarebbe arrivato il prossimo colpo.
E doveva trattenere il fiato. Per prepararsi.
E io gustavo quel silenzio.
Sapendo che l'avrei rotto di lì a poco.
Il rumore che ruppe il silenzio era lo schiocco della cintura.
Impeccabile.
Tagliente.
La vibrazione della striscia di cuoio che la colpiva sulle natiche.
A cui fece eco un suo nuovo sospiro.
In realtà, in quel momento, non avevo fatto troppo caso alla grana di quello schiocco, ché ero concentrato su altro: sui segni rossi lasciati dalla cintura sulla pelle dei suoi glutei; sulla sensazione di "fare bene" anche in un ruolo a cui non ero abituato; sul suo corpo inginocchiato a mia disposizione; sull'odore di lei che mi era rimasto nelle narici oppure nella testa, ché non avevo resistito a infilare il mio naso tra le sue natiche per odorarla e leccarle il buchino alla mia mercé.
E quindi, in quegli interminabili minuti, proprio non avevo colto l'intensità di quel suono, al contrario di lei che ne assaporava ogni sfumatura.
Nonostante quel silenzio contrastasse con l’abituale ciarliera vitalità del nostro sesso, normalmente condito da chiacchiere, battute e tenerezze, mentre quel giorno avevo inizialmente deciso di mettere da parte le parole per gustare ogni istante, quasi stupito del ruolo che lei mi aveva concesso e richiesto di ricoprire: quello del dispensatore di dolore, certa che al dolore sarebbe seguito il piacere.
“Io non voglio pensare. Non voglio decidere. Fai di me quello che vuoi.”
Lei voleva non pensare; bramava solamente ricevere altri colpi di cinghia sulle proprie natiche: quelli attendeva da me, dopo tanto tempo.
“Ti farò delle domande: se risponderai correttamente ti darò quello che desideri, altrimenti mi interromperò”
Attesi qualche istante, per sincerarmi che avesse capito.
Le posi la prima, scandendo le parole; domanda a cui lei rispose correttamente, ricevendo in premio 5 colpi di cintura, un sospiro per ogni schiocco.
La cinta di cuoio nera sembrava essere stata fabbricata per quello scopo: l’avevo comprata qualche anno addietro, in un tempo i cui non immaginavo che sarebbe diventata lo strumento di un legame con una donna che ancora dovevo conoscere
Poi la seconda, e lei nuovamente si fece trovare preparata, ricevendo i desiderati altri 5 colpi, inferti con misurata lentezza.
(lei non avrebbe resistito a darmi qualche istruzione, chiedendo di alternare il lato così da bilanciare il dolore)
Ma quelle erano solamente domande introduttive all’unica che volevo porle dall’inizio, l’unica che veramente mi importasse e che l’avrebbe condotta di fronte al dilemma: darmi ragione e ricevere in premio altre 10 scudisciate, oppure mantenere il punto, su una cosa discussa tante volte, che riguardava noi due, e non solo.
La nostra complicata storia. E le nostre vite.
E non solo.
Una domanda apparentemente innocua: “E’ importante che su whatsapp abbia scritto “qual’è”, con l’apostrofo?”
Si girò a guardarmi corrucciando la fronte, le sue labbra increspate da un doloroso sorriso, avendo intuito dove volessi andare a parare.
“Sì, è importante, perché è sbagliato. Non si scrive così!”
“Non è quello il punto: certo che si scrive senza apostrofo, lo so bene. Ma è così importante?”
“… ma è sbagliato…” replicò lamentosa, sapendo bene che insistere sulla sua posizione le avrebbe sottratto quello che voleva.
“Sei proprio testarda…” conclusi e poi non aggiunsi altro e pure lei non proferì parola, nuda con le ginocchia al petto, distesa di fianco sulle lenzuola ancora candide e asciutte, io seduto accanto a lei nel mio impeccabile abito grigio scuro, accarezzando i capelli della mia bimba.
Poggiai la cintura sul letto circolare distendendomi accanto a lei.
“Basta frustate, allora, peggio per te…”
“…ma… è… sbagliato… non posso accettarlo un errore del genere…”
Cominciai a spogliarmi, che Sonia era adorabile in quel momento di fragilità, ed io era tutto il giorno che volevo fare l’amore con lei. E mi faceva impazzire il fatto che la grammar-nazi dentro la prof non facesse un passo indietro, pur sapendo a cosa stava rinunciando per non concedere un po’ di misericordia di fronte ad un errore per me veniale.
Errore, che peraltro, non ero stato io a commettere.
Perché lui avrà avuto la colpa di una ortografia incerta, ma aveva mille altri pregi che non potevano essere messi in secondo piano di fronte ad un apostrofo di troppo, primo fra tutti quello di essere single.
“Va bene, facciamo così.” Provò a negoziare, sperando che riprendessi in mano la cintura per sentirne di nuovo il suono dei colpi su di sé
“Scrivere “qual’è” , è sbagliato, ma gli concederò comunque di andare alle terme insieme, va bene?”
“Sei una paracula! Mi spiace: basta frustate…” che, ammettiamolo, in fondo ero più contento così, che due ore passano in fretta. Ed io ancora non avevo potuto scivolarle dentro e farmi bagnare da lei.
E la nostra stanza si sarebbe riempita delle nostre risate e delle nostre chiacchiere e delle nostre volgarità sussurrate tra denti stretti: il caos delle nostre quotidiane interazioni, io che non capivo mai un cazzo e lei che aveva una testa capace di immagazzinare miliardi di informazioni con impressionante precisione.
Il silenzio non avrebbe avuto più dimora in quella stanza quel pomeriggio.
Tornai il giorno seguente a godere del suono di quelle frustate che emergeva in tutto il suo splendore dal silenzio profondo del nostro gioco, quando insieme rivedemmo qualche minuto del video che avevamo registrato a testimonianza di quel pomeriggio unico.
Nel parcheggio di scuola, bevendo il caffè, sotto un sole accecante.
Facemmo partire il video dal suo cellulare e - nel calma della assolata mattinata romana, gli studenti tutti nelle loro classi - quel suono... cazzo: un colpo di pistola risuonò tra di noi.
Lo schiocco che taglia come una lametta quel silenzio profondo di cui parlava quel prete dall’abito nero come la mia cinta di cuoio, in un contrasto che ne accentuava la violenza, che mi diede un brivido nel riascoltarlo.
Ci fissammo negli occhi a quel suono, un sorriso soddisfatto sulle sue labbra, e mille parole mai pronunciate per descrivere le sensazioni che avevamo provato il giorno prima.
Ora... l'unico dubbio che mi resta è che, distratti, non ci fossimo accorti della collega che arrivava proprio in quell'istante, sulla sua bicicletta; la collega che, sorridente e maliziosa, avrebbe fatto una battutina sul fatto di trovarci là insieme, "come piccioncini" (una figura un po' melensa che non si addiceva esattamente a quello che stavamo guardando in quel momento).
La prof di motoria che noi avremmo salutato senza tradire l'imbarazzo per essere stati scoperti nel guardare un video dai contenuti discutibili, noi protagonisti, lo stupendo sedere di Sonia a dominare la scena nella sua cerea carnagione, il resto delle sagome che andavano dal verde erba della tappezzeria al grigio scuro del mio vestito.
Perché, ok: lei aveva spiegato il giorno prima a quella collega il motivo di tanto insistito consumo di succo d'ananas (bevanda che non era mai stata fino a ieri nelle sue abitudini, e a cui la collega aveva reagito con una smorfia di disappunto).
E avrebbe potuto anche mostrarle la foto di due zucchine che le avevo inviato su Whatsapp direttamente dal Todis a poche centinaia di metri dalla scuola.
Ma credo invece che Sonia non avesse avuto ancora modo di raccontarle che mi sarei presentato a scuola da lei, vestito di tutto punto: abito scuro, camicia bianca e cravatta, come quando - anni fa - mi preparavo per le negoziazioni con i clienti, in cui erano in gioco contratti da decine di milioni di euro.
Un lungo cappotto grigio a coprire il tutto.
Ed una cintura nera ai fianchi.
Che non mi sarebbe servita solo per reggere i pantaloni.
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