Ritratto di signora con tosa - Interno

Scritto da , il 2020-04-07, genere saffico

Era iniziata un po’ così, come canta qualcuno con la voce roca ed adesso sei diventata come la biada per le bestie da soma perché questo mi fai sentire, una giumenta che sospira la sua mula. Era stato un gioco di parole neanche dei più fini, tra il mio nome Giuliana e le Polo alla Menta che a decine semino dappertutto: giumenta, sempre pronta a contentare le ruzze.
Il primo giorno di scuola quando c’hanno presentate mi son trattenuta dal chiederti da che parte della cattedra avresti passato la mattinata. Mentre allungavo la mano: “Giuliana Zorzolo, piacere mio”, t’ho guardato come fossi trasparente. Persuasa che il minimo sindacale di cortesia mi avrebbe segato cinque centimetri di tacco, forzandomi di nuovo fra i comuni mortali. Avevi l’aria della servetta per vocazione, con quel nome che sapeva di Polesine e di stenti.
Il momento di debolezza è capitato qualche tempo dopo. Era novembre, un pomeriggio qualsiasi quello in cui mi sono fatta pescare col ponte levatoio abbassato. C’è voluto poco per imbambolarmi, è bastato che dopo un consiglio di classe buttassi lì: “Hai paura se ti porto a casa mia?”. Lo sapevano tutti che ti garbavano le donne. Mormoravano in giro che Clementina Ceccato c’avesse già provato con tutte ma a me sei parsa inoffensiva. Una sessantina di chili dosati in qualche maniera sotto una cadenza veneta, docile ed incapace di lasciare segni.
“No, perché dovrei?”
“Allora andiamo, cavolo!”
Potevi essere mia nipote, una da trattare con condiscendenza, ‘mi raccomando, non fare tardi stasera’ e quando, davanti all’ascensore, dritta sulle punte dei piedi hai provato ad infilarmi la lingua in bocca m’è venuta una risata scema.
La stessa che velo la domenica mattina dietro foulard ed occhialoni scuri. Che direbbero le gemelle se sapessero che non sono a messa ad intonare salmi? Che penserebbe Gianni se vedesse che gli lecchi la moglie dove la passione mozza la voce?
La vice preside di un Istituto Tecnico di Vicenza insieme all’insegnante di sostegno, da farci barzellette, le bidelle quando hanno visto che ci siamo fatte uscio e bottega. Non si c’entrava una mazza: io ben dentro i quaranta vado fuori di testa se il mio tailleur albicocca non è perfetto sulla gruccia e tu che sbatti per terra le tue magliette glitterate da cinque euro peggio che fossero stracci.
E’ stato piacevole, quasi dolce sentire come provocavi le spalline del reggiseno. Ci facevi la festa ai capezzoli di Giuliana e come fosse scolara l’hai accompagnata sino al punto in cui le ginocchia si aprivano, tra una gamba inclinata e una distesa, annunciando la gioia di un varco.
Ho immaginato il quadro e la ricreazione in attesa della campanella, tempo di un caffè e via era la sua cornice. Ero certa sarebbe bastata un’occhiata dura per rimetterti in riga, quel cipiglio da colonnello che mi sono conquistata dietro mille registri ed invece stavo iniziando a fare le fusa.
“Hey, ragazzina, okkio che ti ritrovi una nota sul diario in un batter d’occhio”, è stata il mio ultimo sarcasmo. Ed era di cartapesta.
Hai abbassato lo sguardo dentro quei quattro kg di riccioli che ti porti in giro dalla mattina alla sera. Ho provato a scostarli e dietro c’erano voglie che t’uscivano dalla base dei denti. Fumavano come il respiro dei bimbi sulla pista di pattinaggio.
Poi mi sei rampata sopra ed io felicissima di farmi mettere sotto.
Credo sia iniziata lì la mia urgenza di te, di una chioccia che riscaldasse quel nero che covavo di dentro.
Ero impaziente di farmi mettere le mani addosso, di sentirle infilarsi sotto la gonna da signora. Lo sapesse la mia sarta quanto poco ci hai messo ad arrotolarmela sino ai fianchi. Ed a far seguire la rotta opposta alle mutande. Linea diretta, in entrambi i casi, senza fermate a richiesta.
Mi sono lasciata fare sino a quando ho sentito il culo sollevarsi a mezz’aria, ho veduto le mie cosce taglia 46 smaniare sopra le tue clavicole, in dialetto stretto ‘coa a mona sui copi’.
Ci avrai mai pensato a che significa l’espressione ‘gambe in spalla’? Sarà il titolo di qualche litografia licenziosa appesa in un postribolo anni ‘40? I pensieri buffi anticipano sempre l’entrata in scena della mia parte latente. Una facezia prima della vertigine da strapiombo.
Ed il precipizio era lì così vicino da non riuscire a dargli forma cogli occhi.
E’ bastato che leccassi lì davanti a me, dove la mia natura di donna si apre in due per innescare la fregola. La lancetta in zona rossa, Giuliana al fuori giri, i sistemi di difesa ad indicare ‘danger’ e tutto solo per vapore di fiato, staffetta della botta in arrivo.
Sbavavi malizia in forma di bollicine ed erano fotogrammi al rallentatore di una posa senza principio né fine.
“Dai, dannazione, dammelo .. dammela”, devo aver ragliato.
Temevo non avessi alcuna intenzione di placare la mia brama, che cercassi solo di dilatarla all’infinito, di portarmi a perdere il senno, da qualche parte dove nessuno al mondo avrebbe potuto ritrovarmi.
Stavo maledicendo il tuo nome quando una scossa da un milione di volt mi ha fulminato, illuminando anche i capillari più remoti. La tua bocca m’ha flesso i dorsali in un arco perfetto. Un terremoto a spalancare un crepaccio dove i sedimenti della consuetudine avevano lisciato il più sterile dei piani. Il movimento degli strati inferiori a plasmare un orizzonte inedito.
È bastato che un’unica cellula ne lambisse un'altra, mucosa sopra mucosa, la lingua impettita dove la pelle si apre per farmi volare tra le nuvole. Lì sopra è stato chiarore abbacinante ed esordio di un nuova pelle.
Quando mi sono riavuta, senza alcuna idea di quanto fossi stata via, l’adrenalina era a zero. Mi son sentita una prugna rinsecchita, da cui, pensavo, fosse stato cavato ogni succo. Come ignoravo tutto di me, com’ero all’oscuro di quanto ancora ci fosse da spremere.
A vedermi su quell’ottomana ero composta come un manichino da vetrina in allestimento, un fagotto di tessuti firmati di sopra, denudata ed inerme dalla vita alle piante dei piedi.
“Clementina, dove sei finita?”, ho domandato agli stipiti contro ogni buon senso. Era uno schizzo di panico, il primo ma quello s’è scolorato da solo. Sarai stata a fare pipì e chissà cos’altro, ed io intendevo finire di spogliarmi convinta che fosse l’unica cosa giusta. Solo il reggiseno era argine al mio imbarazzo, l’ultimo spicchio di buccia di un frutto maturo. Due mammelle grandi ed un poco cascanti la mia avanguardia di donna un tempo retta.
Quando s’è aperta la porta che dava sul bagno la luce ha restituito solo la sagoma di te. Non più la pastina in brodo, come ti ha canzonato qualche volta una delle mie figlie ma spigoli ed angoli acuti, tu e non più tu, la dottoressa Ceccato e qualcosa d’altro. Eri una bestia nuova e minacciosa: in bagno era entrato un rettile con la lingua tremolante e ne stava uscendo un rinoceronte che si lustrava il corno.
Spesso basta un dettaglio per sconvolgere il quadro ed una minchia, dannazione, se lo era, un dettaglio, grosso come una briccola di laguna. Attaccato al ventre, sopra le mutande di raso, t’eri allacciata un bischero di lattice, quelli con le venuzze spesse. Una donna con l’uccello duro, eri.
Sono rimasta turbata, come i primitivi di fronte alla magia del fuoco, una statua di sale che ha finto di non sapere cosa la stesse aspettando. La volevo quella cosa di cui non immaginavo neanche il nome. Ti volevo e basta.
Alla radio Battiato riferiva di certe scosse ‘ndo cori quando hai caricato a testa bassa, mirando lo scuro. Hai travolta il mio castello di carte, m’hai fatta a brandelli. Non mi avrebbe riconosciuto nemmeno mia madre se mi avesse visto mentre mi devastavi le cosce procurandomi un orgasmo poderoso, visibilio dei sensi mille volte più potente di qualsiasi maschio che m’fatta squittire.
M’hai schienato su un materasso da caserma, lordo del piacere di altre. Lercio di patacche di donne da poco, delle sciaquette che ti fai ogni sabato sera che il signore mette in terra. Che, avendone modo, avresti ingravidate tutte dalla prima all’ultima, così, come sussurri a Giuliana durante l’amore, per cavarse ‘na spissa, per togliersi un prurito.
Le stagioni m’hanno fatto possessiva, gelosa di due settimane dai tuoi, angosciata per quaranta minuti di ‘il cliente è momentaneamente non raggiungibile’. Mi consumano lo spirito talune apatie dello sguardo, capita dopo aver abitato dentro certe carezze.
Ma allora, quando è toccato a me essere arruolata nella tua collezione di bamboline vezzose, mi sono data la patente da dura, decisa a battere i pugni, ad urlare in piazza che ero l’unica pietanza in tavola ed invece avevi davanti un guscio vuoto. Quando ti stavi per prendere i miei lombi mi son sorpresa incantata a seguire il balletto dei laccetti dello strap-on, a come s’adeguassero ubbidienti alla ritmica del corpo. Ho provata tenerezza per quelle stelle filanti che t’accarezzano i fianchi e per come hai baciato la collana col cuoricino spezzato che le mie figlie hanno regalato alla mamma.
Non ho resistito, non ho potuto fare a meno di passarti le mani sul capo, di accarezzare quei capelli ricci da coltivatrice di canna da zucchero.
E li sopra era superficie liscia, facciata di dimora borghese, carrozzeria cromata e lucidata.
Poco più sotto, l’ossatura. Punte dei piedi, ginocchia e gomiti a far da puntello, le anche assi portanti, spalle a compensare: questo era il perimetro di te. Ed in mezzo quello stantuffo falso e cortese che mi stampava sul viso un orgasmo dopo l’altro. Anche le maniglie dell’amore e qualche rotolo malfermo vibravano d’esultanza.
S’è trovata in un amen la nostra cadenza da podiste di fondo, da motore diesel tedesco. Occhi sbarrati, bocche a mendicare ossigeno, ad impastare saliva e nulla da dichiarare.
Sarebbe da insegnare in tutte le scuole del regno questo alfabeto basico, senza parole, il primo di cui s’ha memoria, fatto di aste e cerchi, tacon e buso, tacon e buso ripetono i nostri. E’ stato il nostro silenzioso codice di commercio, di due fili di juta intrecciati a comporre quella cima che ci teneva annodate.
Stesa su quella stoffa sporca mi son fatta ottusa sino al limite del punto di rottura perché quello che m’ero scordata d’avere fra le gambe accogliesse un’opera d’arte. Spogliata di qualsiasi volontà di difesa avevo smarrito il senso della differenza fra interno ed esterno. Era Clementina dentro Giuliana o al contrario Giuliana con dentro Clementina. Nulla più, nulla meno.
La luce del giorno aveva smesso di filtrare dalle tapparelle da tanto nel momento in cui mi hai chiesto se me dovevo andare. Ho risposto, deve esser stato uno strilletto da topo, farfugliando qualcosa ad una domanda che non son riuscita a capire cosa intendesse.
All’ora in cui le mie cucciole reclamavano il cibo mi son sentita spossata quando per un istante sei scivolata via. M’hai preso alle spalle, dove non potevo vederti. Le mie braccia erano vuote, carne di aringa bollita, appendici senza spina, buone solo per restare in equilibrio mentre hai ripreso a frugarmi dentro.
Aspettavo solo mi consegnassi il documento di resa, senza il desiderio di alcuna condizione da porre, beata e svanita.
Succede sempre così, infrattate in auto una mattina fosca mentre ti mordo per anestetizzare gli spasmi che con le dita mi procuri o per Pasquetta in una camera ad ore.
Accade che mi svuoti per poi riempirmi.
Qualche pomeriggio addietro dopo ore a preparare lezioni mi son trovata per un attimo colla mente sgombra ed ho pensato a come mi sono ridotta, come la Polo che stavo succhiando, un buco con Giuliana intorno.

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