Emma 1

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Capitolo I – Il caffè di Kai
Ricordo tutto, come fosse ieri. Il giorno in cui Kai mi offrì quel cazzo di caffè. Sembra una stupidaggine, una tazzina bollente davanti alla macchinetta in ufficio, e invece fu l’inizio della mia rovina. O della mia salvezza, dipende da come lo guardo adesso.
Arrivai al lavoro con la testa piena di rancore. Mio marito russava ancora quando me ne andai: la camicia del giorno prima buttata sulla sedia puzzava di figa giovane e dolciastra. Un odore che non era mio. Io sapevo già tutto, ma facevo finta di niente. Lui non mi scopava più, se non in quei due minuti mosci e distratti, senza guardarmi in faccia, senza neanche bagnarsi le dita per scaldarmi. Ero diventata un soprammobile.
In ufficio invece c’era Kai. Alto, largo di spalle, la camicia bianca aperta su un petto che avrei voluto leccare fino a farlo sanguinare. Mi fissava senza pudore, con quegli occhi che dicevano: so già come gemerai quando ti aprirò le gambe.
«Caffè?» mi disse, porgendomi la tazzina.
Lo presi. Era bollente, ma il calore vero mi montava già tra le cosce. Mi colava addosso come sudore, e avevo le mutandine già umide. Non dissi niente, ma lui sorrise: aveva capito.
«Sai, Emma» mormorò, «alcune donne hanno bisogno di più attenzioni di altre.»
Gli avrei sputato in faccia, se non fosse che dentro mi stavo già immaginando in ginocchio, con il suo cazzo infilato fino in gola. Sentivo l’odore del suo corpo, misto a sapone e a pelle sudata. Non era il tanfo stantio di mio marito, era maschio vero, quello che ti prende allo stomaco e ti fa gocciolare la figa.
«Pranziamo insieme?» mi chiese.
«Sì» risposi, senza nemmeno pensarci.
Passai tutta la mattina a pensare al suo cazzo. Lo immaginavo spesso, duro sotto i pantaloni, mentre le sue mani mi strappavano i collant, mi infilavano due dita in figa e poi me le spingevano in bocca per farmi assaggiare il mio stesso sapore. Mi colavo addosso a star seduta, con il rumore delle tastiere e delle fotocopiatrici che diventavano una musica sporca, un accompagnamento ai miei pensieri.
A pranzo finimmo in un posto qualunque. Non toccai quasi il piatto. Lui parlava, io fissavo la sua bocca, immaginando il rumore che avrebbe fatto succhiandomi il clitoride, il gemito umido che mi sarebbe scappato. Sì, avevo già deciso. Non stavo resistendo a niente: stavo aspettando solo che lui dicesse la parola giusta.
«Sei stanca?» mi domandò.
«Forse.»
«O sei insoddisfatta?» ribatté, con quello sguardo bastardo.
Quella frase mi aprì in due. Mi trapassò come un coltello. Lo ero. Insoddisfatta, secca, abbandonata. Ma lì, davanti a lui, ero gonfia, calda, bagnata.
«Forse entrambe» dissi.
Lui sorrise e mi toccò appena il polso. Un gesto minimo, ma io sentii l’elettricità schizzarmi dritta tra le cosce.
«Vieni» mi disse.
Lo seguii. Non importava dove.
Era un hotel da quattro soldi. Tende beige, moquette sporca. Non me ne fregava nulla. Mi girai appena la porta si chiuse. Gli vidi negli occhi la stessa fame che avevo io.
«Non possiamo…» provai a dire.
«Vuoi che smetta?» rispose lui.
«No.»
Lo presi per il collo e lo baciai. Le nostre lingue sbatterono l’una contro l’altra, saliva dappertutto, il rumore umido che mi fece gemere ancora prima che mi sfiorasse. Sentii il suo cazzo, grosso, duro, spingere contro di me attraverso i pantaloni. Era caldo, vivo, pulsante. E io volevo solo sentirmelo dentro.
Mi spinse sul letto. Mi strappò la camicetta, il reggiseno. Le mie tette scivolarono fuori, dure e gonfie. Le prese con le mani, le strinse forte, tanto da farmi male, ma quel dolore mi fece urlare ancora più forte.
Le sue dita scesero veloci, mi spinsero via le mutandine. «Cristo, sei fradicia» disse.
«E allora scopami» gli ringhiai.
Mi entrò dentro con un colpo secco. Non aspettò, non accarezzò, non chiese permesso. Il suo cazzo mi riempì tutta, fino in fondo, e io urlai, un urlo che rimbalzò sulle pareti sporche della stanza. Ogni colpo faceva schioccare le nostre carni, un rumore sporco, viscido, che mi eccitava ancora di più. Sentivo la figa succhiargli il cazzo, i miei umori scivolare giù per le cosce, il letto bagnarsi sotto di noi.
Lui gemeva, ringhiava quasi, mentre mi scopava come se volesse spaccarmi in due. Io graffiavo la sua schiena, lasciando segni rossi, e annusavo il suo sudore, acre e forte, che mi faceva girare la testa. Mi leccai le dita, mi infilai un dito in bocca, sentii il sapore salato del mio stesso piacere.
Venne fuori da me solo un attimo, giusto per sbattermi il cazzo bagnato sulle labbra della figa, slap slap slap, facendomi tremare. Poi mi prese da dietro, mi piegò in due e mi sfondò ancora, più forte, più sporco. Il rumore delle sue palle che sbattevano contro il mio culo era una musica oscena, e io gemevo come una puttana.
Venni. Forte. Urlai senza vergogna, mentre il corpo mi si scuoteva, i muscoli che mi scattavano da soli. Non ricordavo l’ultima volta che avevo goduto così. Forse mai. Non finì lì: lui continuò a scoparmi, e venni ancora, un secondo, un terzo orgasmo, mentre sentivo il letto scricchiolare e le lenzuola impregnarsi dei nostri fluidi.
Quando finalmente venne dentro di me, con un grido gutturale, sentii il suo seme caldo inondarmi, colare fuori e gocciolare sulle cosce. Mi lasciai cadere, sudata, disfatta, col respiro corto e la figa che ancora pulsava.
«E adesso?» mi chiese, con quel sorriso bastardo.
Lo guardai, le gambe ancora tremanti, il cuore in gola.
«Adesso» dissi, «sono tua.»
Ed era vero. In quella stanza di merda, con l’odore di sesso e di sudore che impregnava tutto, avevo appena tradito mio marito e me stessa. Ma per la prima volta dopo anni mi sentivo viva. Segue..
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scritto il
2025-09-20
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