Francesca – Parigi 29 maggio 2015

Scritto da , il 2017-02-09, genere etero

Mi ricordo tutto di te. Il modo in cui ci siamo conosciuti, tramite amici in comune; il tuo sorriso malizioso quando ti accorgesti di come ti fissavo inquieto dall’altra parte del tavolo; il tuo vestito nero lungo fino alle caviglie con uno spacco vertiginoso lungo la gamba sinistra; tacchi a spillo che ti slanciavano prepotentemente qualche centimetro sopra di me; la pronunciatissima scollatura sulla tua schiena che rivelava una pelle candida come la luna. Mi ricordo la tua acconciatura, capelli neri luci come seta, raccolti in uno chignon da ballerina tenuto bloccato da due bacchette cinesi. Non ti ho mai chiesto il perché di quella scelta.
Mi ricordo come ci isolammo da tutti gli altri in cima al Peninsula Hotel, sulla terrazza del Bar Kléber. Mi avvicinai a te vestito troppo casual per non sfigurare al tuo fianco. Stavi scrutando l’orizzonte fumando una sigaretta sottile. Ti offrii uno dei due bicchieri di Old Fashion che mi ero fatto preparare prima di raggiungerti.
Lo sorseggiasti guardandomi, senza dire una parola, e poi tornasti a scrutare il panorama di Parigi. Io ti osservai qualche istante, prima di appoggiarmi alla ringhiera di fianco a te, dando le spalle alla città e perdendomi a spiare la gente che all’interno del locale socializzava indaffarata come piccole api operaie. La futilità delle ambizioni umane mi intristisce sempre, non perché io mi erga a supremo giudice degli altrui desideri, ma per la consapevolezza di far irrimediabilmente parte anche io di questo stesso girone infernale chiamato vita.
“Cosa ci fai qui?” La tua voce mi colse alla sprovvista. Tutto in te ostentava sicurezza: il modo in cui camminavi, quello in cui fissavi i tuoi occhi verdi nell’anima dei tuoi interlocutori, e adesso anche la tua voce.
Decisi di non rispondere alla tua domanda, fingendo di non averne colto il vero significato: “Bevo whiskey guardando la Tour Eiffel in affascinante compagnia”.
Ridesti sommessamente, mentre appoggiavi le tue labbra dipinte di rosso a quel bicchiere ispiratore di animalesche gelosie: “Non sembri uno di loro, uno dei soliti amici di mio padre. Un vecchio borioso avvocato pieno di sé”.
Finsi sorpresa: “Devo ammettere che non ho avuto il piacere di conoscere tuo padre, ma da come lo descrivi sembra un uomo decisamente interessante. Mi domando da chi tu abbia preso”.
Questa volta la risata sembrò più malinconica, nascondeva una nota di rimorso: “E dire che ho passato la maggior parte della mia vita a cercare di diventare come lui”. Finisti in un sorso il tuo Old Fashion, e senza chiedere ti appropriasti anche del mio bicchiere. “Invece lui è orgoglioso solo del suo studio legale, e dei soldi dei suoi facoltosi clienti”.
Il ricordo qui diventa confuso. In un attimo eri sulla balaustra, in bilico su quei vertiginosi tacchi a spillo: “Mi domando cosa succederebbe se facessi un passo in avanti”.
Continuavi a sorseggiare il mio drink come se non ti rendessi conto della situazione. Da dentro al locale gli astanti iniziavano ad accorgersi di qualcosa, il vociare si alzò rumoroso: “Scendi da lì e torniamo dentro dai”.
La tua voce sembrava arrivare da un posto lontano, nascosto dentro di te, dimenticato da tutti. Rispondesti quasi meccanicamente: “No, non voglio più tornare lì. Non voglio più fingere di esser chi non sono”.
Qualcuno provò a uscire sulla terrazza, ma feci loro segno di aspettare e chiamare aiuto. Tuo padre ancora non si vedeva in sala: “Va bene, allora scendi e stiamo qui. Non torniamo dentro”.
“Voglio solo vedere cosa succede se mi butto. Provare un’emozione che sia vera per una volta nella mia vita, anche se fosse l’ultima”. Mi sentii impotente di fronte alle tue parole.
Poi d’improvviso un’idea. Salii sul parapetto insieme a te, ti sfilai il bicchiere dalle dita e ti strinsi la mano. Tu mi lasciasti fare come se non ti stessi neanche accorgendo della mia presenza. Svuotai il bicchiere in un sorso prima di riconsegnartelo: “Riempi questo bicchiere con un brutto pensiero”.
Mi guardavi con una dolcissima aria confusa; io ti sorrisi calmo, sicuro che sarebbe andato tutto bene: “Fai come ti dico”.
Prendesti il bicchiere stringendolo con entrambe le mani, e chiudesti gli occhi, facendo un lungo respiro. Quando li riapristi il verde della loro profondità mi annebbiò la mente per qualche istante. Tu mi guardavi in attesa, senza dir nulla.
In tutta risposta diedi un colpetto all’altro bicchiere, abbandonato sul parapetto e ancora inconsapevole del proprio destino, e lo spinsi giù, facendolo silenziosamente cadere tra le siepi del giardinetto sotto di noi.
Finalmente un sorriso si dipinse sul tuo viso come un flebile arcobaleno dopo il peggiore dei temporali estivi. Allungasti una mano e lasciasti scivolare il brutto pensiero via dalla tua vita.
Restammo ad osservarlo precipitare al suolo ed esplodere contro il marciapiede di cemento che costeggiava l’aiuola. Senza distogliere lo sguardo dalla tua vittima vitrea mi implorasti: “Portami via”.
Una lacrima rigava il tuo viso.
Ti feci scendere da quel piedistallo pericolante, metafora delle aspettative che tutti quanti nella tua vita avevano sempre avuto verso di te, ti presi per mano e ti trascinai fuori da quel luogo pieni di mormorii e taglienti giudizi.
Il valet fu rapido a consegnarmi la mia Duetto Spider del ‘67. Quando accesi il motore sapevo già dove andare. Tu non facesti nessuna domanda, appoggiasti la testa sul sedile, e in un attimo ti addormentasti.
Quando il primo schiarire ti svegliò, eravamo già a Châtelaillon-Plag, la macchina parcheggiata a bordo della spiaggia. Ti sfilasti le scarpe e tenendo la mia giacca sulle spalle mi raggiungesti sul bagnasciuga, dove io stavo seduto fumando l’ennesima sigaretta di quella nottata surreale, e sorseggiando whiskey da una fiaschetta d’argento.
Quando ti sedesti al mio fianco ti offrii da fumare; tu accettasti senza dirmi nulla, appoggiando la testa sulla mia spalla e restammo così, in silenzio a guardare l’alba.
La tua voce mi destò dall’incantesimo: “Dove siamo?”
“Châtelaillon-Plag, questo è l’oceano”.
“Come mai mi hai portato qui?”
“È qui che vengo sempre io. Quella casa laggiù è mia”.
Ti stringesti al mio braccio infreddolita: “Possiamo stare qui finché non ci sarà più nessuno da cui scappare?”
“Non ci son posti dove andare quando scappi da te stessa”.
Il cielo si stava colorando di porpora, bagnando le nuvole di tinte infuocate.
Ti avevo promesso una fuga, ed ero deciso a regalartene una anche se questo avesse voluto dire restare intrappolato nella stessa oscurità che ti trascinava giù: “Lo vuoi un caffè?”
“Solo se mentre lo prepari posso farmi una doccia”.

Un famigliare profumo di moka stava già pervadendo la mia piccola casetta al mare, quando ti vidi entrare nella stanza. Indossavi una mia camicia che si adagiava morbida sul tuo corpo. I capelli sciolti e ancora umidi cadevano fino a metà della tua schiena bagnando il cotone azzurro della camicia. Gambe nude e piedi scalzi ti davano un tocco di femminilità indescrivibile. Eri bellissima, pulita, semplice, spensierata e tremendamente sensuale. “Ho trovato solo questa, spero che non ti dispiaccia”.
Non ti risposi, domandandomi mentalmente se sotto stessi indossando qualcosa. Mi sembrava di non respirare mentre ti guardavo farti strada verso di me con movimenti sinuosi da ballerina. Eri un’altra persona rispetto alla ragazza con cui ero scapato da Parigi: sapevi di fresco, di libertà. Aria, luce, vita.
Mi avvicinai a te prendendoti il viso tra le mani e stringendolo come se fosse il diamante più prezioso del mondo. Le mie labbra sfiorarono le tue, mentre le nostre dita raschiavano avide la nostra pelle come per scavare nei nostri corpi, nelle nostre anime. Quello che avvenne dopo fu passione che scorreva vorace nelle nostre vene.
Ti sollevai di peso appoggiandoti al banco di marmo nero della cucina, senza smettere di baciarti. Con un gesto secco, strappai via tutti i bottoni della camicia che avevi indosso e mi fiondai sul tuo seno, a stuzzicarne i capezzoli con veloci colpetti di lingua. Quando ti feci sentire i denti tu affondasti le dita tra i miei capelli, aggredendomi con le tue unghie sulla mia cute mentre piano piano mi spingevi sempre più in basso.
Mi inginocchiai tra le tue cosce e cominciai a leccarti, rapito dal desiderio di regalarti piacere, mentre tu, conscia delle mie ambizioni, mi tenevi il viso premuto contro di te. La mia lingua passava incalzante dalla tua clitoride al tuo sedere, per poi tornare a cercare le tue grandi labbra. Feci scivolare due dita dentro di te inebriandomi dell’essenza dei tuoi umori. Persi il controllo di me quasi subito, la faccia affondata tra le tue cosce mentre cominciavo a stuzzicarti la clitoride con le mie labbra, per poi alternare l’incedere della mia lingua e quello delle mie dita.
Sentivo le tue unghie lasciarmi segni sulla pelle mentre il tuo respiro si faceva corto, confuso, accelerato, in un crescendo disperato che culminò nel tuo orgasmo. Rallentai questa mia danza dove con la lingua sulla tua clitoride accompagnavo ogni movimento delle mie dita dentro di te.
Sentii che piano piano rilassavi la presa sulla mia schiena, rigata da sottili fili di sangue.
Non avevamo tempo di trascinarci in camera da letto, fu quindi il pavimento della cucina l’alcova della nostra passione quella mattina.
Ti baciai con violenza, volevo che assaporassi la mia lingua che sapeva ancora di te. Il tuo corpo tra le mie mani era un perfetto strumento di piacere, la cui bellezza quasi inebriò ogni mio senso. Con impeto ti presi per i fianchi tenendoti stretta contro di me, affondando con la mia erezione dentro di te. Iniziai a sbatterti, con forza, sempre più a fondo, sempre più duro, e poi accelerai.
Sentii di nuovo le tue unghie affondare nella mia carne; prima la schiena, poi le gambe, poi i fianchi e il collo. Ogni mio muscolo sembrava essere inondato dal fuoco, gli occhi velati dalla nebbia della passione. Non potevo più fermarmi, ero stregato dalla tua voce che mi chiedeva di non smettere, di continuare, di accelerare. Fu il tuo urlo di piacere a riportarmi alla realtà.
Mi fermai di colpo ad osservare il tuo corpo che veniva pervaso dagli ultimi spasmi dell’amplesso.
Era il mio turno di godere.
Mi misi a cavalcioni sopra di te, una mano dietro la tua nuca per sollevarti la testa verso la mia erezione. Quando finalmente sentii le tue labbra e la tua lingua giocare intorno alla mia cappella, iniziai piano a scoparti la bocca. Sentivo le tue mani stringermi le palle, mentre aumentavi la velocità con cui mi succhiavi. Ti afferrai per la testa cominciando a guidare i tuoi movimenti, mentre tu tenevi gli occhi fissi nei miei come per non perderti nessuna delle mie espressioni di piacere. Le tue labbra si serrarono sulla mia cappella, stuzzicata con movimenti circolari della tua lingua. Ci volle poco per abbondonarmi a questa morsa di piacere.
Questa volta fui io a urlare, mentre esplodevo nella tua bocca con un paio di getti caldi e copiosi che ti scendevano in gola. Continuasti a succhiare finché non sentisti l’ultimo fiotto di piacere rilasciare la tensione della mia erezione per lanciarsi inarrestabile dentro di te. Ti staccasti dal mio cazzo buttando la testa all’indietro contro il pavimento e senza distogliere lo sguardo dal mio ingoiasti fino all’ultima goccia del mio amplesso.
Caddi esausto al tuo fianco, distratto solo da una lontana nota di caffè ormai bruciato.

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