Neuronauta

Scritto da , il 2020-05-31, genere sentimentali

“Sai cosa penso ti ci vorrebbe, Barbarè?” La tazzina del caffè in una mano e il telefono nell'altra mi affaccio sul balconcino di casa a respirare l'aria frizzante del mattino, ammirando le numerose conifere che svettano in giardino. “Una bella crociera sul Nilo, o meglio ancora, perché molto meno "di massa"... su un Caicco Turco! Sii! Ottimo... arrivi in volo ad Antalya, lì ti aggreghi facilmente a qualche comitiva inglese o francese... italiani mosche bianche, grazie a Dio!”

La mia amica Barbara cerca di dirmi qualcosa, ma io, preso dalla mia logorrea, proseguo imperterrito: “I tedeschi sconsigliabili per la sospettosità e la tirchieria... e ti imbarchi su uno di quei caicchi in legno, favolosamente "marini", con vele a picco ed equipaggio di 2-3 persone... Solo una decina di ospiti paganti, al massimo. Incrociano pigramente fra i porticcioli e le baiette del golfo di Antalya nel sud della Turchia.”

Rientro in cucina e gettando distrattamente la tazza nel lavello, proseguo: “Posti stupendi per panorami di rigogliosa bellezza e poi... le vestigia disseminate ovunque di civiltà perdute, come quella Licia...“ Barbara mi saluta, ha impegni, deve scappare, rispondo distrattamente con la mente che vaga, presa dai ricordi a quella volta che...
... salpando da Alania, situata nel tratto più occidentale del largo golfo di Antalya, alla volta di Cipro, alle otto di sera di un giorno di luna piena... il mare era una tavola appena increspata da una dolce brezza di terra, che spingeva le mie vele al traverso, a 5- 6 nodi. Le mie narici erano inebriate dalle miste fragranze della macchia mediterranea, che i refoli portavano dalla terra ancora irraggiata dal sole al tramonto, sul mare già rinfrescato dalle prime carezze della sera.

Alla mia destra l'enorme sfera arancione del Dio della Vita già lambiva l'acqua e la rendeva scintillante di tutti i colori caldi, dal bianco dorato agli ocra e ai rossi. Alla mia sinistra lo fronteggiava, altera e maestosa, quasi che la di Lui luce riflessa fosse la propria, la Luna! Con Essa la schiera delle tonalità notturne, dal nero diaspro al cobalto, si sfumava nei blu e negli azzurri via via procedendo nella volta celeste, fondendosi al mio zenit con le luci solari.
Gli unici suoni che udivo erano quelli sottili, delle acque tagliate, spruzzate e disperse dalla prua affilata e leggera, suoni argentini ed evocatori... mi riportavano alla mente giovanili ricordi di un ruscello cristallino nei boschi incantati della Val Meledrio, alle pendici del Sasso Rosso.

Rivivo quel momento, eccomi ancora lì, assolutamente solo, seduto sul teak a gambe incrociate, con le spalle appoggiate al piede dell'albero maestro, al centro perfetto di tanta armonia. Sono scalzo, vestito solo di un logoro paio di calzoncini corti, una volta verdi, ora color del mare e di un turbante di lino, nocciola stinto, male avvolto attorno alla testa e con una falda che mi ricade sulla spalla destra. Guardo, annuso ed ascolto l'assoluta bellezza del mondo e piango di commozione, pensando: “Dio mio! Perché solo per me tutta questa bellezza, che mi riempie e trabocca?"


La tazzina appena gettata nel lavello, troneggia su una pila di stoviglie sporche che si stanno accumulando da due tre giorni, "devo darmi una mossa" penso e mi sforzo di caricare la lavastoviglie, resistendo all'impulso di tornare a controllare su Google Mail se c'è nuova traccia di lei. Lei che devo scordare, per il mio bene, per la mia salute mentale, per non sprofondare ancora di più in un baratro di dolore, lucidamente cosciente della mia stessa incoscienza.

Non credevo che ci sarei ricascato, non ne avevo l'assoluta certezza tipica della gioventù, ma con senile esperienza ritenevo altamente improbabile tornare a provare questo struggimento interiore che Catullo ha immortalato nel suo “Odi et amo”.
Invece è successo e per quanto la mente mi irride e mi giudica folle mi sono lasciato irretire, ma che dico... proprio “imbozzolare” come un bruco che pretende di tornare farfalla, in questo interminabile filo di mail e di chat ininterrotte, notturne e diurne, che si è srotolato per quasi un mese. Un mese in cui, con l'indispensabile complicità dell'assenza di tutti e cinque i sensi (che ne sarebbe bastato forse uno solo a spezzare sul nascere l'insano incantesimo!), ho lasciato che la mia mente abbracciasse, giorno dopo giorno sempre più strettamente, fino a fondersi con essa, la mente di una giovane donna che potrebbe benissimo essermi figlia.

Anche in questo momento, scrivendo al computer devo resistere, basterebbe un click del mouse per inficiare gli sforzi di due giorni di resistenza, per leggere il suo ennesimo appello a riprendere il dialogo, o, forse peggio, constatarne l'assenza, il vuoto che suggellerebbe la sua definita rassegnazione e la fine del sogno. Un sogno drogato, un sogno velenoso e malsano, un sogno dolcissimo.

Ma se ho finalmente deciso di spezzare il filo, non è stato per il risveglio di un eroico buon senso. No, è stato solo per gelosia.
Non c'è solo la gelosia malsana, quella che soffoca l'amore, che grazie a dio io non ho mai conosciuto. Io conosco quella sana, che nasce dai fatti evidenti e che ti fa aprire gli occhi.

Come quando ero a Larnaka, dove svernavo con la barca in secca e lavoravo a sostituire il motore. La mia dolce Isabella, a Bologna, la sentivo strana al telefono, meno propensa alle effusioni, in qualche modo distratta e reticente. Mi imposi razionalmente di incanalare i sentimenti, che l'intuito mi suscitava, in un freddo progetto. Con calcolo indossai le vesti del confessore comprensivo. Premettendo la mia stima per lei, per come come avesse dovuto adattarsi, nei due mesi in crociera durante l'estate appena trascorsa, a condividermi con Carolina, le assicurai la mia totale comprensione, se avesse voluto confidarmi, al di là delle scuse fino allora addotte, la vera ragione per cui la sentivo cambiata.

E lei mi parlò. Si aprì totalmente confidandomi ogni dettaglio del rapporto morboso che aveva accettato, cedendo all'impulso della carne, con un tassista dal fascino tenebroso, che l'aveva talmente turbata da lasciarsi sedurre, durante il tragitto verso la sua casa. Era stato un raptus, diceva, non era amore, solo passione, maledetta attrazione. Pur rendendosi conto che fra loro c'era un abisso, nessuna possibilità di condividere alcun interesse vitale, e nonostante ogni volta si ripromettesse di non cedergli più, ogni volta che lui di notte suonava, era costretta ad aprirgli per non fargli destare tutto il vicinato. E poi con la porta socchiusa cercava di convincerlo a lasciarla stare, ma alla fine cedeva alla sua bramosia. Poi si odiava e nel raccontarmelo si mortificava, implorando perdono.

Anche oggi mi ritrovo a navigare in quelle stesse torbide ed infide acque, dove sono sballottato da sentimenti contrastanti e rischio di cozzare sugli scogli di scelte sbagliate o colpi di testa. Perché con la stesso atteggiamento freddamente calcolatore ho indotto “Aurora13”, a confessarmi di avere tradito non solo il fidanzato che non vede da 40 giorni a causa dell'epidemia, ma anche me, cedendo alla corte che da alcuni giorni le stava facendo un vicino di casa, l'unico uomo che le attuali restrizioni di movimento le consentono di incontrare senza infrangere la legge.

A rinfocolare ulteriormente la tempesta di fuoco che celavo sotto l'apparente calma, facile a fingere con la scrittura, lei giustifica questa sua resa, peraltro coronata da un intenso appagamento sessuale, con il fatto di aver proiettato su di lui i sentimenti che prova per me. Come se lui fosse un mero oggetto transizionale, sul quale si riversa, appagandosi, la forte attrazione che si è instaurata fra noi, nonostante l'amore vivo e forte che ha per il fidanzato.

Sono un Torquemada! Con Aurora13 come allora con Isabella, dismesso il saio del confessore indosso la toga ed il tocco del giudice e condanno tutti, innanzitutto me stesso, all'esilio, alla solitudine, all'assenza dell'altro. Una condanna non assoluta però, perché lascio una porta che solo l'altra può aprire, difficile come una prova d'amore. Isabella l'aprì, rompendo il muro del mio ostinato silenzio, imbarcandosi su di un aereo e volando verso un futuro ignoto in cui avrebbe potuto, forse, trovare le mie braccia aperte. Si gettò non sapendo e mi ritrovò.

Anche Aurora13 ce l'ha a portata di mano, la maniglia per aprire questa mia porta chiusa, ma sono sicuro che non la userà.

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