In treno con lei

di
genere
saffico

Il venerdì sera non era solo la fine di un'altra settimana. Era un confine sottile, un filo teso tra la routine che si scioglieva e l'eco di un ignoto che minacciava malinconia. Poi, il mio cellulare vibrò. Non una notifica ordinaria, ma un messaggio che mi gelò il sangue. Non un suo messaggio diretto, ma la conferma di una prenotazione: un biglietto del treno per Dieppe, un venerdì sera imminente, e una stanza all'Hotel Windsor. Nessuna istruzione. Nessuna spiegazione. Solo un luogo, una data. Sentii un nodo allo stomaco stringersi, il respiro farsi corto, mentre le parole danzavano davanti ai miei occhi.
La mia mente corse, visualizzando: Dieppe, la costa, il mare. Lontano da Parigi, dal dormitorio e soprattutto dalla routine accademica di questo anno Erasmus. Questo non era un altro pomeriggio in un ufficio o una sera in un locale segreto; questa era una trasferta. Un viaggio. Un fulmine di domande mi attraversò la mente. Cosa significava? Un'escalation? Una nuova "lezione del professore", più estrema? O forse un premio inatteso? Non lo sapevo, ma sentii un'attrazione istintiva, quasi inspiegabile. Un sorriso sottile, quasi un ghigno di consapevolezza, si disegnò sul mio viso. Non ero sicura del perché, ma quel biglietto, quella destinazione, mi promettevano qualcosa di più. Era una sfida. E poi, improvvisa e innegabile, quella fame insaziabile di esplorare i miei limiti si riaccese potente. Forse, come l'ultima volta, sarebbe apparso all'improvviso, un'ombra tra le ombre, a dettare nuove regole.
Dovevo trovare Cristina. Sapevo che avrebbe provato lo stesso mix di apprensione ed eccitazione. Proprio mentre mi affrettavo nel corridoio, il suo sguardo incrociò il mio. Non c'era bisogno di parole. I suoi occhi, solitamente capaci di nascondere ogni emozione, brillavano di una luce che conoscevo bene: la stessa apprensione, la stessa curiosità, la stessa scintilla di eccitazione che sentivo io. Nella sua mano, il telefono. "Anche tu?" le chiesi, la voce un sussurro che si perdeva nel ronzio del corridoio. Cristina annuì, il suo sorriso incerto che si trasformava in una smorfia complice. "Dieppe. Hotel Windsor. Venerdì sera." Recitò le informazioni, quasi a volerle rendere reali, a misurare la loro portata. Ci guardammo, l'una leggendo nell'altra la conferma di una follia condivisa, un'intesa che andava oltre ogni spiegazione. Le nostre mani si sfiorarono per un istante, una scarica elettrica che sigillò la nostra muta comprensione. Non era un invito. Era una convocazione. E, in un modo che non avremmo mai ammesso a voce alta, entrambe lo desideravamo, pur non sapendo se era per il potere che ci dava o per la paura di perderlo. Il viaggio era appena ricominciato.
Il venerdì sera arrivò con la velocità di un'ombra proiettata. Lasciammo i dormitori cariche di un bagaglio leggero, ma denso di aspettative, i nostri abiti casual a nascondere i segreti che portavamo dentro. La stazione era un alveare brulicante di suoni e odori, ma i nostri passi erano sincronizzati, i nostri sguardi fissi su un futuro incerto.
Salimmo sul treno serale per Dieppe. Il fischio del convoglio ruppe il silenzio teso della banchina e, mentre i vagoni iniziavano a muoversi, sentii un brivido familiare, un misto di paura e attesa, scorrermi lungo la schiena. La città si allontanava, le luci di Parigi si fecero piccole e, con esse, la nostra vita ordinaria. Eravamo di nuovo in viaggio, non solo verso una destinazione fisica, ma verso un'ulteriore discesa nelle dinamiche complesse che il professore aveva aperto per noi. Il mare ci aspettava, e con esso, chissà quali altre scoperte.
Il treno per Dieppe era quasi vuoto, un lungo serpente d'acciaio che fendeva la notte francese con un sibilo costante e il cigolio ritmico delle ruote sui binari. L'aria nel vagone era stantia, intrisa di odore di polvere e qualcosa di indefinito. I pochi passeggeri erano figure indistinte, assopite nei loro sedili o immerse in silenziose conversazioni. Io e Cristina ci guardavamo intorno, i nostri occhi che scivolavano lungo i finestrini scuri, sui riflessi delle luci tremolanti. C'era un'inquietudine latente che strisciava lungo il vagone semivuoto. Ogni ombra sui sedili sembrava allungarsi, nascondendo uno sguardo, e ogni posto vuoto minacciava di rivelare, da un momento all'altro, una presenza in attesa. Era un retaggio dell'ultima "lezione", una paranoia che il professore ci aveva instillato: l'essere sempre osservate, sempre in mostra. Per un istante, giurai di aver visto una figura nell'ombra di un sedile lontano, un profilo che si dissolse non appena i miei occhi si posarono su di esso.
Poi, con un sorriso sornione che sentii dipingersi sul mio viso, tirai fuori una bottiglia di Chablis da una borsa di tela. L'avevo comprata di nascosto alla stazione, un piccolo vezzo, un gesto per rompere la tensione. Cristina sgranò gli occhi, sorpresa e divertita.
Sarah! Dove l'hai presa?" mormorò, una risata soffocata che le morì in gola. "Un piccolo extra per il viaggio," risposi, già stappando la bottiglia con un rumore secco e soddisfacente. Versai il vino in due bicchieri di plastica, improvvisati con maestria. Il profumo fruttato e leggermente minerale dello Chablis si sparse nell'aria, un'isola di freschezza in contrasto con l'odore stantio del treno e il ricordo ancora pungente, quasi metallico, dello sperma sulla lingua, un ricordo che il vino non riusciva del tutto a purificare.
Iniziammo a bere, sorsi lenti e poi più rapidi, il liquido fresco che scivolava in gola, sciogliendo un po' della tensione accumulata. Le risate si fecero più libere, i pensieri più fluidi. Parlavamo del più e del meno, di corsi universitari, di pettegolezzi, ma era solo un velo su ciò che realmente ci legava, ciò che era diventato il vero motivo del nostro ritrovarci. Sapevo che il nostro legame era nato nel fango e nella trasgressione, un'intimità forgiata da esperienze che sfidavano ogni convenzione.
Poi, all'improvviso, con il treno che oscillava dolcemente e il vino che iniziava a fare il suo effetto, posai il bicchiere, il mio sguardo intenso fisso negli occhi di Cristina. L'espressione del suo viso si fece seria, vulnerabile in un modo che raramente le avevo visto, come se un velo fosse caduto."Ti amo," dissi, la voce appena un sussurro, ma carica di un peso inatteso. Ebbi l'impressione che quelle parole non fossero mie, ma nate dal profondo di quell'abisso che avevamo esplorato insieme. Il tempo sembrò fermarsi. Cristina mi guardò, i suoi occhi si spalancarono per un istante, cercando i miei. Un tremito quasi impercettibile le corse lungo le braccia, come se quelle due parole avessero scosso qualcosa di dormiente dentro di lei. Sorpresa, forse spaventata, ma anche rapita da una comprensione immediata che le velò lo sguardo. Un piccolo ansimo le sfuggì. Il respiro le si bloccò, come in attesa di un precipizio, e poi rilasciò un sospiro profondo che sapeva di resa e di riconoscimento..
Senza dire una parola, Cristina si sporse in avanti. Le sue labbra trovarono le mie in un bacio che non era solo passione, ma un'eco di ogni limite superato, di ogni segreto condiviso. Era profondo, carico di tutti i silenzi, di tutte le paure e di tutti i piaceri che avevamo condiviso. Il sapore del vino si mescolò al sapore della sua bocca, un amalgama dolce e inebriante che sigillava una promessa non detta, un'alleanza in quel viaggio incerto che ci attendeva a Dieppe. Il bacio si fece più intenso, non una danza delicata, ma uno scontro di desiderio, le nostre lingue che si cercavano con la stessa fame con cui avevamo esplorato altre oscurità. La mia mano, quasi senza volerlo, si allungò. Non mi importava se qualcuno ci poteva vedere. In quel momento, eravamo solo noi due, in quel vagone semivuoto, avvolte da un calore crescente.
La mia mano afferrò il seno gentile di Cristina, sentendo il capezzolo indurirsi sotto il mio palmo. Le mie dita si mossero con sicurezza, il pollice che accarezzava la punta, provocando un gemito soffocato dalla sua gola. Poi, senza staccare le labbra dalle sue, feci scivolare la mano più in basso, tra le sue cosce, coperte dalla gonna, sentendo il tessuto leggero delle sue mutandine e poi, con un brivido che la percorse, trovando l'umidità calda che già ne impregna l'interno. Cristina si irrigidì per un istante, il suo respiro si bloccò, poi si abbandonò, la sua mano stringeva i miei capelli con forza, il suo corpo rapito dal piacere che stavo risvegliando. Il treno continuava la sua corsa, portandoci sempre più lontano da Parigi, e sempre più vicine l'una all'altra.
Le mie dita, umide e calde, si addentrarono con decisione, tracciando un sentiero di brividi lungo la sua intimità. Un sospiro profondo le sfuggì, un misto di sollievo e desiderio, mentre il suo corpo si incurvava leggermente, spingendosi contro il mio palmo. Le mie labbra abbandonarono le sue per scendere lungo la linea del suo collo, baci umidi che lasciavano una scia rovente, fino a raggiungere il battito accelerato del suo cuore. Il profumo di lei, un misto di pelle, vino e un'eccitazione crescente, mi avvolse, inebriandomi. Cristina si aggrappò a me, le sue unghie affondavano leggermente nella mia pelle, un segno muto della resa.
In quel vagone semivuoto, il mondo esterno scomparve. Esistevamo solo noi due, in un vortice di scoperte, dove ogni tocco era un giuramento silenzioso, ogni respiro un'eco del piacere condiviso. Il ritmo cadenzato del treno divenne la nostra colonna sonora, un battito ipnotico che accompagnava la nostra discesa in questo abisso inatteso di desiderio e di amore. I nostri occhi si incatenarono di nuovo, e in quello sguardo lessi una totale complicità, la conferma che questo non era solo piacere, ma una sfida lanciata a tutte le regole che ci avevano insegnato. Il rischio si mescolava all'eccitazione, rendendo ogni contatto più intenso, ogni sensazione più acuta. Il bacio si riaccese, questa volta più selvaggio, più disperato, come se volessimo inghiottirci l'un l'altra, annullare la distanza.
Improvvisamente, sentii una leggera pressione sul mio polso, un tentativo incerto di fermarmi. Cristina si scostò appena, i suoi occhi lucidi che cercavano i miei, colmi di un'apprensione mista a un'ardente supplica. La sua voce era un filo appena udibile, un sussurro roco che si perdeva nel sibilare del treno: "Sarah... ti prego... finiscila..."
Non era una richiesta di smettere, ma una preghiera di raggiungere il culmine, un invito pressante a liberarla da quella tensione insostenibile. La sua timidezza si scontrava con l'impellente necessità del suo corpo, e in quel conflitto lessi la profondità del suo abbandono. Il treno proseguiva la sua corsa, portandoci sempre più lontano da Parigi, e sempre più vicine l'una all'altra, in un gioco di desiderio e controllo che si stava svolgendo proprio lì, tra noi due.
Non c'era bisogno di altre parole. La sua supplica mi accese, un'esplosione di potere e tenerezza allo stesso tempo. Intensificai il ritmo, le mie dita danzavano sulla sua intimità con una precisione che ormai conoscevo bene. Cristina non emise un suono, ma il suo corpo si tese, i muscoli si irrigidirono, un tremore sottile la percorse. I suoi occhi si chiusero, le ciglia tremavano, e il suo respiro si fece affannoso, un ansimo strozzato che le morì in gola. La sua schiena si inarcò, spingendosi con forza contro la mia mano, quasi a voler assorbire ogni frammento di quel piacere che la stava travolgendo.
Poi, un lungo e silenzioso sospiro le sfuggì, come un'onda che si ritira dolcemente dopo aver infranto la riva. Il suo corpo si rilassò tra le mie braccia, molle, esausto ma vibrante di una quiete profonda. Le labbra si aprirono leggermente, un sorriso debole e soddisfatto che le affiorò sul viso, mentre una leggera umidità le lucidava gli occhi. Le mie dita si ritirarono con lentezza, lasciando dietro di sé una scia di calore e la sensazione persistente della sua totale resa. Cristina poggiò la testa sulla mia spalla, il suo respiro che si fece profondo e regolare, un battito calmo contro la mia pelle. In quel silenzio post-orgasmico, rotto solo dal monotono rombo del treno, sentii la nostra connessione consolidarsi. Cristina sollevò leggermente il capo, i suoi occhi ancora socchiusi incrociarono i miei. Non c'era giudizio, solo una scintilla oscura e profonda di riconoscimento, un'intesa che diceva: "Siamo uguali. Ho trovato la mia anima gemella in questo abisso."
Un'ondata di appagamento mi invase, più profonda e complessa di qualsiasi piacere fisico che io avessi mai provato. Non era solo il trionfo del desiderio o la conferma del mio potere, ma qualcosa di più intimo, quasi sacro. Vedere Cristina così, abbandonata e luminosa nel suo silenzioso culmine, fu come aver scoperto una nuova lingua, un codice segreto che solo noi due potevamo comprendere. La consapevolezza di averla spinta oltre i suoi limiti, di averla guidata attraverso quella tempesta di sensazioni fino alla quiete, mi riempì di un orgoglio inatteso. Quel piccolo sorriso sulle sue labbra, quasi un sigillo, era il vero trionfo.
Questo momento, vissuto nel segreto di un vagone notturno, mi apparve come il vero battesimo della nostra amicizia, o forse, della nostra relazione. Era un sigillo invisibile, forgiato non dalla lealtà o dalla condivisione di confidenze, ma dalla condivisione di un tabù infranto, di una vulnerabilità estrema. Eravamo andate oltre le parole, oltre le aspettative, e in quel baratro di piacere e abbandono, trovammo un'intesa che superava ogni logica. La sua quiete dopo la tempesta risuonò nella mia anima, una conferma della nostra singolare e proibita affinità. Il fischio del treno continuava a tagliare la notte, portandoci non solo verso Dieppe, ma verso un futuro in cui i confini tra noi due sembravano essersi dissolti per sempre, lasciando solo una profonda e innegabile corrente che ci legava.

scritto il
2025-06-15
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