Il vicino di casa 2

di
genere
tradimenti

Le settimane successive scivolarono via in una sorta di nebbia dorata. Per te, la vita scorreva come sempre: il lavoro, il traffico del rientro, le cene tranquille davanti alla TV. Non potevi sapere che la casa in cui rientravi ogni sera non era più lo stesso luogo sacro e inviolato che credevi. Le pareti, i tappeti, persino il tavolo della cucina avevano assorbito i sospiri e le urla soffocate di pomeriggi trascorsi tra le braccia di un altro.

Francesca era diventata un'attrice consumata. Ti accoglieva con un sorriso dolce, la cena quasi pronta, e tu la baciavi ignaro, non sentendo l'odore muschiato e selvaggio che lei aveva cercato di lavare via sotto la doccia appena mezz'ora prima. Ma c’era una crepa in quella perfezione. All’inizio, Francesca nascondeva tutto con maniacale precisione. Ma col passare del tempo, la paura di essere scoperta si era trasformata in un desiderio perverso.

Iniziò con piccoli dettagli. Una volta lasciò un bicchiere di vino in più nel lavandino, lavato male, con un’impronta che non era la sua. Un’altra volta, trovasti le sue mutandine non nel cesto della biancheria, ma abbandonate con noncuranza sotto il divano del soggiorno. "Amore, hai dimenticato queste," le dicesti, porgendogliele. Lei ti guardò, e per un secondo, solo per un secondo, nei suoi occhi non ci fu imbarazzo, ma una sfida. "Grazie," rispose, prendendole dalle tue mani con le dita che ti sfioravano il palmo.

Mentre facevate l'amore quella sera, lei era frenetica, quasi disperata. Ti graffiava la schiena, gridava il tuo nome, ma nella sua mente la scena era diversa. Immaginava che tu sapessi. Il segreto, che prima era un tesoro da custodire, stava diventando un peso che Francesca non voleva più portare da sola. Voleva condividerlo. O meglio, voleva sbattertelo in faccia.

Il gioco con il vicino non era più un'evasione, ma una necessità quotidiana. Si incontravano quando il rischio era maggiore: il mercoledì pomeriggio, quando sapevi di essere nel pieno di una riunione, o il sabato mattina, appena uscivi per le commissioni.

Un pomeriggio, eravate in cucina. Il vicino ti aveva sollevata e spinta contro il frigorifero. Aveva la camicia sbottonata, i suoi occhi le parlavano di una fame primitiva. Ma Francesca non riusciva a concentrarsi solo sulle sue labbra o sul suo corpo. La sua attenzione era divisa tra il piacere e il telefono, appoggiato sul bancone.

Un messaggio arrivò sullo schermo: eri tu, che le chiedevi se avesse bisogno di qualcosa dal supermercato.

Francesca non rispose. Invece, fece un piccolo, quasi impercettibile, movimento per allontanare la mano del vicino dalla sua bocca, e lo spinse indietro di un passo, sufficiente a farsi guardare. "Non ora," sussurrò, i suoi occhi fissi sulla notifica del tuo messaggio. Il vicino capì. Capì che il suo piacere non era solo il sesso, ma l'essere desiderata nel preciso istante in cui tu la stavi contattando.

Lui non chiese spiegazioni. Afferrò i suoi fianchi con forza, riprendendo il controllo. La spinse nuovamente contro l'elettrodomestico freddo e le sussurrò all'orecchio: "Dì il mio nome, adesso."

Francesca strinse gli occhi e gemette, ma il nome che uscì dalle sue labbra fu quello del vicino, un grido strozzato. Era la sua piccola, segreta vittoria: usare il momento del tradimento per rispondere, in modo perverso, alla tua assenza. Era una prova del fatto che il suo corpo non le appartenesse più solo in privato, ma fosse un campo di battaglia aperto al desiderio proibito.

Era il solito mercoledì. La tua auto si parcheggiò al solito posto, le chiavi tintinnarono nella tasca. Le 18:35, l'orario in cui la tua routine si fondeva con la tranquillità domestica.

Spingesti l'uscio. L'aria ti sembrò diversa. Non vuota, ma carica di un'elettricità che ti fece fermare subito.

Appena dentro il corridoio, il tuo sguardo cadde a terra. C'era un capo di abbigliamento, gettato con una noncuranza sfacciata: la gonna di seta che Francesca indossava la mattina, ora accartocciata vicino allo zerbino. Due passi più avanti, la trovasti: un minuscolo pezzo di pizzo bianco, le sue mutandine preferite, abbandonate a metà strada verso il soggiorno, come le tracce di un banchetto appena consumato.

Rimanesti immobile, il sangue che si ritirava dal tuo viso. La paura si mescolò immediatamente a una scarica elettrica di consapevolezza. Non erano lì per caso. Era una messa in scena, un invito inequivocabile.

Sentisti un suono. Non un gemito, ma un ritmo soffocato, un moto cadenzato che veniva dal soggiorno. Ti muovesti, quasi in punta di piedi, pur sapendo di dover fare rumore.

Quando l'angolo del muro si aprì alla vista del divano, il respiro ti si bloccò in gola. La scena era esattamente come l'aveva orchestrata. Il vicino, con la schiena appoggiata ai cuscini, i pantaloni abbassati. E sopra di lui, Francesca.

Era a cavalcioni, il corpo inarcato in avanti, i capelli spettinati che le cadevano sulla schiena nuda. Stava guidando il movimento, le mani sui suoi muscoli per darsi la spinta, gli occhi chiusi per il piacere, illuminata solo dalla luce fioca del crepuscolo. Era nuda, bella, devastante.

Poi, in un istante che sembrò durare un'eternità, Francesca aprì gli occhi. Li fissò nei tuoi. Non c'era sorpresa, non c'era vergogna. C'era solo una vittoria trionfante, un lampo di audacia che ti trapassò l'anima. Ti sorrise, un sorriso lento, caldo, mentre il suo movimento si faceva più languido, più visibile, come se il tuo arrivo fosse il segnale finale che lei stava aspettando. Il vicino, con un’espressione mista di imbarazzo e malizia, non si mosse, ma i suoi occhi rimasero fissi su di te, parte del gioco.

La tua mano, ancora stretta al manico della valigetta, si paralizzò. Non potevi muoverti, non potevi parlare. La scena ti teneva in ostaggio, e l'unica cosa che riuscivi a fare era guardare.

Francesca, consapevole della tua immobilità e della tua presenza, intensificò il ritmo. I suoi occhi non lasciarono i tuoi, nemmeno per un istante; erano pozzi neri di una soddisfazione cruda e innegabile.

Mentre il vicino le afferrava i fianchi, guidandola con più violenza, lei si piegò leggermente in avanti, il respiro spezzato.

“Ti piace quello che vedi?” sussurrò, la sua voce graffiata dall'eccitazione e dal movimento.

Il silenzio in casa era così denso da sembrare rumore. Ma il silenzio del tuo respiro si ruppe quando lei proseguì, le parole cariche di sfida: “Stai guardando quanto sto godendo, amore?”

Il vicino capì il suo ruolo. Alzò la testa e, con un gesto di pura arroganza e desiderio, le prese un seno, la bocca che trovava il capezzolo turgido e lo succhiava con bramosia. Francesca gemette in risposta a quel tocco, ma i suoi occhi rimasero puntati su di te, assicurandosi che tu vedessi ogni cosa.

Il piacere di entrambi si fece frettoloso, violento. Il corpo di Francesca tremava. Stava per raggiungerti, e sapeva che doveva farlo guardandoti. Il vicino, ansimando, le stringeva i fianchi per l’ultima spinta.

In quel momento, mentre il piacere la squassava in modo copioso, Francesca si bloccò per un istante sopra di lui. Non distolse lo sguardo. Un gemito lungo, gutturale, le scappò dalle labbra, un suono di totale e completo abbandono. E mentre il suo corpo si contraeva sull’altro uomo, i suoi occhi ti fissarono in un atto di possesso: tu eri lì, spettatore della sua liberazione.

Non lasciasti cadere la valigetta; la lasciasti scivolare a terra con un tonfo sordo, un suono che ruppe l'incantesimo e attirò lo sguardo sorpreso del vicino.

In quell'istante, l'ossessione prese il posto dello shock. Ti muovesti verso il divano in tre passi rapidi. Afferrasti i capelli di Francesca con la mano, con una fermezza possessiva che comunicava il tuo desiderio urgente. La tirasti indietro, separandola brutalmente dal vicino, e la spingesti a terra tra il divano e il tavolino da caffè.

Francesca non oppose resistenza. Anzi, la sua espressione era di trionfo puro. Il suo sguardo non era spaventato, ma ardeva di cupidigia e accettazione. Aveva ottenuto la reazione che cercava.

Ti strappasti la zip dei pantaloni e tirasti fuori la tua erezione. Non c'era bisogno di parole, ma le usasti lo stesso, la voce roca e piena di un'autorità che non conoscevi.

“Adesso succhialo. Guardami mentre lo fai. E fai in modo che mi piaccia.”

Il suo sguardo non si staccò dal tuo. Francesca si mosse con una prontezza che ti fece sussultare. Le sue labbra calde ti avvolsero con avidità feroce. Il piacere era amplificato dalla presenza silenziosa del vicino.

Il tuo controllo si disintegrò in pochi attimi. L'immagine di lei sull'altro uomo, la sua sfida... Quando sentisti l'urgenza irrefrenabile, tirasti indietro la testa di Francesca, la mano nei suoi capelli.

Gridasti. E le venisti in faccia, copiosamente, una scarica calda e potente che le inondò il naso, le guance e le labbra.

Francesca non si scansò. Rimase lì, seduta sul pavimento, leccandosi le labbra con lentezza, i suoi occhi ancora fissi nei tuoi.

Si sollevò dal pavimento, ignorando il disordine e il proprio intimo abbandonato. Si avvicinò al vicino, il corpo ancora lucido e tremante.

"Grazie," disse, la sua voce ora morbida e profonda.

Il vicino si avvicinò. Ti guardò un'ultima volta con un'espressione indecifrabile e poi si concentrò interamente su Francesca. La afferrò per i fianchi con forza. Prima di lasciarla andare, le prese la testa e la baciò con la lingua in modo avido e lungo. Contemporaneamente, le strinse forte una natica, lasciandole un segno rosso e fugace.

Era un addio intimo, esplicito, celebrato proprio di fronte a te.

Infine, staccandosi dalle sue labbra, il vicino si allontanò. Si sistemò la camicia, ti lanciò un cenno del capo appena percettibile e uscì dalla porta, lasciando la casa silenziosa.

Rimaneste soli. Francesca, con il fiato ancora corto per il bacio e il sorriso del trionfo negli occhi, si voltò verso di te. La sua nudità non era più una provocazione segreta, ma un fatto compiuto.
scritto il
2025-12-03
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