Dove nessuno ti ha mai portata

di
genere
dominazione

La mattina del giorno 13, Alessia si presenta all’appuntamento; è la prima volta che la vedo. Rispose ad un mio annuncio in un sito, poi il classico scambio epistolare e la decisione di provare l’esperienza insieme.
E’ Settembre, ci troviamo nel cortile di un casolare abbandonato appena fuori città, ho le chiavi perché ho l’incarico di tagliare l’erba e verificare che nessuno lo occupi abusivamente.
Ci guardiamo per prendere un minimo di coscienza estetica: lei bionda, capelli mossi, occhi castani, lievemente formosa, spigliata, mani in tasca dei jeans. A lei interessa che io sia alto, moro e che traspaia possanza. Per entrambi ci sono i presupposti per continuare. Apro la porta, lei mi segue guardandosi attorno, incuriosita da quelle grandi stanze impregnate di degrado. Ragnatele, odore di chiuso, armadi con indumenti sporchi rosicchiati dalle tarme. Ne scelgo qualcuno da donna, i peggio conciati. I pantaloni pesanti odorano ancora di stalla, hanno macchie biancastre, deve averli usati una signora che mungeva, mentre la camicia di flanella, dall’odore di sudore, credo l’abbia portata per raccogliere cipolle. Trovo vecchie mutande lise, ingiallite, non solo dal tempo. Ti porgo ciò che ho reperito e ti lascio un minuto sola nella stanza, perché tu possa indossarli, iniziando la tua umiliante discesa.
Ritorno, ti guardo, sono troppo per te, te lo dico, mi lamento perché qui dentro non sembra esserci qualcosa di degno della tua nullità. Ti prendo per mano, andiamo nelle cantine, ricordo che ci aveva dormito qualche senzatetto. Le scale sono scivolose, ti lasci trascinare verso quell’umido seminterrato, do una spallata alla porta in legno, un tanfo disgustoso esce e ci travolge. Da una finestrella entra abbastanza luce per vedere un materasso sul pavimento, nell’angolo della stanza. Quel barbone deve averci dormito poco tempo fa, l’odore di piscio arriva da lì, sembra ancora umido, ti ci spingo, cadi di muso su quel putrido giaciglio, non oso immaginare cosa stiano odorando le tue narici. Resti lì, pancia in giù, nell’altro angolo c’è un catino, ci sono feci quasi secche, una mosca continua a poggiarsi su esse e poi raggiunge te. Non voglio sprecare questo incanto, ti raggiungo, ti sfilo i pantaloni, completamente, li appoggio sulla tua testa, perché possano evitare che l’odore di urina fugga, deve rimanere in quella camera d’aria tra loro ed il materasso, dove tu respiri, come se stessi facendo suffumigi.
Ti apro le gambe, sposto appena di lato i mutandoni, fai sempre più schifo, quanto mi piace come ti lasci trascinare allo squallore, non opponi resistenza, anzi, sembri voler proseguire per raggiungere un vuoto mai raggiunto. Scopro che sei bagnata, sei disgustosa, sei schifosa, ti stai eccitando, quasi coli aggiungendo liquido al materasso pregno di sfacelo.
Proprio ora quella mosca ti raggiunge, si poggia sulla parte di fica gonfia e inzuppata che si intravede fra le tue gambe, da dietro. Ricordo di aver intravisto un ammazza mosche appeso al muro, lo afferro, lo pulisco con un fazzoletto di carta, e poi lo faccio saettare verso la tua fregna, la mosca se ne va prima, ma la schiaffa di quel retino in plastica, sibilando, impatta sulla tua vulva. Emetti un grido. Ne arriva un’altra, e un’altra, e una ancora più forte, hai bagnato anche l’ammazzamosche. Fai davvero schifo.
Ma ciò mi eccita, ho l’erezione da quando ti ho buttata su quell’ammasso di stoffa putrescente. Ho bisogno di godere e per farlo decido di usarti. Come vuotatoio. Come un cesso. Non azzardarti a muoverti, resta giù, con quell’accogliente culone per aria. Allungo la mano, servirebbe un guanto per evitare di toccarti per quanto stai diventando fetida. Ma non lo ho, quindi infilo due dita nude per verificare che tu stia portando l’anello anticoncezionale, come ti avevo detto. Entrano come un coltello caldo nel burro, sei indecorosa, aumento a 4 le dita, che si infilano e frugano verso la rugosità della tua parete verso il ventre, percepisco che stai per godere o pisciare, non ti permettere, estraggo subito. Non puoi! Immergo ancora le dita, vado su, sento l’anello. Ottimo, c’è. Posso stendere un telo cerato sopra te, non voglio toccarti, solo svuotarmi. Ti ricopro, con una vecchia forbice apro un foro, mi sovrappongo a te, infilo il foro, poi la tua fica, in una condizione di fradiciume indicibile. Ti penetro, sono duro, grosso. Tu trattieniti, se sento mugolare ancora mi sfilo. Pompo, bastano cinque spinte e scarico tutto quello che ho, dentro te, grido, sei il mio bidone, la mia latrina. Sento che stai per venire lurida vacca, estraggo subito per non appagarti, un ultimo schizzo viene sprecato sul materasso. Stai soffrendo di voglia di liberare l’orgasmo, ti vedo.
Continui a supplicare di poterti indurre piacere da sola, ma è ancora presto.
Sei così insulsa che non resisto, mi avvicino e rilasso la vescica, mi sfugge un ansimo di godimento mentre la mia urina bollente scorre nell’uretra fino a fuoriuscire con un getto intenso, non troppo limpido, verso il tuo viso. La senti che ti raggiunge irruenta, umiliante, sulla guancia, poi verso la bocca, tra i capelli; è tanta, sta allagando il materasso, senti di essere un essere così inadeguato, eppure laggiù senti colare un brodo denso, desiderio che ti sta portando ad una disperata follia.
Ti lascio lì, qualche minuto, nel marciume, piena di sperma, le labbra vaginali che pulsano, vado a chiamare Viller, il contadino quarantacinquenne che vive qui accanto. È una brava persona, ma nato con acromegalia, quella malattia che porta l’individuo ad avere delle estremità enormi.
Ha mani gigantesche e callose, grossi piedi, la testa sproporzionata con mandibola spropositata che lo rende limitato nel pronunciare le parole. È una specie di orco buono del paese. Dimenticavo, ha un pene mostruoso, la lunghezza è normale, ma il diametro supera quello di una lattina di birra. Purtroppo non si è mai integrato nella società, ha vissuto solitario a causa della sfortuna che gli è capitata. Non ha mai scopato, me l’ha confessato un giorno. Lo portai da una prostituta, ma questa, appena vide la sua erezione, si rifiutò, nonostante io le offrii una ingente somma.
Oggi è il suo giorno, oggi c’è quella che non ha ritegno, oggi ci sei tu.
Lo porto, stenta a credere che potrà avere un rapporto, mi ha detto che non si lava da tre giorni, nemmeno un bidet, ma gli ho risposto di non preoccuparsi. Non ha malattie, non può averle contratte, è solo zozzo e puzzolente. Mi confessa che durerà poco, perché non si masturba da tanto. Mi faccio promettere che farà piano, non dovrà assolutamente sfondarti. Sarò io a guidarlo. Cristo, appena ti vede si gonfia, abbassa i calzoni, tu avverti la sua presenza, respira come un grosso cane dal corpo umano. Lo estrae, è così largo da impressionare, i peli sporchi, non lo ricordavo così legnoso e abnorme.
“Viller, piano, infilala in vagina da dietro, è fradicia, entrerà, ma fai con calma o ti sbatto fuori, è la tua unica chance.”
Lui tocca, ti palpa, quelle manone insensibili che risalgono nel maglione umido di piscio e stringono i tuoi capezzoli. Ti annusa, aspetta di accoppiarsi da una vita, cerca di infilarsi in te, in modo smanioso, goffo, con quella sua cappella che sembra stia per esplodere. Riesce quasi ma sta diventando manesco. “Però Alessia, potrai venire solo dopo di lui, se ti accorgi che stai per godere alza una mano e lo trascinerò via. Se mi accorgo che non stai alle regole, perderai ogni possibilità”
Viller sta per riuscire a entrare, i suoi occhi parlano chiaro, gli si sta annebbiando la vista. Non faccio in tempo a dirgli di gestirsi, spinge tutto. È tutto dentro, emetti un grido che è un misto tra sconvolgimento, piacere e dolore. Spinge, vedo le sue giganti palle contrarsi, capisco che sta già per venire, spinge ancora due volte, come un cane, anzi come un verro. Viene, dentro, sembra che non finisca mai, fa versi disumani, sembra un esorcismo, mi chino per vedere meglio quella bestia piantata nella tua fica dilatata all’inverosimile, è talmente aderente che non esce nemmeno una goccia, ma non oso immaginare quanta ne stia riversando dentro.
“Alessia, puoi godere!” Non aspetti nemmeno un secondo, la tua mano va sul tuo clitoride, gridi dalla disperazione, sei una maiala senza precedenti, mai vista una donna ridotta così male. Venendo ti sfili e inizi a pisciare, squirtare, nemmeno tu sai cosa sia, e mentre schizzi un getto ininterrotto, esce uno sperma denso, il suo, deve essere stato davvero troppo tempo in lui, fuoriesce come se non avesse fine, lui ti cade addosso, sudato, crolla come se avesse un malore. Non parla, ha solo fiatone, il suo pene ha dato tutto in pochi secondi. Sarà la sua prima e ultima scopata. Nessun’altra può subire una bestialità del genere.
“Viller, paga la signora, sii un galantuomo.”
Fruga in tasca, trova dieci euro, non sa dove appoggiarli, ci sono liquidi ovunque. Lo porto fuori, chiudo la porta. Ti lascio ancora un po’ lì, a vivere il tuo degrado, a strusciare in quel fetore, in quella miserevole umanità che adori, annusi, ti osservo dalla grata, ti tocchi ancora, vieni ancora, continui, non smetti di farti pervadere da un piacere osceno, inconfessabile, che dedichi alle profondità della tua mente depravata.
Tra poco dovrai uscire, ti riconsegnerò al mondo, al tuo lavoro rispettabile, al tuo fidanzato che non sa chi sei, alla tua vita giusta, quella che comunque onori e rispetti, finché la tua indole più pervertita e dissoluta ti porterà a tornare da me.

aly9y libero it
scritto il
2025-12-10
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