Hotel Dogana Vecchia
di
Sebastian V
genere
pulp
Se qualcuno di Torino dovesse leggere questo racconto, potrà capire il mio disappunto riguardo la modifica dell’insegna dell’hotel più antico della città, il Dogana Vecchia, in centro.
Ma facciamo finta che non abbiano esposto un’insipida targa in latta con la scritta “antica dogana”, conservo nella mia mente l’inquietante insegna al neon rossa che tingeva di maledizione la parete dell’hotel nelle notti di inverno, come questa.
Quando viaggio, scelgo sempre di pernottare nelle locande più vetuste, son quelle che offrono possibili reminiscenze di vite precedenti.
Sono all’ingresso, tarda ora, per strada più nessuno, uno sguardo alla lanterna alla destra dell’ingresso, entro.
Nessuno alla reception, il suono di un valzer che arriva dalla porta alla fine di un lungo androne, mi fa capire che sia in corso una serata da ballo. Sono spaesato, mi guardo attorno, tende in velluto pesante blu, nicchie con statue e, ad illuminare l’ambiente, lampadari a gas. È ovvio che sia stato catapultato a quasi due secoli fa, ho la tentazione di uscire da questo edificio, tornare alla mia quotidianità, ma avverto un richiamo, forse quello che stavo cercando, perciò percorro quel corridoio.
Mi fermo davanti ad uno specchio, è confortante vedere che sono io, ho un frac nero, la giacca con code eleganti, camicia bianca rigida con colletto alto, panciotto color avorio e un cravattone semplice ma d’effetto. La mia vita finora non è stata altro che un ballo in maschera, perciò non mi stupisco che stasera abbia scelto questi abiti ed ambientazione, non posso trattenermi, ancora qualche passo e, con portamento deciso ma composto, apro lentamente le porte del salone.
Vengo risucchiato da questo luogo, una sala ampia, resa sconfinata da soffitti alti ed enormi specchi che riflettono e amplificano la magnificenza. Stucchi, motivi dorati, armonie classiche influenzate dal romanticismo.
Un clima vivace, uomini che scambiano convenevoli e donne che attendono, mentre gardenie, rose ed altri fiori freschi diffondono un profumo leggero che avevo dimenticato.
Nel mormorio avanzo, solo, una solitudine che spero mi dia un’aura di mistero. Alla cintura, visibile quando muovo il braccio, una catena d’argento collega alla mia tasca una cipolla, con coperchio inciso. La sfioro con le dita mentre mi guardo attorno, un gesto quasi rassicurante, proprio mentre ti giri, come se avessi percepito la mia presenza prima ancora di vedermi davvero.
Tu, in abito bianco, la vita stretta dal corsetto che esalta la tua figura longilinea; la gonna ampia, sostenuta da altre sottogonne. Uno scollo che lascia scoperte spalle e petto, un nastro di velluto al collo e guanti lunghi in seta. Non hai il ventaglio, non ne hai bisogno per sprigionare mistero e fascino. Un fiore bianco infilato tra i tuoi lunghi capelli castani.
Non ci conosciamo, eppure, per un attimo, ci riconosciamo, mentre do alcuni giri di carica al meccanismo dell’orologio e lo ripongo nella tasca. (cit.)
Passo la serata in disparte, tra sorseggi di punch e limonate, a godermi sfarzo e danze ma, soprattutto, a cogliere dettagli di te.
Ti osservo mentre intrattieni qualche dialogo, noto la velocità con la quale la tua curiosità viene smossa, tuttavia inferiore a quella in cui l’interlocutore ti scade, perdendo il tuo interesse. Cerco di avvicinarmi, te ne accorgi, conversi sia in italiano che in francese. Scambiamo piccoli sorrisi, appena accennati. Sei aggraziata, fine, di classe, da come ti muovi sicuramente intelligente, quando mi guardi sento che devo proteggere i miei desideri, perché potresti prelevarli garbatamente uno ad uno. Non ho mai avuto prima paura di perdere ogni speranza, non so nemmeno di cosa, la mia mente non può contemplare questo astratto rischio imminente di potermi sentire spacciato. Devo rivolgerti parola, rompere questo gioco di sguardi, c’è il rischio che tu te ne vada, ed io debba attendere altri duecento anni per ritrovarti.
“Buonasera, avrei preferito approcciarla scrivendole, ma vista la situazione, son costretto a farlo verbalmente.”
“Allora non mi parli, non si snaturi; rischia di non riuscire ad esprimere ciò che vorrebbe, compromettendo la nostra chance. Piuttosto, visto che si vuol vendere come scrittore, mi racconti una storia. Ormai la serata mi ha stancata, mi ritiro, ho una camera qui, mi raggiunga tra venti minuti al terzo piano, bussi due volte alla porta della trentasette. E non si azzardi a sfiorarmi, potrà farlo solo con le parole.”
E senza concedermi possibilità di replica, ti dilegui.
Verifico continuamente il movimento delle lancette blu, su sfondo di smalto bianco, del mio orologio da tasca, finché arriva il momento di ritrovarti. Esco dal salone, ripercorro il corridoio, stranamente deserto, intravedo una scalinata larga, poco illuminata, all’apparenza non rassicurante.
Non mi importa, salgo.
Al primo piano un corridoio silenzioso, al secondo una finestra è socchiusa e sento il rumore di una carrozza che passa fuori. Raggiungo il terzo, il corridoio è più buio, direi più intimo. Mi fermo davanti alla trentasette, il numero in ottone è leggermente ossidato. Il cuore batte, più forte della mia mano che bussa sul legno.
“Entra pure.”
Varco la soglia e richiudo la porta. L’interno è debolmente illuminato da una singola candela sul comodino che proietta ombre sulle pareti rivestite di carta a motivi floreali. L’aria profuma di lavanda e tessuti antichi.
Tu lì, stesa sul letto, ancora vestita, seducente, girata leggermente su un fianco. Appoggiando il gomito sul materasso, con la mano aperta sostieni il capo, con naturalezza. Questa posizione ti dà un’aria contemplativa, come se fossi pronta ad ascoltare ogni parola che dirò.
Mi accomodo sulla sedia che devi aver messo tu accanto al letto, ed inizio il racconto:
“Questa storia te la scriverò tra quasi duecento anni, capisco che tutto ti sembrerà strano.
È mattina presto, scalza, hai raggiunto ad occhi semichiusi la tazza del water, non hai pantaloni, alzi la lunga maglietta che usi come pigiama e, nel sederti, abbassi le mutandine. Ti rilassi e lasci defluire la notte nel pozzo di ceramica per iniziare la giornata. Dovresti entrare nella doccia per svegliarti del tutto, ma prendi qualche minuto per te, afferri il telefonino e mentre lo scroscio dell’urina fa da sottofondo alla tua intimità, scorri i titoli di un sito di racconti erotici, sperando che qualcuno di essi stuzzichi la tua curiosità.
Un titolo, quanto è importante, come il primo sguardo in una folla, fuggevole carta da giocarsi per lo spietato setaccio degli stimoli.
Poi, se si ha l’onore di attenzione, in un mondo di frenetici impegni e scipite distrazioni, tocca alle prime righe approfittare della chance, come nel più delicato dei preliminari.
Un soffio che ti raggiunga senza toccarti, sfruttando il momento in cui passi, con gesto automatico, qualche strappo di carta fra le cosce; una fantasia che lentamente si impianta, mentre apri l’acqua attendendo quei secondi necessari perché diventi calda.
Ti guardi allo specchio, sfili la maglia, oggi non lo fai incurante, osservi la tua immagine che si denuda, che lascia cadere l’intimo, te ne liberi del tutto, sollevando prima un piede e poi l’altro. Non ti soffermi sulle forme del corpo, ti guardi, lentamente monta in te il bisogno di consegnarti, offrirti per essere presa. Palpata come solo le curate e vogliose mani dell’uomo che ancora non conosci possono fare.
Provi a stringerti i seni, ma sai che lui li modellerebbe con più fervore.
Il vapore inizia ad uscire dalla doccia e a condensare sullo specchio, sulle pareti, sulla tua pelle. Butti un’occhiata verso la porta socchiusa, non puoi permetterti di venir scoperta, disturbata, la chiudi, giri silenziosamente la chiave, non importa da chi tu ti stia nascondendo.
Copri con l’asciugamano la serratura, non vuoi rischiare che qualcuno guardi ciò che non gli appartiene davvero.
Oggi tocca a te spiare te stessa.
Ti chini sul lavandino, senza smettere di guardarti negli occhi bevi un po’ dell’acqua che fai scorrere girando il rubinetto, ti piace l’immagine del tuo labbro inferiore deturpato dal liquido che esce impetuoso.
Non ti basta.
Restando piegata, porti la mano tra i tuoi capelli, ne raccogli quanti più riesci, tiri, perché vuoi vedere e sentire la tua testa tenuta in pugno.
Prima di appannarsi del tutto, lo specchio offusca ulteriormente il confine tra la realtà e la fantasia.
Proprio mentre il troppo vapore riduce il piccolo bagno a una calda nebulosa cella di perdizione mentale, lo senti.
Stavolta non è la tua mano, non sei tu a provocarti tatto, perché una mano è tra i tuoi capelli e l’altra aggrappata al lavandino. Un muscolo umido, dalla consistenza riconosci una lingua, sta leccando, con cura, le goccioline sulle tue chiappe e sembra intenzionato ad addentrarvisi.
Che sia l’uomo che le tue voglie attendono da tempo?
Divarichi una gamba e con una mano allontani un tuo gluteo dall’altro, aprendoti; ricordi di aver passato rapidamente la carta, nessun lavaggio, non puoi sentirti linda.
Eppure ciò incrementa il tuo sporco desiderio di lasciarti pulire e deglutire, anche perché sai che quel pennacchio di carne che ti sta golosamente lucidando il foro del culo, si sta imbattendo anche nelle gocce di vapore e sudore che scendono dalla tua schiena.
Molli i tuoi capelli, ora a sorreggerti è il petto, poggiato sul lavandino.
Con due polpastrelli, dove la natura ha nascosto il tuo punto più sensibile, mescoli sapientemente la vernice della tua lussuria, miscelando mirate pressioni ed infimi sfioramenti.
Se quell’uomo fosse davvero dietro di te, questo sarebbe il momento perfetto per riceverlo, conoscerne la consistenza, la crudeltà, la finezza, la sua esigenza primordiale di te, il rintocco del suo bisogno di riempirti.
In preda alla parte più inconfessabile di te, cerchi di avvicinarti allo specchio, ormai ricoperto di condensa; col palmo della tua lingua cerchi di pulirne qualche centimetro. Con due ampie passate da vera cagna, riesci, animalescamente, ad aprire uno spiraglio di visuale.
Riappare, è dietro di te, si è rialzato, ha appena tolto il suo arco di cupido dal tuo ano, capelli mori, bagnati quanto te, occhi scuri, spalle e braccia possenti che non preludono fragilità, con una sua mano si sta accarezzando il sesso, non riesci a vederlo nitidamente, ma avverti di essere spacciata.
Continui a toccarti attendendo la condanna per questa tua insolita condotta da sgualdrina.
È la sua mano ora a raggruppare i tuoi capelli, senza lasciarne nemmeno una ciocca libera.
Con l’altra fa un giro su tutto il tuo corpo, si gode la carne dei tuoi seni, la maltratta, tocca la tua schiena, i tuoi fianchi, il tuo ventre, ti brancica come un porco, in pochi secondi senti di non aver più segreti nei confronti del suo tatto.
Spinge, inabissandosi in te, rompe gli argini della tua creanza, stracciando integerrime repressioni. Invade, scardinando la tua rettitudine e disciplina, mentre la tua mano accelera verso la ricerca del baratro.
Non ha nemmeno bisogno di spingere forte, gli basta riempirti, svuotarti e riempirti la seconda volta perché la tua diga tracimi, colando miele d’appartenenza.
No, non ti verrà dentro, non sarà così spietato da sfondarti analmente, forse schizzerà appena si sfilerà da te, sicuramente i getti raggiungeranno lo specchio vicino al tuo viso.
Ma questi sono dettagli, ora devi ricomporti, buttarti sotto la doccia cercando di lavar via sudore e pensieri. Possiamo chiudere questo racconto e farmi sparire dalla tua giornata.
Forse.”
Il racconto termina, entrambi rimettiamo a fuoco la stanza, la tua mano ha raccolto tutta quella stoffa sotto la larga gonna, mi accorgo che ti sei toccata ascoltandomi, dai tuoi ansimi capisco che non ne hai abbastanza. Guardi me, intravedi che leggere per te mi ha eccitato, decidi di violare il patto di non lasciarti toccare.
“Il racconto di quella fantasia nel futuro ha un passaggio che non ho gradito, quello in cui ipotizzi di non venirmi dentro, vedi di rimediare, e di farlo ora.”
Ti raggiungo, abbasso i calzoni; baciandoti, alzo quella infinità di flanella e ovatta di cotone, arrivo alle tue mutande, quelle di questo periodo, che scendono con pizzi al ginocchio, aperte nel cavallo.
Mi spingo in te. Perché tu vuoi che concederti me, lo avevi deciso dal primo istante. Coli, mentre salgo nel tuo ventre, mi inciti a compiere ciò che hai preteso.
Vengo, perché tu mi vuoi.
Ti riempio, perché hai deciso che sia il mio seme a fecondarti.
Ti ingravido, perché lo voglio anch’io, come mai ho desiderato altro. Nei secoli.
Non conosciamo i nostri nomi, non è necessario.
Ci addormentiamo così, vestiti, uno nell’altra.
Si sentono grida, il soffitto dell’hotel è in fiamme, l’intero quarto piano, mansardato, sta per crollare. Ti prendo per mano, scappiamo da questo luogo. Appena prima di arrivare a quelle maledette scale, una trave cade, ti stringo, uccide me.
Ho ancora qualche secondo, non mi basteranno per trovare la parole giuste: “ricordati del racconto”.
La compagnia di guardie del fuoco di Torino sale, ti portano in salvo.
Fonti: nell’Atlante di Torino, sezione “Incendi”, viene citato l’incendio del 1840 all’Albergo Dogana Vecchia.
Ma facciamo finta che non abbiano esposto un’insipida targa in latta con la scritta “antica dogana”, conservo nella mia mente l’inquietante insegna al neon rossa che tingeva di maledizione la parete dell’hotel nelle notti di inverno, come questa.
Quando viaggio, scelgo sempre di pernottare nelle locande più vetuste, son quelle che offrono possibili reminiscenze di vite precedenti.
Sono all’ingresso, tarda ora, per strada più nessuno, uno sguardo alla lanterna alla destra dell’ingresso, entro.
Nessuno alla reception, il suono di un valzer che arriva dalla porta alla fine di un lungo androne, mi fa capire che sia in corso una serata da ballo. Sono spaesato, mi guardo attorno, tende in velluto pesante blu, nicchie con statue e, ad illuminare l’ambiente, lampadari a gas. È ovvio che sia stato catapultato a quasi due secoli fa, ho la tentazione di uscire da questo edificio, tornare alla mia quotidianità, ma avverto un richiamo, forse quello che stavo cercando, perciò percorro quel corridoio.
Mi fermo davanti ad uno specchio, è confortante vedere che sono io, ho un frac nero, la giacca con code eleganti, camicia bianca rigida con colletto alto, panciotto color avorio e un cravattone semplice ma d’effetto. La mia vita finora non è stata altro che un ballo in maschera, perciò non mi stupisco che stasera abbia scelto questi abiti ed ambientazione, non posso trattenermi, ancora qualche passo e, con portamento deciso ma composto, apro lentamente le porte del salone.
Vengo risucchiato da questo luogo, una sala ampia, resa sconfinata da soffitti alti ed enormi specchi che riflettono e amplificano la magnificenza. Stucchi, motivi dorati, armonie classiche influenzate dal romanticismo.
Un clima vivace, uomini che scambiano convenevoli e donne che attendono, mentre gardenie, rose ed altri fiori freschi diffondono un profumo leggero che avevo dimenticato.
Nel mormorio avanzo, solo, una solitudine che spero mi dia un’aura di mistero. Alla cintura, visibile quando muovo il braccio, una catena d’argento collega alla mia tasca una cipolla, con coperchio inciso. La sfioro con le dita mentre mi guardo attorno, un gesto quasi rassicurante, proprio mentre ti giri, come se avessi percepito la mia presenza prima ancora di vedermi davvero.
Tu, in abito bianco, la vita stretta dal corsetto che esalta la tua figura longilinea; la gonna ampia, sostenuta da altre sottogonne. Uno scollo che lascia scoperte spalle e petto, un nastro di velluto al collo e guanti lunghi in seta. Non hai il ventaglio, non ne hai bisogno per sprigionare mistero e fascino. Un fiore bianco infilato tra i tuoi lunghi capelli castani.
Non ci conosciamo, eppure, per un attimo, ci riconosciamo, mentre do alcuni giri di carica al meccanismo dell’orologio e lo ripongo nella tasca. (cit.)
Passo la serata in disparte, tra sorseggi di punch e limonate, a godermi sfarzo e danze ma, soprattutto, a cogliere dettagli di te.
Ti osservo mentre intrattieni qualche dialogo, noto la velocità con la quale la tua curiosità viene smossa, tuttavia inferiore a quella in cui l’interlocutore ti scade, perdendo il tuo interesse. Cerco di avvicinarmi, te ne accorgi, conversi sia in italiano che in francese. Scambiamo piccoli sorrisi, appena accennati. Sei aggraziata, fine, di classe, da come ti muovi sicuramente intelligente, quando mi guardi sento che devo proteggere i miei desideri, perché potresti prelevarli garbatamente uno ad uno. Non ho mai avuto prima paura di perdere ogni speranza, non so nemmeno di cosa, la mia mente non può contemplare questo astratto rischio imminente di potermi sentire spacciato. Devo rivolgerti parola, rompere questo gioco di sguardi, c’è il rischio che tu te ne vada, ed io debba attendere altri duecento anni per ritrovarti.
“Buonasera, avrei preferito approcciarla scrivendole, ma vista la situazione, son costretto a farlo verbalmente.”
“Allora non mi parli, non si snaturi; rischia di non riuscire ad esprimere ciò che vorrebbe, compromettendo la nostra chance. Piuttosto, visto che si vuol vendere come scrittore, mi racconti una storia. Ormai la serata mi ha stancata, mi ritiro, ho una camera qui, mi raggiunga tra venti minuti al terzo piano, bussi due volte alla porta della trentasette. E non si azzardi a sfiorarmi, potrà farlo solo con le parole.”
E senza concedermi possibilità di replica, ti dilegui.
Verifico continuamente il movimento delle lancette blu, su sfondo di smalto bianco, del mio orologio da tasca, finché arriva il momento di ritrovarti. Esco dal salone, ripercorro il corridoio, stranamente deserto, intravedo una scalinata larga, poco illuminata, all’apparenza non rassicurante.
Non mi importa, salgo.
Al primo piano un corridoio silenzioso, al secondo una finestra è socchiusa e sento il rumore di una carrozza che passa fuori. Raggiungo il terzo, il corridoio è più buio, direi più intimo. Mi fermo davanti alla trentasette, il numero in ottone è leggermente ossidato. Il cuore batte, più forte della mia mano che bussa sul legno.
“Entra pure.”
Varco la soglia e richiudo la porta. L’interno è debolmente illuminato da una singola candela sul comodino che proietta ombre sulle pareti rivestite di carta a motivi floreali. L’aria profuma di lavanda e tessuti antichi.
Tu lì, stesa sul letto, ancora vestita, seducente, girata leggermente su un fianco. Appoggiando il gomito sul materasso, con la mano aperta sostieni il capo, con naturalezza. Questa posizione ti dà un’aria contemplativa, come se fossi pronta ad ascoltare ogni parola che dirò.
Mi accomodo sulla sedia che devi aver messo tu accanto al letto, ed inizio il racconto:
“Questa storia te la scriverò tra quasi duecento anni, capisco che tutto ti sembrerà strano.
È mattina presto, scalza, hai raggiunto ad occhi semichiusi la tazza del water, non hai pantaloni, alzi la lunga maglietta che usi come pigiama e, nel sederti, abbassi le mutandine. Ti rilassi e lasci defluire la notte nel pozzo di ceramica per iniziare la giornata. Dovresti entrare nella doccia per svegliarti del tutto, ma prendi qualche minuto per te, afferri il telefonino e mentre lo scroscio dell’urina fa da sottofondo alla tua intimità, scorri i titoli di un sito di racconti erotici, sperando che qualcuno di essi stuzzichi la tua curiosità.
Un titolo, quanto è importante, come il primo sguardo in una folla, fuggevole carta da giocarsi per lo spietato setaccio degli stimoli.
Poi, se si ha l’onore di attenzione, in un mondo di frenetici impegni e scipite distrazioni, tocca alle prime righe approfittare della chance, come nel più delicato dei preliminari.
Un soffio che ti raggiunga senza toccarti, sfruttando il momento in cui passi, con gesto automatico, qualche strappo di carta fra le cosce; una fantasia che lentamente si impianta, mentre apri l’acqua attendendo quei secondi necessari perché diventi calda.
Ti guardi allo specchio, sfili la maglia, oggi non lo fai incurante, osservi la tua immagine che si denuda, che lascia cadere l’intimo, te ne liberi del tutto, sollevando prima un piede e poi l’altro. Non ti soffermi sulle forme del corpo, ti guardi, lentamente monta in te il bisogno di consegnarti, offrirti per essere presa. Palpata come solo le curate e vogliose mani dell’uomo che ancora non conosci possono fare.
Provi a stringerti i seni, ma sai che lui li modellerebbe con più fervore.
Il vapore inizia ad uscire dalla doccia e a condensare sullo specchio, sulle pareti, sulla tua pelle. Butti un’occhiata verso la porta socchiusa, non puoi permetterti di venir scoperta, disturbata, la chiudi, giri silenziosamente la chiave, non importa da chi tu ti stia nascondendo.
Copri con l’asciugamano la serratura, non vuoi rischiare che qualcuno guardi ciò che non gli appartiene davvero.
Oggi tocca a te spiare te stessa.
Ti chini sul lavandino, senza smettere di guardarti negli occhi bevi un po’ dell’acqua che fai scorrere girando il rubinetto, ti piace l’immagine del tuo labbro inferiore deturpato dal liquido che esce impetuoso.
Non ti basta.
Restando piegata, porti la mano tra i tuoi capelli, ne raccogli quanti più riesci, tiri, perché vuoi vedere e sentire la tua testa tenuta in pugno.
Prima di appannarsi del tutto, lo specchio offusca ulteriormente il confine tra la realtà e la fantasia.
Proprio mentre il troppo vapore riduce il piccolo bagno a una calda nebulosa cella di perdizione mentale, lo senti.
Stavolta non è la tua mano, non sei tu a provocarti tatto, perché una mano è tra i tuoi capelli e l’altra aggrappata al lavandino. Un muscolo umido, dalla consistenza riconosci una lingua, sta leccando, con cura, le goccioline sulle tue chiappe e sembra intenzionato ad addentrarvisi.
Che sia l’uomo che le tue voglie attendono da tempo?
Divarichi una gamba e con una mano allontani un tuo gluteo dall’altro, aprendoti; ricordi di aver passato rapidamente la carta, nessun lavaggio, non puoi sentirti linda.
Eppure ciò incrementa il tuo sporco desiderio di lasciarti pulire e deglutire, anche perché sai che quel pennacchio di carne che ti sta golosamente lucidando il foro del culo, si sta imbattendo anche nelle gocce di vapore e sudore che scendono dalla tua schiena.
Molli i tuoi capelli, ora a sorreggerti è il petto, poggiato sul lavandino.
Con due polpastrelli, dove la natura ha nascosto il tuo punto più sensibile, mescoli sapientemente la vernice della tua lussuria, miscelando mirate pressioni ed infimi sfioramenti.
Se quell’uomo fosse davvero dietro di te, questo sarebbe il momento perfetto per riceverlo, conoscerne la consistenza, la crudeltà, la finezza, la sua esigenza primordiale di te, il rintocco del suo bisogno di riempirti.
In preda alla parte più inconfessabile di te, cerchi di avvicinarti allo specchio, ormai ricoperto di condensa; col palmo della tua lingua cerchi di pulirne qualche centimetro. Con due ampie passate da vera cagna, riesci, animalescamente, ad aprire uno spiraglio di visuale.
Riappare, è dietro di te, si è rialzato, ha appena tolto il suo arco di cupido dal tuo ano, capelli mori, bagnati quanto te, occhi scuri, spalle e braccia possenti che non preludono fragilità, con una sua mano si sta accarezzando il sesso, non riesci a vederlo nitidamente, ma avverti di essere spacciata.
Continui a toccarti attendendo la condanna per questa tua insolita condotta da sgualdrina.
È la sua mano ora a raggruppare i tuoi capelli, senza lasciarne nemmeno una ciocca libera.
Con l’altra fa un giro su tutto il tuo corpo, si gode la carne dei tuoi seni, la maltratta, tocca la tua schiena, i tuoi fianchi, il tuo ventre, ti brancica come un porco, in pochi secondi senti di non aver più segreti nei confronti del suo tatto.
Spinge, inabissandosi in te, rompe gli argini della tua creanza, stracciando integerrime repressioni. Invade, scardinando la tua rettitudine e disciplina, mentre la tua mano accelera verso la ricerca del baratro.
Non ha nemmeno bisogno di spingere forte, gli basta riempirti, svuotarti e riempirti la seconda volta perché la tua diga tracimi, colando miele d’appartenenza.
No, non ti verrà dentro, non sarà così spietato da sfondarti analmente, forse schizzerà appena si sfilerà da te, sicuramente i getti raggiungeranno lo specchio vicino al tuo viso.
Ma questi sono dettagli, ora devi ricomporti, buttarti sotto la doccia cercando di lavar via sudore e pensieri. Possiamo chiudere questo racconto e farmi sparire dalla tua giornata.
Forse.”
Il racconto termina, entrambi rimettiamo a fuoco la stanza, la tua mano ha raccolto tutta quella stoffa sotto la larga gonna, mi accorgo che ti sei toccata ascoltandomi, dai tuoi ansimi capisco che non ne hai abbastanza. Guardi me, intravedi che leggere per te mi ha eccitato, decidi di violare il patto di non lasciarti toccare.
“Il racconto di quella fantasia nel futuro ha un passaggio che non ho gradito, quello in cui ipotizzi di non venirmi dentro, vedi di rimediare, e di farlo ora.”
Ti raggiungo, abbasso i calzoni; baciandoti, alzo quella infinità di flanella e ovatta di cotone, arrivo alle tue mutande, quelle di questo periodo, che scendono con pizzi al ginocchio, aperte nel cavallo.
Mi spingo in te. Perché tu vuoi che concederti me, lo avevi deciso dal primo istante. Coli, mentre salgo nel tuo ventre, mi inciti a compiere ciò che hai preteso.
Vengo, perché tu mi vuoi.
Ti riempio, perché hai deciso che sia il mio seme a fecondarti.
Ti ingravido, perché lo voglio anch’io, come mai ho desiderato altro. Nei secoli.
Non conosciamo i nostri nomi, non è necessario.
Ci addormentiamo così, vestiti, uno nell’altra.
Si sentono grida, il soffitto dell’hotel è in fiamme, l’intero quarto piano, mansardato, sta per crollare. Ti prendo per mano, scappiamo da questo luogo. Appena prima di arrivare a quelle maledette scale, una trave cade, ti stringo, uccide me.
Ho ancora qualche secondo, non mi basteranno per trovare la parole giuste: “ricordati del racconto”.
La compagnia di guardie del fuoco di Torino sale, ti portano in salvo.
Fonti: nell’Atlante di Torino, sezione “Incendi”, viene citato l’incendio del 1840 all’Albergo Dogana Vecchia.
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