Platani a primavera
di
Anonima1981
genere
etero
Nel campetto di periferia, polveroso e con pochi fili d’erba, una dozzina di ragazzini, non più bambini ma non ancora adolescenti, si contendeva con ferocia un pallone cercando di scaraventarlo in una delle due porte delimitate da pile multicolori di indumenti. Il sole primaverile, già caldo, era ancora alto nel cielo azzurro.
Seduta nell’elegante berlina scura parcheggiata poco distante, nell’ombra accogliente di un vecchio platano, li osservavo correre sudati, urlanti e felici. Pensavo ai miei figli, poco più grandi di questi. Forse stavano correndo anche loro, da qualche parte, dietro un pallone.
C’era silenzio tra noi. Non servivano molte parole quel giorno. L’uomo al mio fianco teneva la mano sinistra sul volante, lo sguardo mi cadeva spesso sulla grossa fede matrimoniale che brillava al suo anulare. La destra sul mio ginocchio, le dita ad accarezzarmi lievi la pelle. In fondo era la solita storia. La storia di un uomo di mezza età che sente il tempo che corre veloce e di una donna alle soglie della stessa stagione della vita che cerca qualcuno che sappia ancora vederla.
Di noi conoscevamo soltanto i nomi, un numero di telefono, un indirizzo di mail (ovviamente quella “segreta”) e i “nickname” con cui ci eravamo incontrati in una chat dove ci avevano portato un matrimonio annoiato e un marito colpevolmente distratto.
Poco lontano era parcheggiata un’altra auto, più piccola, rossa. Dentro, una coppia rideva e si baciava. La donna aveva dei lunghi capelli scuri, era giovane, parecchio più giovane di me. Lui le accarezzava la guancia. Sembravano quasi felici. Li guardavo distratta, la mano sinistra celata allo sguardo si muoveva un poco incerta nei pantaloni del mio occasionale compagno, Luigi.
Poi mi ero girata a guardarlo. Un bell’uomo, le tempie ingrigite dal tempo, gli occhi chiari socchiusi per la luce del sole e per il primo piacere. La sua mano, sotto l’orlo della gonna già un po’ sollevata, scivolava lenta ma senza incertezze sulla pelle delle mie cosce.
Mi piaceva che non avesse incertezze, era questo che volevo da lui. Ho allargato un poco le gambe, un leggero sorriso gli ha increspato le labbra. Poco prima, quando ancora ero a casa, ero rimasta in dubbio davanti allo specchio chiedendomi se era meglio indossare i collant o le autoreggenti. Avevo deciso di non indossare nulla! Solo la piccola mutandina di pizzo bianco sotto la gonna.
Il membro stretto nella mia mano…
“No, non così… Se hai deciso di raccontarlo devi farlo per bene e decisa, Anna! Sei qui per questo!” Dunque… se ora chiudo gli occhi è come se fossi ancora lì, adesso, in quel preciso momento..
Il cazzo stretto tra le mie dita è teso, duro, caldo. Grosso. Non troppo lungo ma con una bella circonferenza. (“Si parla di circonferenza o di diametro quando ci si riferisce alla larghezza di un cazzo? Che razza di domande ti vengono in mente mentre tieni in mano il cazzo di un uomo che quasi non conosci?! Ci sarebbe da ridere a pensarci bene!).
Fatico a stringerlo tutto, non riesco a circondarlo con le mie dita lunghe, magre e nervose, “dita da pianista” diceva mia madre quando io ero ancora una bimba e lei così giovane e bella. Con il pollice accarezzo il glande esposto e già umido, seguo il contorno del cercine. Lui trattiene il respiro, il cazzo sembra diventare ancora più duro, l’addome contratto.
Dopotutto è proprio la solita storia. Una storia da chat: lei che cerca qualcuno con cui parlare, che la faccia sentire ancora una donna, qualcuno che la guardi e soprattutto la veda davvero. Lui che vuole una donna diversa, un corpo e una pelle che non conosce e che vuole esplorare, un odore nuovo. Senza tante complicazioni, un’avventura, forse una relazione più lunga. Parlare: si, va bene! Ma anche altro.. eccitazione, erotismo, rischio, pericolo, sesso… alla fine.. una scopata fuori dal solito letto. Che in fondo, se davvero vogliamo guardare bene, è anche quello che cerca lei, la donna che finge di essere preda, di “voler solo parlare!” e invece vuole sentirsi troia. Ancora in grado di far impazzire un uomo di desiderio. Come voglio io, oggi.
E’ la quarta volta che incontro Luigi. Quando ho trovato il coraggio di uscire dal confortevole rifugio del mio laptop ci siamo trovati in un bar del centro città. Un caffè per decidere se rivederci di nuovo o lasciar perdere. La seconda volta sono salita sulla sua auto e abbiamo di nuovo parlato, le labbra si sono sfiorate al momento dei saluti e della richiesta di un nuovo incontro.
La volta successiva ci ha accolto l’ombra del platano sotto il quale siamo anche ora: i baci sono stati più audaci, le lingue si sono incontrate, la mano sotto la gonna. L’ho fermato, quella volta. Avevo paura che ci vedesse qualcuno. Gli ho permesso solo il seno nudo nella sua mano e il mio roco respiro quando le labbra si sono posate sul capezzolo eretto, da succhiare, leccare e mordere con voglia impaziente. Ho lasciato che mi guidasse la mano sul grembo per farmi apprezzare il desiderio di me. Ma mi sono irrigidita e retratta. L’abbaiare di un cane, il richiamo del suo padrone, il pianto lontano di un bimbo, il rumore di un motorino che passava nella strada vicina.
“Rilassati, Anna! Di cosa hai paura?” mi ha chiesto con la voce soffocata contro il mio seno. “Di tutto. Che ci veda qualcuno che passa. Che mi veda qualcuno che magari mi conosce! Di tutto, ho paura” gli ho risposto in quel giorno che ha aperto la strada.
Oggi non l’ho fermato. La sua mano è stretta tra le mie cosce nude e sudate, un dito accarezza il solco di pesca coperto da un velo di già umido pizzo. Un gioco lento e sicuro a sfiorare e sollecitare il bocciolo curioso per poi scivolare verso la vulva bagnata, e ripetere ancora e ancora e ancora, in un folle, eccitante ed inesauribile moto.
Si gira verso di me. Mi bacia, profonda la sua lingua nella mia bocca. La mano abbandona la mia umida intimità e subito mi sento persa, svuotata. Mi guarda con un sorriso incerto e mi offre il dito bagnato di me. Lo prendo fra le labbra, lo accarezzo con la lingua, il dito è vivo nella mia bocca. Gli occhi accesi nei suoi. La via da percorrere è davanti a noi, sappiamo che faremo un po’ di strada insieme, non sappiamo quanto lunga sarà ma ci sarà una fine e dopo, forse, verranno amari i ricordi e crudeli i rimorsi.
Poco distante si ferma un’altra auto. Un’altra coppia, di certo clandestina. Lei si gira e mi guarda per qualche istante, poi abbassa il viso e si rifugia tra le braccia del suo compagno. Il fatto di sapere che altre coppie, che altre donne sono lì, in qualche modo mi tranquillizza e al tempo stesso mi eccita.
Lui ha slacciato la cintura dei pantaloni, sono aperti su un paio di boxer neri. Sotto il sottile cotone la mia mano stringe il cazzo eretto. Il glande spinge gonfio contro l’elastico. Una macchia più scura bagna il tessuto.
Di nuovo, la mano ripercorre la via tra le mie cosce, scosta il pizzo sottile per lasciare agevole campo alle dita esperte che conoscono il gioco tra le labbra gonfie e il fradicio nido. Chiudo gli occhi e mi lascio trasportare tra le fiamme del paradiso. Lontani sono ora l’abbaiare dei cani, il pianto dei bimbi, l’allegro vociare dell’interminabile partita di pallone. Non più motorini o clacson nervosi. Nessuno mi conosce, nessuno bada a me. Solo lui.
Il sole è ancora alto, ma l’ombra del frondoso platano è come una nicchia, un’alcova che protegge e nasconde i nostri gesti proibiti. Il cazzo ora è fuori dagli inutili boxer. Bello, grosso, duro. La mia mano destra lo impugna facendo scorrere il prepuzio a coprire e scoprire il glande, rosso, umido, pulsante. Con l’altra mano accarezzo le turgide vene del dorso dell’asta, gioco con i riccioli bruni e sudati, soppeso, sorridendo, i testicoli. Non ho più timore né vergogna. Solo voglia. Siamo soli in mezzo alla città che vive e non bada a noi.
Sollevo la testa e mi perdo nei suoi occhi eccitati che pregano muti. Sorrido e mi chino sul suo grembo. La sua mano mi accarezza i capelli senza fare alcuna pressione. Respiro il profumo di maschio, le labbra quasi posate sul glande umido e caldo. Appoggio la guancia sulle sue gambe, il cazzo a portata di lingua. Guardo la mia mano che impugna lo scettro di carne. L’anulare vestito del mio anello di nozze, all’interno incisa la data.
Poi levo lo sguardo sul viso di lui, mi sta divorando con gli occhi. Ma non è ancora il momento. Socchiudo le labbra, la lingua si posa morbida sulla punta arrossata, si sofferma sul tenero frenulo e poi accarezza il cercine che circonda il glande. La mano tra i miei capelli ora mi spinge più attiva, vuole che lo divori ma ancora non voglio.
Scendo con la lingua dalla punta alla base del cazzo per poi risalire con teneri baci fino al glande. Lo assaporo di nuovo con lunghe leccate come fosse un gustoso gelato, con gli occhi socchiusi allacciati ai suoi. Voglio che veda quello che faccio, voglio che conosca il mio piacere.
La sua mano in mezzo alle cosce si muove senza che io più la freni, la gonna risalita fin quasi all’inguine, la mutandina scostata e ormai nemmeno più un ostacolo. Le sue dita dentro di me, piegate nel frutto odoroso come piccoli uncini feroci che mi dilatano e mi fanno impazzire. Ora è il momento.
Apro le labbra e lo faccio entrare in bocca, i denti quasi graffiano il glande. Lui trattiene il respiro. Le labbra scivolano lungo il bastone di carne che mi riempie la bocca. Il naso a sfiorare il pube bruno e peloso, a catturarne il sudore. La mano ora spinge, vuole che lo prenda tutto, soffoco il conato di vomito e mi arriva quasi in gola.
Le dita infuriano dentro di me, le accompagno con i movimenti del bacino. Vorrei dentro di me il cazzo che sto mangiando. Non posso ora, ci sarà modo. Più non resisto. Lui mi sta scopando la bocca, accompagna con il ventre le spinte della sua mano tra i miei capelli scomposti. Poi, quasi con voce tremante, mi avverte che sta per godere. Un pensiero carino, penso dentro di me. Ma non lascio. Voglio sentire il suo sapore.
Accelero il ritmo della mano e della bocca. Lui mi imita dentro il mio lago in tempesta.
Poi, il respiro si ferma. Improvvise e attese sento aumentare ancora di più le sue spinte, sento l’onda che sale, un sapore diverso, un liquido caldo, cremoso. Mi riempie la gola, mi sfugge dalle labbra, mi scivola in gola. Deglutisco, raccolgo con la lingua assetata tutto quello che posso e lo lascio scivolare dentro di me. Chiudo gli occhi per meglio vedere il lampo che ora mi esplode nella testa, chiudo gli occhi per meglio sentire il terremoto che mi sconquassa il ventre.
Le dita non mi danno ancora pace, alla prima onda ne segue un’altra, ancora più intensa. Sollevo la testa e lo guardo. Ora ha gli occhi spalancati su me. Con la lingua finisco il lavoro. Poi mi sollevo a baciarlo e gli offro il suo sapore nella mia bocca.
Lo sguardo scivola sull’auto vicina. Vedo solo il guidatore, gli occhi chiusi, il capo contro il poggiatesta. Ogni tanto i capelli della ragazza che solleva e abbassa la testa. Mi viene da ridere. Per i rimorsi ci sarà tempo e magari nemmeno verranno. Di nuovo sento vicino l’abbaiare di un cane, il richiamo di una giovane mamma, l’esplosione di gioia per un bel tiro di palla.
Una canzone dal finestrino abbassato di un’auto che passa “…ma il treno dei desideri, nei miei pensieri all’incontrario va…”.
Seduta nell’elegante berlina scura parcheggiata poco distante, nell’ombra accogliente di un vecchio platano, li osservavo correre sudati, urlanti e felici. Pensavo ai miei figli, poco più grandi di questi. Forse stavano correndo anche loro, da qualche parte, dietro un pallone.
C’era silenzio tra noi. Non servivano molte parole quel giorno. L’uomo al mio fianco teneva la mano sinistra sul volante, lo sguardo mi cadeva spesso sulla grossa fede matrimoniale che brillava al suo anulare. La destra sul mio ginocchio, le dita ad accarezzarmi lievi la pelle. In fondo era la solita storia. La storia di un uomo di mezza età che sente il tempo che corre veloce e di una donna alle soglie della stessa stagione della vita che cerca qualcuno che sappia ancora vederla.
Di noi conoscevamo soltanto i nomi, un numero di telefono, un indirizzo di mail (ovviamente quella “segreta”) e i “nickname” con cui ci eravamo incontrati in una chat dove ci avevano portato un matrimonio annoiato e un marito colpevolmente distratto.
Poco lontano era parcheggiata un’altra auto, più piccola, rossa. Dentro, una coppia rideva e si baciava. La donna aveva dei lunghi capelli scuri, era giovane, parecchio più giovane di me. Lui le accarezzava la guancia. Sembravano quasi felici. Li guardavo distratta, la mano sinistra celata allo sguardo si muoveva un poco incerta nei pantaloni del mio occasionale compagno, Luigi.
Poi mi ero girata a guardarlo. Un bell’uomo, le tempie ingrigite dal tempo, gli occhi chiari socchiusi per la luce del sole e per il primo piacere. La sua mano, sotto l’orlo della gonna già un po’ sollevata, scivolava lenta ma senza incertezze sulla pelle delle mie cosce.
Mi piaceva che non avesse incertezze, era questo che volevo da lui. Ho allargato un poco le gambe, un leggero sorriso gli ha increspato le labbra. Poco prima, quando ancora ero a casa, ero rimasta in dubbio davanti allo specchio chiedendomi se era meglio indossare i collant o le autoreggenti. Avevo deciso di non indossare nulla! Solo la piccola mutandina di pizzo bianco sotto la gonna.
Il membro stretto nella mia mano…
“No, non così… Se hai deciso di raccontarlo devi farlo per bene e decisa, Anna! Sei qui per questo!” Dunque… se ora chiudo gli occhi è come se fossi ancora lì, adesso, in quel preciso momento..
Il cazzo stretto tra le mie dita è teso, duro, caldo. Grosso. Non troppo lungo ma con una bella circonferenza. (“Si parla di circonferenza o di diametro quando ci si riferisce alla larghezza di un cazzo? Che razza di domande ti vengono in mente mentre tieni in mano il cazzo di un uomo che quasi non conosci?! Ci sarebbe da ridere a pensarci bene!).
Fatico a stringerlo tutto, non riesco a circondarlo con le mie dita lunghe, magre e nervose, “dita da pianista” diceva mia madre quando io ero ancora una bimba e lei così giovane e bella. Con il pollice accarezzo il glande esposto e già umido, seguo il contorno del cercine. Lui trattiene il respiro, il cazzo sembra diventare ancora più duro, l’addome contratto.
Dopotutto è proprio la solita storia. Una storia da chat: lei che cerca qualcuno con cui parlare, che la faccia sentire ancora una donna, qualcuno che la guardi e soprattutto la veda davvero. Lui che vuole una donna diversa, un corpo e una pelle che non conosce e che vuole esplorare, un odore nuovo. Senza tante complicazioni, un’avventura, forse una relazione più lunga. Parlare: si, va bene! Ma anche altro.. eccitazione, erotismo, rischio, pericolo, sesso… alla fine.. una scopata fuori dal solito letto. Che in fondo, se davvero vogliamo guardare bene, è anche quello che cerca lei, la donna che finge di essere preda, di “voler solo parlare!” e invece vuole sentirsi troia. Ancora in grado di far impazzire un uomo di desiderio. Come voglio io, oggi.
E’ la quarta volta che incontro Luigi. Quando ho trovato il coraggio di uscire dal confortevole rifugio del mio laptop ci siamo trovati in un bar del centro città. Un caffè per decidere se rivederci di nuovo o lasciar perdere. La seconda volta sono salita sulla sua auto e abbiamo di nuovo parlato, le labbra si sono sfiorate al momento dei saluti e della richiesta di un nuovo incontro.
La volta successiva ci ha accolto l’ombra del platano sotto il quale siamo anche ora: i baci sono stati più audaci, le lingue si sono incontrate, la mano sotto la gonna. L’ho fermato, quella volta. Avevo paura che ci vedesse qualcuno. Gli ho permesso solo il seno nudo nella sua mano e il mio roco respiro quando le labbra si sono posate sul capezzolo eretto, da succhiare, leccare e mordere con voglia impaziente. Ho lasciato che mi guidasse la mano sul grembo per farmi apprezzare il desiderio di me. Ma mi sono irrigidita e retratta. L’abbaiare di un cane, il richiamo del suo padrone, il pianto lontano di un bimbo, il rumore di un motorino che passava nella strada vicina.
“Rilassati, Anna! Di cosa hai paura?” mi ha chiesto con la voce soffocata contro il mio seno. “Di tutto. Che ci veda qualcuno che passa. Che mi veda qualcuno che magari mi conosce! Di tutto, ho paura” gli ho risposto in quel giorno che ha aperto la strada.
Oggi non l’ho fermato. La sua mano è stretta tra le mie cosce nude e sudate, un dito accarezza il solco di pesca coperto da un velo di già umido pizzo. Un gioco lento e sicuro a sfiorare e sollecitare il bocciolo curioso per poi scivolare verso la vulva bagnata, e ripetere ancora e ancora e ancora, in un folle, eccitante ed inesauribile moto.
Si gira verso di me. Mi bacia, profonda la sua lingua nella mia bocca. La mano abbandona la mia umida intimità e subito mi sento persa, svuotata. Mi guarda con un sorriso incerto e mi offre il dito bagnato di me. Lo prendo fra le labbra, lo accarezzo con la lingua, il dito è vivo nella mia bocca. Gli occhi accesi nei suoi. La via da percorrere è davanti a noi, sappiamo che faremo un po’ di strada insieme, non sappiamo quanto lunga sarà ma ci sarà una fine e dopo, forse, verranno amari i ricordi e crudeli i rimorsi.
Poco distante si ferma un’altra auto. Un’altra coppia, di certo clandestina. Lei si gira e mi guarda per qualche istante, poi abbassa il viso e si rifugia tra le braccia del suo compagno. Il fatto di sapere che altre coppie, che altre donne sono lì, in qualche modo mi tranquillizza e al tempo stesso mi eccita.
Lui ha slacciato la cintura dei pantaloni, sono aperti su un paio di boxer neri. Sotto il sottile cotone la mia mano stringe il cazzo eretto. Il glande spinge gonfio contro l’elastico. Una macchia più scura bagna il tessuto.
Di nuovo, la mano ripercorre la via tra le mie cosce, scosta il pizzo sottile per lasciare agevole campo alle dita esperte che conoscono il gioco tra le labbra gonfie e il fradicio nido. Chiudo gli occhi e mi lascio trasportare tra le fiamme del paradiso. Lontani sono ora l’abbaiare dei cani, il pianto dei bimbi, l’allegro vociare dell’interminabile partita di pallone. Non più motorini o clacson nervosi. Nessuno mi conosce, nessuno bada a me. Solo lui.
Il sole è ancora alto, ma l’ombra del frondoso platano è come una nicchia, un’alcova che protegge e nasconde i nostri gesti proibiti. Il cazzo ora è fuori dagli inutili boxer. Bello, grosso, duro. La mia mano destra lo impugna facendo scorrere il prepuzio a coprire e scoprire il glande, rosso, umido, pulsante. Con l’altra mano accarezzo le turgide vene del dorso dell’asta, gioco con i riccioli bruni e sudati, soppeso, sorridendo, i testicoli. Non ho più timore né vergogna. Solo voglia. Siamo soli in mezzo alla città che vive e non bada a noi.
Sollevo la testa e mi perdo nei suoi occhi eccitati che pregano muti. Sorrido e mi chino sul suo grembo. La sua mano mi accarezza i capelli senza fare alcuna pressione. Respiro il profumo di maschio, le labbra quasi posate sul glande umido e caldo. Appoggio la guancia sulle sue gambe, il cazzo a portata di lingua. Guardo la mia mano che impugna lo scettro di carne. L’anulare vestito del mio anello di nozze, all’interno incisa la data.
Poi levo lo sguardo sul viso di lui, mi sta divorando con gli occhi. Ma non è ancora il momento. Socchiudo le labbra, la lingua si posa morbida sulla punta arrossata, si sofferma sul tenero frenulo e poi accarezza il cercine che circonda il glande. La mano tra i miei capelli ora mi spinge più attiva, vuole che lo divori ma ancora non voglio.
Scendo con la lingua dalla punta alla base del cazzo per poi risalire con teneri baci fino al glande. Lo assaporo di nuovo con lunghe leccate come fosse un gustoso gelato, con gli occhi socchiusi allacciati ai suoi. Voglio che veda quello che faccio, voglio che conosca il mio piacere.
La sua mano in mezzo alle cosce si muove senza che io più la freni, la gonna risalita fin quasi all’inguine, la mutandina scostata e ormai nemmeno più un ostacolo. Le sue dita dentro di me, piegate nel frutto odoroso come piccoli uncini feroci che mi dilatano e mi fanno impazzire. Ora è il momento.
Apro le labbra e lo faccio entrare in bocca, i denti quasi graffiano il glande. Lui trattiene il respiro. Le labbra scivolano lungo il bastone di carne che mi riempie la bocca. Il naso a sfiorare il pube bruno e peloso, a catturarne il sudore. La mano ora spinge, vuole che lo prenda tutto, soffoco il conato di vomito e mi arriva quasi in gola.
Le dita infuriano dentro di me, le accompagno con i movimenti del bacino. Vorrei dentro di me il cazzo che sto mangiando. Non posso ora, ci sarà modo. Più non resisto. Lui mi sta scopando la bocca, accompagna con il ventre le spinte della sua mano tra i miei capelli scomposti. Poi, quasi con voce tremante, mi avverte che sta per godere. Un pensiero carino, penso dentro di me. Ma non lascio. Voglio sentire il suo sapore.
Accelero il ritmo della mano e della bocca. Lui mi imita dentro il mio lago in tempesta.
Poi, il respiro si ferma. Improvvise e attese sento aumentare ancora di più le sue spinte, sento l’onda che sale, un sapore diverso, un liquido caldo, cremoso. Mi riempie la gola, mi sfugge dalle labbra, mi scivola in gola. Deglutisco, raccolgo con la lingua assetata tutto quello che posso e lo lascio scivolare dentro di me. Chiudo gli occhi per meglio vedere il lampo che ora mi esplode nella testa, chiudo gli occhi per meglio sentire il terremoto che mi sconquassa il ventre.
Le dita non mi danno ancora pace, alla prima onda ne segue un’altra, ancora più intensa. Sollevo la testa e lo guardo. Ora ha gli occhi spalancati su me. Con la lingua finisco il lavoro. Poi mi sollevo a baciarlo e gli offro il suo sapore nella mia bocca.
Lo sguardo scivola sull’auto vicina. Vedo solo il guidatore, gli occhi chiusi, il capo contro il poggiatesta. Ogni tanto i capelli della ragazza che solleva e abbassa la testa. Mi viene da ridere. Per i rimorsi ci sarà tempo e magari nemmeno verranno. Di nuovo sento vicino l’abbaiare di un cane, il richiamo di una giovane mamma, l’esplosione di gioia per un bel tiro di palla.
Una canzone dal finestrino abbassato di un’auto che passa “…ma il treno dei desideri, nei miei pensieri all’incontrario va…”.
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