Legato
di
Terry bondage
genere
bondage
Sono dietro di lui, e lo guardo. Immobile, incastrato nel disegno preciso che ho tracciato con ogni nodo.
I suoi gomiti sono serrati l’uno contro l’altro, come se le ossa si volessero fondere. I polsi, incrociati con cura maniacale, sono tirati fino alle caviglie, il corpo forzato in una tensione che lo rende fragile, bellissimo.
Le cosce, intrappolate da più spire, non possono separarsi nemmeno di un centimetro. E sul petto… ho usato metri e metri di corda, stringendo, sovrapponendo, creando una gabbia viva che si muove appena col suo respiro, ma non cede mai.
Si dimena. Un movimento lento, disperato, quasi animale.
La mia mano lo accarezza, mentre nell’altra tengo la ballgag. Provo ad avvicinarla, ma lui chiude la bocca. Rido piano, vicino al suo orecchio.
Con due dita gli tappo il naso aspettando pazientemente, lui si dimena ma so che tra breve sarà costretto a cedere.
La sua bocca si apre in un gemito — e io ne approfitto.
La ballgag scivola dentro, velocemente, e con un gesto secco tiro la cinghia dietro la nuca. Forte. Precisa.
Ora il silenzio è completo. E la mia opera… perfetta.
La testa gli cade leggermente in avanti, la ballgag lo costringe a respirare con lentezza, attraverso il naso. Lo guardo. È bellissimo così, ridotto al silenzio, prigioniero del mio disegno. Ogni corda racconta un’intenzione. Ogni nodo è una scelta.
Mi muovo davanti a lui. I suoi occhi mi seguono, lucidi. C’è rabbia, forse. Ma anche qualcosa di più profondo… una resa che non osa ammettere.
Le dita sfiorano il suo petto compresso, premuto dalle corde che affondano nella pelle lasciando segni. Lo accarezzo piano, poi con più forza. Le unghie graffiano appena. Lui si irrigidisce, inmmobilizzato sulla sedia.
Mi piego su di lui, vicinissimo, sento il suo respiro caldo sulle labbra. Non può parlarmi, ma non ne ha bisogno. Lo sento lo stesso, lo leggo nei tremori che attraversano il suo corpo come scariche.
Scivolo verso le sue cosce legate, tocco i punti in cui la corda morde di più. Ogni pressione, ogni legatura è studiata per non dare tregua, per ricordargli che non ha vie di fuga.
Il suo pene eretto tradisce il fatto che dica che non gli piace essere legato.
Eppure… non c’è paura nei suoi occhi. Solo attesa.
Attesa di ciò che verrà dopo.
Le sue dita si muovono appena, come a cercare uno sfogo, ma i polsi sono serrati, stretti contro le caviglie da nodi precisi, inesorabili. Ogni sforzo è inutile. E lo sa.
La pelle comincia a mostrare i primi segni: arrossata, segnata dove le corde stringono di più. Bellissima. Fragile e mia.
Mi inginocchio davanti a lui, lentamente. Voglio che senta ogni movimento, ogni istante.
Le mani scorrono sulle sue cosce, su fino ad accarezzare il suo pene e i testicoli che spuntano tra le corde, passo le mani sopra le corde tese che spingono sulla carne, separandola, ordinandola. Premo con i pollici tra due spire, e lui sobbalza. Non può fuggire.
Lo guardo negli occhi mentre lo faccio. Non distolgo mai lo sguardo. Lui respira più veloce. Gli occhi lucidi, carichi di qualcosa che assomiglia alla resa, ma è più scuro, più profondo.
È rabbia. È impotenza.
Mi alzo. La sedia su cui è legato scricchiola appena sotto il suo peso trattenuto. Cammino intorno a lui come un predatore tranquillo.
Ogni nodo ha tenuto. Ogni legatura è perfetta.
Tutto il suo corpo è una mappa tracciata da me. So dove pulsa il sangue più forte, dove il dolore è più dolce, dove il piacere nasce dalla tensione.
Mi fermo dietro di lui di nuovo. Una mano sulla nuca, l’altra scivola tra le scapole.
Lui geme contro la ballgag. È un suono ovattato, lontano, ma pieno.
La saliva che si è prodotta nella sua bocca comincia a defluire.
Non dice nulla. Eppure parla.
Le mie mani tornano a scorrere sulla sua pelle. Più lente, più morbide ora. Lo accarezzo come si accarezza qualcosa di prezioso, qualcosa che si è conquistato.
Le dita sfiorano i segni delle corde sul petto, premendo appena per sentirne il rilievo. Poi le porto alla bocca e lo bacio. Un bacio lento, lungo, sul collo, sull’orecchio, sul bordo teso della ballgag.
Lui si dimena, ancora. Ma lo fa come chi sa già che non c’è via di fuga.
È una danza senza uscita. Bellissima. Inutile.
La saliva comincia a scivolare fuori dai lati della bocca. La ballgag non gli dà tregua, e ormai il controllo è andato. Colando lungo il mento, la scia si apre la strada sul petto, attraversa le corde, cade goccia dopo goccia verso il basso. Verso il suo pene eretto che svetta duro tra le corde.
Lo guarda accadere — e non può far nulla per fermarlo.
Non può asciugarsi. Non può nascondersi.
Solo sentirlo. E sopportarlo.
Il liquido lo bagna tra le gambe, lento, umiliante. E io lo guardo, godendomi ogni dettaglio.
Mi chino su di lui, quasi a sussurrargli un segreto.
La mia voce è bassa, calda, velenosa.
«Pensa… se ti vedesse una mia amica così.»
Mi fermo un attimo, lasciando che le parole affondino.
«Se entrasse adesso. Se ti vedesse legato, nudo, sbavante…»
Sorrido.
«Penserebbe che sei un giocattolo. E forse… non sbaglierebbe.»
Lui geme, scuote la testa, ma la saliva continua a colare, e le corde non mollano.
La sua pelle brucia sotto le mie carezze. E la vergogna lo rende ancora più mio.
Driiin.
Il suono del campanello taglia l’aria come un coltello. Mi blocco un attimo, poi sorrido.
«E adesso chi sarà?» mormoro, con una risatina bassa e lenta.
Lui solleva lo sguardo di scatto. Gli occhi spalancati, il respiro che si fa più veloce. Comincia ad agitarsi davvero — non quei movimenti contenuti di prima, ma spasmi tesi, disperati. La sedia sotto di lui cigola, vibra sotto la forza del suo corpo legato ad essa.
Le corde tengono. Ovviamente.
Ma lo spettacolo è magnifico.
La saliva gli cola ancora di più. La ballgag affonda tra le labbra e ora è completamente inzuppata. La scia lucida gli attraversa il petto, si raccoglie tra le cosce legate, brilla sulla pelle come una confessione.
Non può nascondersi. Non può urlare.
E non ha idea di chi stia per entrare.
Mi avvicino alla porta con lentezza, lasciando che ogni passo sia una tortura per lui. Prima di aprire, lo guardo un’ultima volta. È lì, al centro del salotto, nudo, legato, umiliato, incapace di muoversi.
La sedia scricchiola ancora. Le sue mani si chiudono a pugno, ma le corde non cedono.
Click. Click. Click.
La porta si apre.
«Clara…»
Il mio sorriso si allarga.
Lei è lì, in piedi sull’ingresso. Occhi sorpresi, poi lenti a scivolare oltre la mia spalla, dentro casa.
A cercare lui.
Il silenzio è eterno. Poi le sue labbra si piegano in un mezzo sorriso curioso, lento.
«Oh…» dice solo, con la voce piena di un interesse trattenuto. «Non sapevo avessi iniziato senza di me.»
Mi volto verso di lui.
La sua espressione è puro panico. La sedia geme sotto i suoi spasmi.
La saliva continua a colare.
Clara entra, chiude la porta lentamente, senza staccare lo sguardo da lui.
I suoi occhi si muovono lenti, attenti, come se stesse osservando un'opera d’arte.
Il suo corpo ondeggia con eleganza sotto una camicia bianca leggermente trasparente, aperta abbastanza da lasciar intravedere il bordo del reggiseno nero. La minigonna è corta, appena sufficiente a coprire l’essenziale, e i suoi stivali altissimi le allungano le gambe fino all’assurdo. Ogni passo sul pavimenti produce un colpo secco di tacco, come un metronomo crudele.
Io resto in piedi al centro della stanza, tra lei e lui.
Indosso il mio abito preferito. Corto. Bianco e Nero. Aderente come una seconda pelle. Il tessuto lucido si tende così tanto sul mio petto che sembra sul punto di cedere, ogni respiro un atto di sfida alla stoffa. Le mie scarpe hanno un tacco vertiginoso, lucide, nere come l’inchiostro.
Mi sento divina. E Clara lo sa.
Lui, invece… è devastato.
I muscoli tesi contro le corde, la pelle lucida di saliva e vergogna. Gli occhi implorano, forse pietà, forse comprensione. Ma il suo corpo — il suo corpo tradisce tutto.
L’erezione è evidente, impossibile da ignorare. Gonfia, viva, indifendibile.
Le sue cosce legate si tendono involontariamente, come se volessero proteggere ciò che ormai è sotto gli occhi di entrambe.
Il membro pulsa, lucido di saliva scivolata fino lì, quasi a sottolineare l’umiliazione con una crudele ironia.
Clara si avvicina, un sorriso tagliente sulle labbra.
«Dicevi che non ti piaceva?»
La sua voce è morbida, beffarda. Poi si volta verso di me, sollevando un sopracciglio.
«Strano… a giudicare da qui, direi che adora ogni secondo.»
Io mi avvicino a lui. Mi piego. Gli parlo all’orecchio con voce lenta, bassissima.
«Guarda cosa sei diventato. Legato, sbavante… e completamente duro.»
Poi mi scosto di un passo, lasciando che Clara lo osservi da vicino.
Lei si inginocchia, gli passa una mano lungo la coscia legata, sfiorando la pelle senza toccare il centro del suo desiderio.
«Ti vergogni, vero?» sussurra. «Ma è il tuo corpo a parlare adesso. E non mente.»
Lui cerca di scuotere la testa, un gemito confuso e roco si infrange contro la ballgag. Ma la sua erezione è lì, a smentirlo con prepotenza.
Io e Clara ci scambiamo uno sguardo d’intesa.
Sappiamo esattamente come continuare.
Clara si alza lentamente e cammina fino al tavolo dove tengo le corde. Ne prende alcune, le soppesa con calma, passandole tra le dita come fossero nastri di seta.
Io la raggiungo. I nostri sguardi si incrociano. Sorridiamo.
Sappiamo perfettamente cosa fare.
Torniamo da lui insieme, con lentezza, come due cacciatrici pronte a finire la preda.
Lui ci guarda, gli occhi spalancati sopra la ballgag, le pupille tremano. È ancora teso, ancora in lotta, ma ormai quella resistenza è vuota. Automatica. Il suo corpo ha già deciso per lui.
Mi inginocchio alle sue gambe, Clara alle braccia.
«Guarda un po’ cosa ci siamo dimenticate…» sussurro, facendo scorrere la corda sotto le ginocchia.
«Che sbadate!» ride Clara, mentre fa passare la sua tra i gomiti e i polsi già stretti. «Lasciare dello spazio… così poco decoroso.»
Leghiamo in silenzio per qualche secondo, concentrate, finché i nuovi nodi iniziano a scavare più a fondo. Le gambe sotto le ginocchia vengono strette insieme fino a tremare. La carne si gonfia appena attorno alla corda, segnata, viva.
Lui si contorce, ma non c’è margine. Ogni movimento è un gesto inutile. La sedia scricchiola ancora, ma meno.
È quasi completamente immobile, ora.
«Mmm… qui si può stringere ancora un po’, no?» dice Clara, mentre tende con calma una delle corde già presenti tra i gomiti.
«Oh sì… guarda com'è bello quando stringe davvero…» rispondo io, tirando il mio nodo sotto il ginocchio con un colpo secco.
Lui geme, un suono profondo, disperato. Ma non protesta più.
Non può.
La saliva gli cola copiosa ora, bagnando il petto, scivolando lungo l’addome, gocciolando sulle gambe.
Clara lo guarda con finta pietà.
«Poverino… tutto legato, tutto duro… e incapace persino di pulirsi la bocca.»
Poi si piega verso di lui, quasi toccandogli il viso.
«Ma d’altronde… se ti piace così tanto, perché dovremmo aiutarti?»
Io mi avvicino, gli sfioro la pelle con la punta delle dita. Ogni parte del suo corpo è intrappolata. Ogni nodo teso. Ogni respiro misurato.
È nostro. Totalmente.
Mi chino a pochi centimetri dal suo orecchio, la mia voce un sussurro tagliente.
«Sei un capolavoro, lo sai? Un’opera viva. Legata, esposta, umiliata… e così incredibilmente eccitata. Tu dici no. Ma il tuo corpo... il tuo corpo urla sì.»
Clara gli dà un buffetto sulla guancia.
«Sbavi come un cane in calore… e noi non abbiamo nemmeno iniziato.»
Lui trema. Il suo sguardo è un miscuglio di desiderio e vergogna, di rifiuto e resa.
Ma la verità è già scritta, sulla pelle, nelle corde, nell’erezione che non accenna a calare.
E adesso…?
Adesso, tocca a noi decidere quanto ancora può sopportare.
Siamo lì, io e Clara, in piedi davanti a lui.
Il nostro capolavoro di carne e corde.
Non può più muoversi. Non davvero. Ogni parte del suo corpo è stretta, compressa, ordinata secondo la nostra volontà. Solo piccoli tremori, respiri corti, spasmi nervosi.
Clara si china su di lui per prima. Gli solleva il mento con due dita, costringendolo a guardarla negli occhi.
«Hai un’aria così tragica…» mormora, inclinando il capo con finta dolcezza. «Come se non stessi godendo ogni secondo di questo.»
Poi, con un gesto rapido, lo pizzica sul fianco — un punto scoperto e sensibile.
Lui si irrigidisce di colpo, emettendo un suono strozzato contro la ballgag.
Io rido.
«Che reazione! Guarda come salta…»
Mi avvicino anche io, passo una mano sul suo petto segnato dalle corde, poi scendo piano verso l’addome.
«Non ha proprio più alcun controllo… eppure guarda com’è teso, com’è vivo.»
Gli do un pizzicotto sul fianco opposto, più forte. La sedia sobbalza leggermente, cigola sotto la tensione del suo corpo che cerca di divincolarsi.
Clara gira dietro di lui e gliene dà uno sulla coscia legata.
«Dai, resisti un po’…» gli sussurra all’orecchio. «Oppure vuoi piangere anche per questo?»
E allora succede.
Lui raccoglie tutte le forze che ha, si irrigidisce, le corde scricchiolano tirandosi al limite. I muscoli si gonfiano sotto i nodi. Il busto si contorce, la testa scatta da una parte all’altra, la saliva vola via in gocce che colpiscono il pavimento.
È una ribellione istintiva, disperata, brutale.
Un ruggito silenzioso contro il proprio corpo.
Ma non serve.
Le corde tengono.
Ogni centimetro. Ogni nodo.
L’unico risultato è che si sbatte, ansima, sbava di più. E noi… noi lo guardiamo come si guarda una creatura bellissima in cattività.
Io gli accarezzo la guancia, adesso rossa di sforzo.
«Tutto questo per un paio di pizzicotti? Poverino… che sensibilone.»
Clara ride alle mie spalle, appoggiandogli una mano tra le scapole, dove la pelle è calda e tesa.
«Non ha ancora capito che peggiora tutto così. Ma va bene… lascia che ci metta il suo tempo.»
Lui si ferma. Lentamente. Esausto. Respirando forte dal naso, il petto che si alza a fatica tra le corde strette.
Suda. Trema. Sbava ancora.
Ed è bellissimo.
Lo guardiamo mentre si piega sotto il peso di quegli spasmi inutili.
La sua bocca tappata, la saliva che cola copiosa, la pelle rossa e lucida dove le corde scavano la carne.
È la scena perfetta di chi non può che arrendersi, di chi è del tutto esposto alla nostra volontà.
Clara si abbassa di nuovo, le dita fredde che accarezzano il suo viso sudato.
«Guarda come sbava, come si contorce…» mormora con un sorriso crudele. «Non riesci nemmeno a trattenerti, eppure fai finta di niente.»
Io mi chino, gli passo una mano lenta sulla fronte bagnata di sudore, e gli sussurro all’orecchio:
«Sei solo un piccolo animale impaurito, legato e incapace di fare altro che dimenarti e sbavare. E noi… noi ti guardiamo ridendo.»
Lo pizzico ancora, questa volta più deciso, proprio dove la pelle è più tenera, e lui sobbalza.
La sua impotenza è totale. La sua dignità sparita.
E allora ridiamo, io e Clara, guardandolo come si guarda qualcosa di fragile e rotto, qualcosa che non ha più voce.
Ridiamo di lui, delle sue lotte, della sua vulnerabilità.
Poi, improvvisamente, cambio ritmo.
Mi alzo, mi stacco da lui con un sorriso diverso.
Un sorriso che promette qualcosa di nuovo.
«Basta un attimo.» dico, la voce più dolce, più calda.
Clara annuisce, lasciando cadere le corde appena strette.
Ci spostiamo entrambi indietro, lasciandogli un attimo di respiro.
Lui ansima, gli occhi che cercano qualcosa, qualcuno.
Il gioco cambia.
Ora non è più solo umiliazione.
Ora entra la cura.
Il respiro lento, le mani che scivolano leggere.
La tensione non si spezza, ma si trasforma.
Io e Clara ci allontaniamo appena, ma non del tutto.
Restiamo lì, vicine, come sentinelle che osservano la preda esausta.
Il respiro di lui è affannoso, il petto si solleva e abbassa sotto le corde, lento ma ancora teso.
Mi inginocchio di fianco a lui, facendogli sentire il calore della mia mano che scivola piano lungo il collo.
La pelle è lucida di sudore, i muscoli ancora contratti, ma sotto quel rigore qualcosa inizia a sciogliersi.
Lo guardo negli occhi, quelli che finalmente riescono a fissarmi senza paura, solo con un filo di desiderio confuso.
Clara sfiora una mano dietro la sua nuca, delicata, quasi una carezza.
Il contrasto è netto: le corde che stringono e le mani che accarezzano.
«Respira con noi,» sussurro piano, posando le dita sulle sue tempie.
«Lascia andare… anche solo per un momento.»
Lui cerca, con fatica, di abbandonarsi, mentre Clara gli passa una mano lungo il torace, sciogliendo lentamente una delle corde meno strette, quasi a donargli un attimo di libertà senza davvero concedergliela.
I suoi occhi si chiudono per un istante, la bocca imbavagliata si muove in un muto gemito.
Lo sento tremare, ma non per la paura o la vergogna — ora è un tremore diverso, più dolce, più vero.
Io sfioro il suo labbro inferiore con la punta delle dita, un tocco leggero che parla più di mille parole.
Clara gli accarezza il viso, il collo, la spalla.
Due opposti, due lati dello stesso gioco: il potere e la cura.
L’umiliazione che si trasforma in abbandono.
E in quel momento il silenzio si fa dolce, intenso.
Come un respiro sospeso tra la punizione e il perdono.
Le nostre mani si muovono lente e leggere, seguendo ogni curva, ogni tensione residua di quel corpo stretto.
Lui è quasi scomparso nel silenzio, perso tra il respiro, i battiti accelerati, la pelle che risponde a ogni sfioramento.
La sua mente vacilla, confusa, sospesa tra il dolore e il piacere che ci siamo presi cura di far emergere.
Poi, senza avviso, un brivido più forte lo scuote, un’onda che parte dal basso ventre e sale impetuosa.
I muscoli si contraggono, il corpo si tende con forza immensa, mentre i gemiti strozzati si fanno ancora più intensi dietro il bavaglio.
È un orgasmo esplosivo, violento, così potente da scuoterlo tutto, da farlo tremare come una tempesta incontrollabile.
La saliva cola copiosa, e con essa, un altro segno della sua perdita di controllo.
Il calore umido che imbratta le corde, che sfida la nostra pazienza e la disciplina che abbiamo imposto.
Lo guardiamo, lui senza fiato, sconvolto e vulnerabile, quasi sopraffatto dal proprio corpo.
Un attimo di sospensione.
Poi, io e Clara ci scambiamo uno sguardo fulmineo.
Il gioco è cambiato.
Con movimenti rapidi e decisi riprendiamo il controllo.
Le mani non sono più delicate, ma ferme, dure, spietate.
Stringiamo le corde ancora di più, come per ribadire chi comanda.
i sussurri di prima diventano ordini secchi, pungenti.
«Non si fa senza permesso,» dico io, il tono gelido, l’ombra di un sorriso crudele che affiora.
Clara annuisce, appoggiandogli una mano forte sulla mascella, costringendolo a guardarci.
«Adesso ti insegniamo a rispettare le regole.»
La sua erezione ancora evidente diventa motivo di umiliazione, mentre il corpo legato è costretto a una nuova prova di obbedienza.
Il piacere si mescola al dolore, la cura alla punizione.
E noi, dominatrici assolute, decidiamo quanto ancora lui potrà sopportare.
Non c’è più spazio per la tenerezza.
Lui ha superato un confine, e ora noi siamo il giudizio.
Le corde si tendono ancora, tirate al massimo senza pietà. Ogni nodo viene controllato, raddoppiato, stretto fino a costringerlo a respirare a fondo per sopportare la pressione.
Il corpo, già provato, si piega sotto la nostra volontà.
Clara si inginocchia e stringe i gomiti fino a farli quasi toccare.
Io passo dietro di lui e tiro con forza le corde sotto le ginocchia, incrociando i nodi con quelli alle caviglie.
Ora non può più muoversi nemmeno per sbaglio. È immobile, un prigioniero vivo, un trofeo marchiato di vergogna e desiderio.
Il suo respiro è affannoso. Gli occhi lucidi.
La saliva gli cola ancora, ma non c’è più resistenza nei suoi gesti.
Solo tremore.
Solo resa.
Clara si solleva, si sistema la gonna come se nulla fosse, poi si volta verso di me con un sorriso freddo.
«Direi che ha imparato.»
Annuisco lentamente, passo una mano sul suo viso sudato, e lo guardo per un lungo istante.
Lui non si oppone più. Non prova nemmeno a implorare.
Il suo corpo parla per lui.
Un silenzio pieno di obbedienza.
Una resa totale, senza difese.
«Stai bene così.»
Le mie parole sono lente, ferme, quasi dolci.
«Sei esattamente dove devi essere.»
Poi ci allontaniamo. Senza fretta.
Lasciandolo legato, nudo, esausto e silenzioso, al centro della stanza.
La sedia non scricchiola più.
Non si muove nemmeno. Non può.
E, dentro, forse non vuole più farlo.
Io e Clara ci sediamo sul divano, accendiamo la TV.
Come se nulla fosse.
Sul fondo della stanza, un corpo legato trema piano.
Ma non chiede più niente.
Perché ormai… ci appartiene.
La luce nella stanza è calda, soffusa. La televisione emette solo un brusio lontano, dimenticato.
Siamo rimaste sul divano per un po’, tranquille, a osservarlo con la coda dell’occhio.
Lì, al centro del salotto. Legato. Muto.
Abbandonato al suo respiro lento e profondo.
Ma non dimenticato.
A un certo punto, senza dirci nulla, ci alziamo.
Come se un istinto comune ci muovesse allo stesso tempo.
Ci avviciniamo a lui in silenzio.
Le corde sono ancora perfette.
Il corpo è curvo, teso, esausto. Ma vivo.
I suoi occhi si sollevano appena, lenti, spaesati. Ci vede. Ci riconosce.
E non reagisce.
Solo un lungo, tremante respiro.
Quasi come se ci stesse aspettando.
Mi chino per prima. Non tocco subito. Lo guardo.
Lui abbassa lo sguardo.
Poi Clara gli accarezza piano la spalla. Un gesto semplice, gentile.
«Ci sei ancora?» sussurra.
Lui annuisce appena, impercettibile. Ma sì, c’è. È ancora lì dentro.
Inizio a sfiorarlo con la punta delle dita, lungo il petto segnato dalle corde, tracciando linee tra i solchi rossi lasciati da ore di immobilità.
Clara lo segue, le sue mani che scorrono lungo l’interno delle cosce, sfiorando la pelle dove il contatto è più intimo, più sensibile.
Non parliamo.
Non ridiamo più.
Ora è un altro gioco.
Un gioco muto, caldo, quasi compassionevole. Ma ogni gesto… ogni tocco… è ancora potere.
La respirazione di lui cambia. Lo sentiamo.
Un sussulto nel ventre.
Un fremito nelle braccia legate.
La sua testa si solleva di nuovo. Ci guarda. Gli occhi lucidi, supplicanti, confusi.
Ma anche pieni di quel desiderio che non può più negare.
«Shh…» gli sussurro. «Lasciati andare. Non ti opporre.»
Clara gli sfiora l’inguine con un tocco lentissimo, e il suo corpo si tende di nuovo, quasi a scattare.
L’erezione è tornata. Gonfia, pulsante.
Incontrollabile.
Le nostre mani lo avvolgono, lo dominano con dolcezza calcolata.
E lui, esausto, distrutto, stremato… comincia a tremare.
Tutto il corpo vibra, si tende, le corde si muovono appena.
Non c’è più resistenza, né volontà.
Solo un'esplosione inevitabile.
Il piacere lo attraversa come un'onda violenta, improvvisa.
Un gemito soffocato contro la ballgag, mentre il suo corpo esplode per la seconda volta, ancor più forte, più crudo.
Un orgasmo che lo scuote fino in fondo, che gli strappa ogni ultimo brandello di controllo.
E noi restiamo lì.
A guardarlo.
A sentirlo.
Fermo. Legato. Spento.
Ma completamente, definitivamente, nostro.
Il silenzio nella stanza è cambiato.
Non c’è più solo resa. Ora c’è attesa.
Lui è ancora legato alla sedia, il corpo stanco, segnato, ma incredibilmente reattivo. Lo guardiamo per un lungo istante, poi ci muoviamo all’unisono.
Cominciamo a sciogliere le corde che lo fissavano alla sedia, lasciando però tutto il resto intatto: i polsi ancora legati dietro, i gomiti stretti, le cosce fasciate. Ogni nodo che tiene unita la sua forma resta lì, fermo, ineluttabile.
Mi abbasso e gli slego le caviglie solo per un momento.
Lui prova ad allargare le gambe, ma non può: le corde tra le cosce lo costringono a restare unito, chiuso, vulnerabile.
Poi prendo una nuova corda. Lunga, morbida, sottile.
La avvolgo lentamente alla base della sua erezione, che nonostante tutto è ancora lì, viva, tesa, indifendibile.
Lui si irrigidisce, lo sguardo si spegne in un misto di vergogna e stupore.
Clara sorride dietro di lui.
«Ancora duro… dopo tutto quello che è successo? Poverino.»
L’imbarazzo lo avvolge come un’altra corda invisibile.
La saliva continua a colare lenta, inutile.
Il corpo stretto è costretto a camminare, e io lo tiro piano, con la corda in mano, verso la camera da letto.
Ogni passo è una lotta.
Le cosce unite non gli permettono una camminata normale: deve trascinarsi, curvo, quasi inciampando, con il volto rosso e la testa bassa.
Dietro, Clara lo incalza con piccole spinte, ridacchiando tra i denti.
«Muoviti, bello. Non far finta di non adorarlo.»
Arriviamo in camera.
Lo faccio salire sul letto con un gesto secco. Il materasso affonda sotto il suo peso.
Clara lo afferra per le caviglie, e insieme le leghiamo di nuovo.
Poi, con cura calcolata, tendiamo una corda che va dai suoi polsi alle caviglie, arcuandogli il corpo in un perfetto incaprettamento.
Ora è di nuovo fermo, esposto, costretto a restare in quella posizione di completa vulnerabilità.
Lui geme piano.
Non può più fuggire, né nascondersi.
E il suo imbarazzo… è la cosa più bella da guardare.
Il tempo, ormai, è una cosa sfocata.
Sono passate ore. Dieci, forse più.
La luce è cambiata più volte nella stanza, ma lui è rimasto lì. Legato. Inchiodato al suo stesso corpo.
E ora, nella nuova posizione, l’attesa è peggio della punizione.
L’incaprettamento lo piega.
Il busto curvato in avanti, le braccia bloccate dietro, le ginocchia flesse, i polsi e le caviglie legati da un’unica corda che lo tiene sospeso in una tensione continua.
Nulla può riposare. Nulla può cedere.
Ogni muscolo brucia.
Le spalle tirano. Le gambe tremano. Le cosce, serrate da ore, mandano scosse di dolore sordo a ogni piccolo movimento. Le corde, ormai parte della sua pelle, si sono fatte più strette col tempo, con il respiro, con il sudore che ha bagnato i nodi.
Eppure… è ancora lì.
Teso. Vigile. In silenzio.
Io e Clara siamo sedute sul bordo del letto.
Vicino. Troppo vicino. Ma non lo tocchiamo.
Ancora no.
Osserviamo.
Il tremore delle gambe.
La tensione nel collo.
Il fiato che esce irregolare dal naso, perché anche respirare è diventato uno sforzo.
Lui muove appena la testa, forse per cercare un attimo di sollievo.
Ma le corde glielo ricordano subito: non c’è riposo. Solo attesa.
Attesa del prossimo gesto. Della prossima parola.
Della prossima cosa che decideremo.
Clara lo guarda a lungo. Poi sussurra:
«Dieci ore… e ancora non ha chiesto niente. Che forza. O che testardaggine.»
Io mi sporgo, lo guardo da sotto.
«Chissà quanto ancora può durare così.»
Poi gli sfioro il mento con un dito. Solo un tocco.
Lui sobbalza. Il minimo contatto è ormai un’esplosione dentro di lui.
Ma non diciamo altro.
Lo lasciamo lì.
A bruciare.
A chiedersi quando — e se — finirà.
E questo silenzio…
È la punizione più perfetta di tutte.
Il tempo, ormai, si è liquefatto.
Lui è ancora lì, piegato sul letto, avvolto nelle corde come in un bozzolo di pelle e nodi.
L’incaprettamento lo tiene immobile, sospeso tra l’aria e la sua stessa carne.
Ogni fibra del corpo vibra sotto la tensione.
Ogni respiro è un atto di volontà.
La saliva gli scende lentamente dal mento, ormai senza controllo, bagnando il lenzuolo sotto di lui in un piccolo cerchio umido, vergognoso e inevitabile.
Ma non tenta più di asciugarsi. Non può.
E forse… non vuole nemmeno.
Ci avviciniamo.
Siamo silenziose, lente, come se temessimo di spezzare qualcosa di sacro.
Le nostre mani lo sfiorano appena: sul fianco, sul petto fasciato, lungo il collo in tensione.
Accarezziamo. Osserviamo.
E lui… comincia a tremare.
Non dice nulla. Non può. Ma il corpo parla per lui.
Un fremito lieve, poi più forte.
Un contorcersi trattenuto dalle corde, come un’onda che si infrange contro una diga che non si spezzerà.
Un respiro profondo.
Poi un altro, più irregolare.
E infine, lo sentiamo.
Il momento in cui tutto cambia.
Il suo corpo si tende in un ultimo scatto, le corde lo bloccano, ma non riescono a contenere tutto.
Un sussulto lo attraversa dalla nuca ai piedi, e poi… il rilascio.
Un altro orgasmo…..
Totale. Silenzioso.
Quasi sacro.
Lo sentiamo cedere.
Ogni muscolo, ogni nodo, ogni pensiero si scioglie.
La lotta è finita.
Resta lì, fermo, abbandonato.
Respira piano, profondo.
Gli occhi si chiudono.
La tensione svanisce come nebbia al sole.
Io mi chino e lo bacio sulla fronte, con lentezza.
Clara lo guarda con un’espressione quasi dolce, poi lo bacia anche lei, appena sotto l’orecchio.
Non diciamo niente.
Non serve.
Ci allontaniamo in silenzio.
Lui si addormenta, sfinito.
E nel suo sonno, c’è qualcosa di più profondo della resa.
C’è fiducia.
E pace.
Quando si sveglia, la luce nella stanza è cambiata.
È più soffusa. Calda.
Il tempo sembra essersi ritirato, come le onde dopo una marea.
Non c’è rumore.
Solo il proprio respiro.
E il peso delle corde ancora presenti sul corpo, a ricordargli che non è stato un sogno.
Le braccia sono ancora dietro la schiena, i polsi uniti.
Le gambe, legate, unite ancora ai polsi portano i segni sottili della pressione.
Ogni nodo è lì. Muto, ma vivo.
Ogni fibra è stanca, ma… ancora calda.
Si muove appena.
Il corpo è lento, pesante, come se fosse stato scolpito nel legno.
I muscoli tirano, ma non si ribellano più.
Poi sente qualcosa.
La coperta, leggera, che lo copre dal bacino in giù.
L’aria profumata di lenzuola pulite.
E due tazze di tè — ancora calde — appoggiate sul comodino.
Segni silenziosi di una cura che è arrivata dopo la tempesta.
Nessuna voce. Nessuna presenza.
Solo piccoli gesti lasciati dietro, come impronte.
Si volta lentamente di lato, quanto il corpo gli consente.
E lì, sul cuscino accanto, un biglietto piegato in due.
Con le dita ancora rigide, riesce ad aprirlo.
Una sola frase, scritta con la calligrafia sottile di Clara:
"Riposa. Sei stato perfetto. Torneremo quando sarai pronto a ricominciare."
Sente un brivido salire dalla schiena.
Non per paura.
Ma per quello che quella promessa significa.
Chiude gli occhi di nuovo.
Non dorme, ma non è nemmeno sveglio.
È in uno spazio di mezzo, dove le corde non fanno più male.
Dove il corpo respira.
E l’attesa… ricomincia.
Il suono dei tacchi sul pavimento precede la loro presenza.
Lui lo sente prima ancora di vederle: il toc regolare, lento, preciso. Due passi distinti. Due presenze familiari.
Poi la porta si apre.
La luce si piega. E loro entrano.
“ciao tesoro..”
I suoi occhi si alzano, stanchi ma vigili. Le corde sono ancora al loro posto, il corpo avvolto come in un incantesimo che non si è ancora spezzato.
Ma ora, nella stanza, c’è di nuovo movimento.
E tutto cambia.
Io mi avvicino per prima, inginocchiandomi accanto al suo volto.
Il bavaglio viene sfilato piano, con delicatezza.
Lui tossisce leggermente, poi respira più a fondo.
Le labbra secche si schiudono appena.
Clara gli porge un bicchiere d’acqua con una cannuccia. Lo tiene lei stessa, inclinando piano mentre io sorreggo la sua testa.
Lui beve in silenzio, con gratitudine evidente.
Quando ha finito, ci guarda. Non parla subito.
«Vi aspettavo», sussurra con un filo di voce.
Clara sorride, piegando la testa di lato.
«Lo sappiamo. Non sapevi quanto.»
Il bavaglio torna al suo posto con la stessa lentezza di prima, ma stavolta lui non si oppone.
Non è una punizione. È un gesto che conosce.
Avrebbe potuto tentare di ribellarsi ma a cosa sarebbe servito, lo avrei imbavagliato comunque di nuovo e lui avrebbe speso quel poco di energie recuperate nel sonno.
Una quieta rassegnazione apre la bocca e infilo la palla dentro mentre Clara stringe forte la cinghia dietro.
Una regola del gioco.
Lo spostiamo con attenzione, lasciandolo ancora nella posizione raccolta e stretta delle corde.
Poi ci stendiamo accanto a lui, sopra le coperte.
I nostri corpi rilassati in contrasto con il suo ancora in tensione.
I nostri piedi, calzati con tacchi altissimi, si muovono lentamente verso di lui.
Non c’è violenza. Solo provocazione. Un gioco fatto di distanza e piccoli contatti.
Un tacco sfiora il fianco. Un altro disegna un cerchio invisibile sulla coscia tesa.
Lui si irrigidisce, prova a muoversi, ma le corde trattengono ogni intenzione.
Inizia a dimenarsi.
È un movimento goffo, impulsivo, che non ha via d’uscita.
Clara ride piano, quasi affettuosa.
«Ancora con tutta questa energia? Ma quanto resisti, davvero?»
Io lo guardo con una finta serietà.
«Pensavi di cavartela solo con un risveglio dolce?»
Lui sbuffa sotto il bavaglio, gli occhi socchiusi in una miscela di fatica, umiliazione e un residuo impossibile di desiderio.
Ogni gesto, ogni sussulto, alimenta la scena come se il tempo stesso fosse legato insieme a lui.
E noi restiamo lì, sopra il letto, a giocare con il silenzio che gli abbiamo imposto.
Il gioco è ripreso.
Ma ora… è più sottile.
Più lento.
E forse, ancora più profondo.
I minuti scorrono come gocce lente.
Lui si dimena. Ma è un movimento diverso da prima.
Non c’è rabbia. Non c’è frustrazione.
È un impulso naturale, istintivo, che si ribella al vincolo solo per riaffermare la realtà: è legato.
E lo sarà fino a che lo decideremo noi.
Ogni piccolo gesto che proviene da noi — un tacco che sfiora, una carezza lieve, persino un sorriso non detto — amplifica la tensione dentro di lui.
Le corde non lasciano spazio.
Ogni muscolo ha un confine preciso.
Ogni respiro è un piccolo sforzo.
Eppure, il suo corpo ci parla.
Con il tremore delle cosce, con l’arco della schiena che tenta inutilmente di sollevarsi.
Con quel fremito che parte da dentro e attraversa tutto.
Poi arriva il momento.
Breve. Totale.
Un’ondata che non può fermare.
Un altro orgasmo…..
Il corpo si tende come un arco e poi cede, travolto, esausto, vinto.
Un silenzio profondo riempie la stanza.
Non c’è più bisogno di parole, né di gesti.
Lui respira piano.
I muscoli rilassati, la testa piegata di lato.
Lentamente, il peso del sonno lo avvolge.
Io e Clara ci scambiamo uno sguardo.
Nessuna battuta ora. Nessun gioco.
Solo mani silenziose che si muovono sui nodi.
Li sciogliamo uno a uno, con cura.
Non per liberarlo…
Ma per restituirgli il corpo.
Quel corpo che ci aveva affidato.
Le corde si allentano. Cadono.
Slacciamo e togliamo delicatamente il bavaglio per non svegliarlo.
La pelle porta ancora i segni, ma ora respira.
Lui dorme. Profondamente.
E nel suo sonno, c’è qualcosa di pieno. Di completo.
Lo copriamo con un lenzuolo.
Io gli asciugo un poil sudore sulla fronte.
Clara gli sussurra qualcosa che solo lui sentirà nei sogni.
Poi usciamo.
Chiudendo piano la porta.
Lasciandolo in quella quiete che si è guadagnato con ogni respiro.
I suoi gomiti sono serrati l’uno contro l’altro, come se le ossa si volessero fondere. I polsi, incrociati con cura maniacale, sono tirati fino alle caviglie, il corpo forzato in una tensione che lo rende fragile, bellissimo.
Le cosce, intrappolate da più spire, non possono separarsi nemmeno di un centimetro. E sul petto… ho usato metri e metri di corda, stringendo, sovrapponendo, creando una gabbia viva che si muove appena col suo respiro, ma non cede mai.
Si dimena. Un movimento lento, disperato, quasi animale.
La mia mano lo accarezza, mentre nell’altra tengo la ballgag. Provo ad avvicinarla, ma lui chiude la bocca. Rido piano, vicino al suo orecchio.
Con due dita gli tappo il naso aspettando pazientemente, lui si dimena ma so che tra breve sarà costretto a cedere.
La sua bocca si apre in un gemito — e io ne approfitto.
La ballgag scivola dentro, velocemente, e con un gesto secco tiro la cinghia dietro la nuca. Forte. Precisa.
Ora il silenzio è completo. E la mia opera… perfetta.
La testa gli cade leggermente in avanti, la ballgag lo costringe a respirare con lentezza, attraverso il naso. Lo guardo. È bellissimo così, ridotto al silenzio, prigioniero del mio disegno. Ogni corda racconta un’intenzione. Ogni nodo è una scelta.
Mi muovo davanti a lui. I suoi occhi mi seguono, lucidi. C’è rabbia, forse. Ma anche qualcosa di più profondo… una resa che non osa ammettere.
Le dita sfiorano il suo petto compresso, premuto dalle corde che affondano nella pelle lasciando segni. Lo accarezzo piano, poi con più forza. Le unghie graffiano appena. Lui si irrigidisce, inmmobilizzato sulla sedia.
Mi piego su di lui, vicinissimo, sento il suo respiro caldo sulle labbra. Non può parlarmi, ma non ne ha bisogno. Lo sento lo stesso, lo leggo nei tremori che attraversano il suo corpo come scariche.
Scivolo verso le sue cosce legate, tocco i punti in cui la corda morde di più. Ogni pressione, ogni legatura è studiata per non dare tregua, per ricordargli che non ha vie di fuga.
Il suo pene eretto tradisce il fatto che dica che non gli piace essere legato.
Eppure… non c’è paura nei suoi occhi. Solo attesa.
Attesa di ciò che verrà dopo.
Le sue dita si muovono appena, come a cercare uno sfogo, ma i polsi sono serrati, stretti contro le caviglie da nodi precisi, inesorabili. Ogni sforzo è inutile. E lo sa.
La pelle comincia a mostrare i primi segni: arrossata, segnata dove le corde stringono di più. Bellissima. Fragile e mia.
Mi inginocchio davanti a lui, lentamente. Voglio che senta ogni movimento, ogni istante.
Le mani scorrono sulle sue cosce, su fino ad accarezzare il suo pene e i testicoli che spuntano tra le corde, passo le mani sopra le corde tese che spingono sulla carne, separandola, ordinandola. Premo con i pollici tra due spire, e lui sobbalza. Non può fuggire.
Lo guardo negli occhi mentre lo faccio. Non distolgo mai lo sguardo. Lui respira più veloce. Gli occhi lucidi, carichi di qualcosa che assomiglia alla resa, ma è più scuro, più profondo.
È rabbia. È impotenza.
Mi alzo. La sedia su cui è legato scricchiola appena sotto il suo peso trattenuto. Cammino intorno a lui come un predatore tranquillo.
Ogni nodo ha tenuto. Ogni legatura è perfetta.
Tutto il suo corpo è una mappa tracciata da me. So dove pulsa il sangue più forte, dove il dolore è più dolce, dove il piacere nasce dalla tensione.
Mi fermo dietro di lui di nuovo. Una mano sulla nuca, l’altra scivola tra le scapole.
Lui geme contro la ballgag. È un suono ovattato, lontano, ma pieno.
La saliva che si è prodotta nella sua bocca comincia a defluire.
Non dice nulla. Eppure parla.
Le mie mani tornano a scorrere sulla sua pelle. Più lente, più morbide ora. Lo accarezzo come si accarezza qualcosa di prezioso, qualcosa che si è conquistato.
Le dita sfiorano i segni delle corde sul petto, premendo appena per sentirne il rilievo. Poi le porto alla bocca e lo bacio. Un bacio lento, lungo, sul collo, sull’orecchio, sul bordo teso della ballgag.
Lui si dimena, ancora. Ma lo fa come chi sa già che non c’è via di fuga.
È una danza senza uscita. Bellissima. Inutile.
La saliva comincia a scivolare fuori dai lati della bocca. La ballgag non gli dà tregua, e ormai il controllo è andato. Colando lungo il mento, la scia si apre la strada sul petto, attraversa le corde, cade goccia dopo goccia verso il basso. Verso il suo pene eretto che svetta duro tra le corde.
Lo guarda accadere — e non può far nulla per fermarlo.
Non può asciugarsi. Non può nascondersi.
Solo sentirlo. E sopportarlo.
Il liquido lo bagna tra le gambe, lento, umiliante. E io lo guardo, godendomi ogni dettaglio.
Mi chino su di lui, quasi a sussurrargli un segreto.
La mia voce è bassa, calda, velenosa.
«Pensa… se ti vedesse una mia amica così.»
Mi fermo un attimo, lasciando che le parole affondino.
«Se entrasse adesso. Se ti vedesse legato, nudo, sbavante…»
Sorrido.
«Penserebbe che sei un giocattolo. E forse… non sbaglierebbe.»
Lui geme, scuote la testa, ma la saliva continua a colare, e le corde non mollano.
La sua pelle brucia sotto le mie carezze. E la vergogna lo rende ancora più mio.
Driiin.
Il suono del campanello taglia l’aria come un coltello. Mi blocco un attimo, poi sorrido.
«E adesso chi sarà?» mormoro, con una risatina bassa e lenta.
Lui solleva lo sguardo di scatto. Gli occhi spalancati, il respiro che si fa più veloce. Comincia ad agitarsi davvero — non quei movimenti contenuti di prima, ma spasmi tesi, disperati. La sedia sotto di lui cigola, vibra sotto la forza del suo corpo legato ad essa.
Le corde tengono. Ovviamente.
Ma lo spettacolo è magnifico.
La saliva gli cola ancora di più. La ballgag affonda tra le labbra e ora è completamente inzuppata. La scia lucida gli attraversa il petto, si raccoglie tra le cosce legate, brilla sulla pelle come una confessione.
Non può nascondersi. Non può urlare.
E non ha idea di chi stia per entrare.
Mi avvicino alla porta con lentezza, lasciando che ogni passo sia una tortura per lui. Prima di aprire, lo guardo un’ultima volta. È lì, al centro del salotto, nudo, legato, umiliato, incapace di muoversi.
La sedia scricchiola ancora. Le sue mani si chiudono a pugno, ma le corde non cedono.
Click. Click. Click.
La porta si apre.
«Clara…»
Il mio sorriso si allarga.
Lei è lì, in piedi sull’ingresso. Occhi sorpresi, poi lenti a scivolare oltre la mia spalla, dentro casa.
A cercare lui.
Il silenzio è eterno. Poi le sue labbra si piegano in un mezzo sorriso curioso, lento.
«Oh…» dice solo, con la voce piena di un interesse trattenuto. «Non sapevo avessi iniziato senza di me.»
Mi volto verso di lui.
La sua espressione è puro panico. La sedia geme sotto i suoi spasmi.
La saliva continua a colare.
Clara entra, chiude la porta lentamente, senza staccare lo sguardo da lui.
I suoi occhi si muovono lenti, attenti, come se stesse osservando un'opera d’arte.
Il suo corpo ondeggia con eleganza sotto una camicia bianca leggermente trasparente, aperta abbastanza da lasciar intravedere il bordo del reggiseno nero. La minigonna è corta, appena sufficiente a coprire l’essenziale, e i suoi stivali altissimi le allungano le gambe fino all’assurdo. Ogni passo sul pavimenti produce un colpo secco di tacco, come un metronomo crudele.
Io resto in piedi al centro della stanza, tra lei e lui.
Indosso il mio abito preferito. Corto. Bianco e Nero. Aderente come una seconda pelle. Il tessuto lucido si tende così tanto sul mio petto che sembra sul punto di cedere, ogni respiro un atto di sfida alla stoffa. Le mie scarpe hanno un tacco vertiginoso, lucide, nere come l’inchiostro.
Mi sento divina. E Clara lo sa.
Lui, invece… è devastato.
I muscoli tesi contro le corde, la pelle lucida di saliva e vergogna. Gli occhi implorano, forse pietà, forse comprensione. Ma il suo corpo — il suo corpo tradisce tutto.
L’erezione è evidente, impossibile da ignorare. Gonfia, viva, indifendibile.
Le sue cosce legate si tendono involontariamente, come se volessero proteggere ciò che ormai è sotto gli occhi di entrambe.
Il membro pulsa, lucido di saliva scivolata fino lì, quasi a sottolineare l’umiliazione con una crudele ironia.
Clara si avvicina, un sorriso tagliente sulle labbra.
«Dicevi che non ti piaceva?»
La sua voce è morbida, beffarda. Poi si volta verso di me, sollevando un sopracciglio.
«Strano… a giudicare da qui, direi che adora ogni secondo.»
Io mi avvicino a lui. Mi piego. Gli parlo all’orecchio con voce lenta, bassissima.
«Guarda cosa sei diventato. Legato, sbavante… e completamente duro.»
Poi mi scosto di un passo, lasciando che Clara lo osservi da vicino.
Lei si inginocchia, gli passa una mano lungo la coscia legata, sfiorando la pelle senza toccare il centro del suo desiderio.
«Ti vergogni, vero?» sussurra. «Ma è il tuo corpo a parlare adesso. E non mente.»
Lui cerca di scuotere la testa, un gemito confuso e roco si infrange contro la ballgag. Ma la sua erezione è lì, a smentirlo con prepotenza.
Io e Clara ci scambiamo uno sguardo d’intesa.
Sappiamo esattamente come continuare.
Clara si alza lentamente e cammina fino al tavolo dove tengo le corde. Ne prende alcune, le soppesa con calma, passandole tra le dita come fossero nastri di seta.
Io la raggiungo. I nostri sguardi si incrociano. Sorridiamo.
Sappiamo perfettamente cosa fare.
Torniamo da lui insieme, con lentezza, come due cacciatrici pronte a finire la preda.
Lui ci guarda, gli occhi spalancati sopra la ballgag, le pupille tremano. È ancora teso, ancora in lotta, ma ormai quella resistenza è vuota. Automatica. Il suo corpo ha già deciso per lui.
Mi inginocchio alle sue gambe, Clara alle braccia.
«Guarda un po’ cosa ci siamo dimenticate…» sussurro, facendo scorrere la corda sotto le ginocchia.
«Che sbadate!» ride Clara, mentre fa passare la sua tra i gomiti e i polsi già stretti. «Lasciare dello spazio… così poco decoroso.»
Leghiamo in silenzio per qualche secondo, concentrate, finché i nuovi nodi iniziano a scavare più a fondo. Le gambe sotto le ginocchia vengono strette insieme fino a tremare. La carne si gonfia appena attorno alla corda, segnata, viva.
Lui si contorce, ma non c’è margine. Ogni movimento è un gesto inutile. La sedia scricchiola ancora, ma meno.
È quasi completamente immobile, ora.
«Mmm… qui si può stringere ancora un po’, no?» dice Clara, mentre tende con calma una delle corde già presenti tra i gomiti.
«Oh sì… guarda com'è bello quando stringe davvero…» rispondo io, tirando il mio nodo sotto il ginocchio con un colpo secco.
Lui geme, un suono profondo, disperato. Ma non protesta più.
Non può.
La saliva gli cola copiosa ora, bagnando il petto, scivolando lungo l’addome, gocciolando sulle gambe.
Clara lo guarda con finta pietà.
«Poverino… tutto legato, tutto duro… e incapace persino di pulirsi la bocca.»
Poi si piega verso di lui, quasi toccandogli il viso.
«Ma d’altronde… se ti piace così tanto, perché dovremmo aiutarti?»
Io mi avvicino, gli sfioro la pelle con la punta delle dita. Ogni parte del suo corpo è intrappolata. Ogni nodo teso. Ogni respiro misurato.
È nostro. Totalmente.
Mi chino a pochi centimetri dal suo orecchio, la mia voce un sussurro tagliente.
«Sei un capolavoro, lo sai? Un’opera viva. Legata, esposta, umiliata… e così incredibilmente eccitata. Tu dici no. Ma il tuo corpo... il tuo corpo urla sì.»
Clara gli dà un buffetto sulla guancia.
«Sbavi come un cane in calore… e noi non abbiamo nemmeno iniziato.»
Lui trema. Il suo sguardo è un miscuglio di desiderio e vergogna, di rifiuto e resa.
Ma la verità è già scritta, sulla pelle, nelle corde, nell’erezione che non accenna a calare.
E adesso…?
Adesso, tocca a noi decidere quanto ancora può sopportare.
Siamo lì, io e Clara, in piedi davanti a lui.
Il nostro capolavoro di carne e corde.
Non può più muoversi. Non davvero. Ogni parte del suo corpo è stretta, compressa, ordinata secondo la nostra volontà. Solo piccoli tremori, respiri corti, spasmi nervosi.
Clara si china su di lui per prima. Gli solleva il mento con due dita, costringendolo a guardarla negli occhi.
«Hai un’aria così tragica…» mormora, inclinando il capo con finta dolcezza. «Come se non stessi godendo ogni secondo di questo.»
Poi, con un gesto rapido, lo pizzica sul fianco — un punto scoperto e sensibile.
Lui si irrigidisce di colpo, emettendo un suono strozzato contro la ballgag.
Io rido.
«Che reazione! Guarda come salta…»
Mi avvicino anche io, passo una mano sul suo petto segnato dalle corde, poi scendo piano verso l’addome.
«Non ha proprio più alcun controllo… eppure guarda com’è teso, com’è vivo.»
Gli do un pizzicotto sul fianco opposto, più forte. La sedia sobbalza leggermente, cigola sotto la tensione del suo corpo che cerca di divincolarsi.
Clara gira dietro di lui e gliene dà uno sulla coscia legata.
«Dai, resisti un po’…» gli sussurra all’orecchio. «Oppure vuoi piangere anche per questo?»
E allora succede.
Lui raccoglie tutte le forze che ha, si irrigidisce, le corde scricchiolano tirandosi al limite. I muscoli si gonfiano sotto i nodi. Il busto si contorce, la testa scatta da una parte all’altra, la saliva vola via in gocce che colpiscono il pavimento.
È una ribellione istintiva, disperata, brutale.
Un ruggito silenzioso contro il proprio corpo.
Ma non serve.
Le corde tengono.
Ogni centimetro. Ogni nodo.
L’unico risultato è che si sbatte, ansima, sbava di più. E noi… noi lo guardiamo come si guarda una creatura bellissima in cattività.
Io gli accarezzo la guancia, adesso rossa di sforzo.
«Tutto questo per un paio di pizzicotti? Poverino… che sensibilone.»
Clara ride alle mie spalle, appoggiandogli una mano tra le scapole, dove la pelle è calda e tesa.
«Non ha ancora capito che peggiora tutto così. Ma va bene… lascia che ci metta il suo tempo.»
Lui si ferma. Lentamente. Esausto. Respirando forte dal naso, il petto che si alza a fatica tra le corde strette.
Suda. Trema. Sbava ancora.
Ed è bellissimo.
Lo guardiamo mentre si piega sotto il peso di quegli spasmi inutili.
La sua bocca tappata, la saliva che cola copiosa, la pelle rossa e lucida dove le corde scavano la carne.
È la scena perfetta di chi non può che arrendersi, di chi è del tutto esposto alla nostra volontà.
Clara si abbassa di nuovo, le dita fredde che accarezzano il suo viso sudato.
«Guarda come sbava, come si contorce…» mormora con un sorriso crudele. «Non riesci nemmeno a trattenerti, eppure fai finta di niente.»
Io mi chino, gli passo una mano lenta sulla fronte bagnata di sudore, e gli sussurro all’orecchio:
«Sei solo un piccolo animale impaurito, legato e incapace di fare altro che dimenarti e sbavare. E noi… noi ti guardiamo ridendo.»
Lo pizzico ancora, questa volta più deciso, proprio dove la pelle è più tenera, e lui sobbalza.
La sua impotenza è totale. La sua dignità sparita.
E allora ridiamo, io e Clara, guardandolo come si guarda qualcosa di fragile e rotto, qualcosa che non ha più voce.
Ridiamo di lui, delle sue lotte, della sua vulnerabilità.
Poi, improvvisamente, cambio ritmo.
Mi alzo, mi stacco da lui con un sorriso diverso.
Un sorriso che promette qualcosa di nuovo.
«Basta un attimo.» dico, la voce più dolce, più calda.
Clara annuisce, lasciando cadere le corde appena strette.
Ci spostiamo entrambi indietro, lasciandogli un attimo di respiro.
Lui ansima, gli occhi che cercano qualcosa, qualcuno.
Il gioco cambia.
Ora non è più solo umiliazione.
Ora entra la cura.
Il respiro lento, le mani che scivolano leggere.
La tensione non si spezza, ma si trasforma.
Io e Clara ci allontaniamo appena, ma non del tutto.
Restiamo lì, vicine, come sentinelle che osservano la preda esausta.
Il respiro di lui è affannoso, il petto si solleva e abbassa sotto le corde, lento ma ancora teso.
Mi inginocchio di fianco a lui, facendogli sentire il calore della mia mano che scivola piano lungo il collo.
La pelle è lucida di sudore, i muscoli ancora contratti, ma sotto quel rigore qualcosa inizia a sciogliersi.
Lo guardo negli occhi, quelli che finalmente riescono a fissarmi senza paura, solo con un filo di desiderio confuso.
Clara sfiora una mano dietro la sua nuca, delicata, quasi una carezza.
Il contrasto è netto: le corde che stringono e le mani che accarezzano.
«Respira con noi,» sussurro piano, posando le dita sulle sue tempie.
«Lascia andare… anche solo per un momento.»
Lui cerca, con fatica, di abbandonarsi, mentre Clara gli passa una mano lungo il torace, sciogliendo lentamente una delle corde meno strette, quasi a donargli un attimo di libertà senza davvero concedergliela.
I suoi occhi si chiudono per un istante, la bocca imbavagliata si muove in un muto gemito.
Lo sento tremare, ma non per la paura o la vergogna — ora è un tremore diverso, più dolce, più vero.
Io sfioro il suo labbro inferiore con la punta delle dita, un tocco leggero che parla più di mille parole.
Clara gli accarezza il viso, il collo, la spalla.
Due opposti, due lati dello stesso gioco: il potere e la cura.
L’umiliazione che si trasforma in abbandono.
E in quel momento il silenzio si fa dolce, intenso.
Come un respiro sospeso tra la punizione e il perdono.
Le nostre mani si muovono lente e leggere, seguendo ogni curva, ogni tensione residua di quel corpo stretto.
Lui è quasi scomparso nel silenzio, perso tra il respiro, i battiti accelerati, la pelle che risponde a ogni sfioramento.
La sua mente vacilla, confusa, sospesa tra il dolore e il piacere che ci siamo presi cura di far emergere.
Poi, senza avviso, un brivido più forte lo scuote, un’onda che parte dal basso ventre e sale impetuosa.
I muscoli si contraggono, il corpo si tende con forza immensa, mentre i gemiti strozzati si fanno ancora più intensi dietro il bavaglio.
È un orgasmo esplosivo, violento, così potente da scuoterlo tutto, da farlo tremare come una tempesta incontrollabile.
La saliva cola copiosa, e con essa, un altro segno della sua perdita di controllo.
Il calore umido che imbratta le corde, che sfida la nostra pazienza e la disciplina che abbiamo imposto.
Lo guardiamo, lui senza fiato, sconvolto e vulnerabile, quasi sopraffatto dal proprio corpo.
Un attimo di sospensione.
Poi, io e Clara ci scambiamo uno sguardo fulmineo.
Il gioco è cambiato.
Con movimenti rapidi e decisi riprendiamo il controllo.
Le mani non sono più delicate, ma ferme, dure, spietate.
Stringiamo le corde ancora di più, come per ribadire chi comanda.
i sussurri di prima diventano ordini secchi, pungenti.
«Non si fa senza permesso,» dico io, il tono gelido, l’ombra di un sorriso crudele che affiora.
Clara annuisce, appoggiandogli una mano forte sulla mascella, costringendolo a guardarci.
«Adesso ti insegniamo a rispettare le regole.»
La sua erezione ancora evidente diventa motivo di umiliazione, mentre il corpo legato è costretto a una nuova prova di obbedienza.
Il piacere si mescola al dolore, la cura alla punizione.
E noi, dominatrici assolute, decidiamo quanto ancora lui potrà sopportare.
Non c’è più spazio per la tenerezza.
Lui ha superato un confine, e ora noi siamo il giudizio.
Le corde si tendono ancora, tirate al massimo senza pietà. Ogni nodo viene controllato, raddoppiato, stretto fino a costringerlo a respirare a fondo per sopportare la pressione.
Il corpo, già provato, si piega sotto la nostra volontà.
Clara si inginocchia e stringe i gomiti fino a farli quasi toccare.
Io passo dietro di lui e tiro con forza le corde sotto le ginocchia, incrociando i nodi con quelli alle caviglie.
Ora non può più muoversi nemmeno per sbaglio. È immobile, un prigioniero vivo, un trofeo marchiato di vergogna e desiderio.
Il suo respiro è affannoso. Gli occhi lucidi.
La saliva gli cola ancora, ma non c’è più resistenza nei suoi gesti.
Solo tremore.
Solo resa.
Clara si solleva, si sistema la gonna come se nulla fosse, poi si volta verso di me con un sorriso freddo.
«Direi che ha imparato.»
Annuisco lentamente, passo una mano sul suo viso sudato, e lo guardo per un lungo istante.
Lui non si oppone più. Non prova nemmeno a implorare.
Il suo corpo parla per lui.
Un silenzio pieno di obbedienza.
Una resa totale, senza difese.
«Stai bene così.»
Le mie parole sono lente, ferme, quasi dolci.
«Sei esattamente dove devi essere.»
Poi ci allontaniamo. Senza fretta.
Lasciandolo legato, nudo, esausto e silenzioso, al centro della stanza.
La sedia non scricchiola più.
Non si muove nemmeno. Non può.
E, dentro, forse non vuole più farlo.
Io e Clara ci sediamo sul divano, accendiamo la TV.
Come se nulla fosse.
Sul fondo della stanza, un corpo legato trema piano.
Ma non chiede più niente.
Perché ormai… ci appartiene.
La luce nella stanza è calda, soffusa. La televisione emette solo un brusio lontano, dimenticato.
Siamo rimaste sul divano per un po’, tranquille, a osservarlo con la coda dell’occhio.
Lì, al centro del salotto. Legato. Muto.
Abbandonato al suo respiro lento e profondo.
Ma non dimenticato.
A un certo punto, senza dirci nulla, ci alziamo.
Come se un istinto comune ci muovesse allo stesso tempo.
Ci avviciniamo a lui in silenzio.
Le corde sono ancora perfette.
Il corpo è curvo, teso, esausto. Ma vivo.
I suoi occhi si sollevano appena, lenti, spaesati. Ci vede. Ci riconosce.
E non reagisce.
Solo un lungo, tremante respiro.
Quasi come se ci stesse aspettando.
Mi chino per prima. Non tocco subito. Lo guardo.
Lui abbassa lo sguardo.
Poi Clara gli accarezza piano la spalla. Un gesto semplice, gentile.
«Ci sei ancora?» sussurra.
Lui annuisce appena, impercettibile. Ma sì, c’è. È ancora lì dentro.
Inizio a sfiorarlo con la punta delle dita, lungo il petto segnato dalle corde, tracciando linee tra i solchi rossi lasciati da ore di immobilità.
Clara lo segue, le sue mani che scorrono lungo l’interno delle cosce, sfiorando la pelle dove il contatto è più intimo, più sensibile.
Non parliamo.
Non ridiamo più.
Ora è un altro gioco.
Un gioco muto, caldo, quasi compassionevole. Ma ogni gesto… ogni tocco… è ancora potere.
La respirazione di lui cambia. Lo sentiamo.
Un sussulto nel ventre.
Un fremito nelle braccia legate.
La sua testa si solleva di nuovo. Ci guarda. Gli occhi lucidi, supplicanti, confusi.
Ma anche pieni di quel desiderio che non può più negare.
«Shh…» gli sussurro. «Lasciati andare. Non ti opporre.»
Clara gli sfiora l’inguine con un tocco lentissimo, e il suo corpo si tende di nuovo, quasi a scattare.
L’erezione è tornata. Gonfia, pulsante.
Incontrollabile.
Le nostre mani lo avvolgono, lo dominano con dolcezza calcolata.
E lui, esausto, distrutto, stremato… comincia a tremare.
Tutto il corpo vibra, si tende, le corde si muovono appena.
Non c’è più resistenza, né volontà.
Solo un'esplosione inevitabile.
Il piacere lo attraversa come un'onda violenta, improvvisa.
Un gemito soffocato contro la ballgag, mentre il suo corpo esplode per la seconda volta, ancor più forte, più crudo.
Un orgasmo che lo scuote fino in fondo, che gli strappa ogni ultimo brandello di controllo.
E noi restiamo lì.
A guardarlo.
A sentirlo.
Fermo. Legato. Spento.
Ma completamente, definitivamente, nostro.
Il silenzio nella stanza è cambiato.
Non c’è più solo resa. Ora c’è attesa.
Lui è ancora legato alla sedia, il corpo stanco, segnato, ma incredibilmente reattivo. Lo guardiamo per un lungo istante, poi ci muoviamo all’unisono.
Cominciamo a sciogliere le corde che lo fissavano alla sedia, lasciando però tutto il resto intatto: i polsi ancora legati dietro, i gomiti stretti, le cosce fasciate. Ogni nodo che tiene unita la sua forma resta lì, fermo, ineluttabile.
Mi abbasso e gli slego le caviglie solo per un momento.
Lui prova ad allargare le gambe, ma non può: le corde tra le cosce lo costringono a restare unito, chiuso, vulnerabile.
Poi prendo una nuova corda. Lunga, morbida, sottile.
La avvolgo lentamente alla base della sua erezione, che nonostante tutto è ancora lì, viva, tesa, indifendibile.
Lui si irrigidisce, lo sguardo si spegne in un misto di vergogna e stupore.
Clara sorride dietro di lui.
«Ancora duro… dopo tutto quello che è successo? Poverino.»
L’imbarazzo lo avvolge come un’altra corda invisibile.
La saliva continua a colare lenta, inutile.
Il corpo stretto è costretto a camminare, e io lo tiro piano, con la corda in mano, verso la camera da letto.
Ogni passo è una lotta.
Le cosce unite non gli permettono una camminata normale: deve trascinarsi, curvo, quasi inciampando, con il volto rosso e la testa bassa.
Dietro, Clara lo incalza con piccole spinte, ridacchiando tra i denti.
«Muoviti, bello. Non far finta di non adorarlo.»
Arriviamo in camera.
Lo faccio salire sul letto con un gesto secco. Il materasso affonda sotto il suo peso.
Clara lo afferra per le caviglie, e insieme le leghiamo di nuovo.
Poi, con cura calcolata, tendiamo una corda che va dai suoi polsi alle caviglie, arcuandogli il corpo in un perfetto incaprettamento.
Ora è di nuovo fermo, esposto, costretto a restare in quella posizione di completa vulnerabilità.
Lui geme piano.
Non può più fuggire, né nascondersi.
E il suo imbarazzo… è la cosa più bella da guardare.
Il tempo, ormai, è una cosa sfocata.
Sono passate ore. Dieci, forse più.
La luce è cambiata più volte nella stanza, ma lui è rimasto lì. Legato. Inchiodato al suo stesso corpo.
E ora, nella nuova posizione, l’attesa è peggio della punizione.
L’incaprettamento lo piega.
Il busto curvato in avanti, le braccia bloccate dietro, le ginocchia flesse, i polsi e le caviglie legati da un’unica corda che lo tiene sospeso in una tensione continua.
Nulla può riposare. Nulla può cedere.
Ogni muscolo brucia.
Le spalle tirano. Le gambe tremano. Le cosce, serrate da ore, mandano scosse di dolore sordo a ogni piccolo movimento. Le corde, ormai parte della sua pelle, si sono fatte più strette col tempo, con il respiro, con il sudore che ha bagnato i nodi.
Eppure… è ancora lì.
Teso. Vigile. In silenzio.
Io e Clara siamo sedute sul bordo del letto.
Vicino. Troppo vicino. Ma non lo tocchiamo.
Ancora no.
Osserviamo.
Il tremore delle gambe.
La tensione nel collo.
Il fiato che esce irregolare dal naso, perché anche respirare è diventato uno sforzo.
Lui muove appena la testa, forse per cercare un attimo di sollievo.
Ma le corde glielo ricordano subito: non c’è riposo. Solo attesa.
Attesa del prossimo gesto. Della prossima parola.
Della prossima cosa che decideremo.
Clara lo guarda a lungo. Poi sussurra:
«Dieci ore… e ancora non ha chiesto niente. Che forza. O che testardaggine.»
Io mi sporgo, lo guardo da sotto.
«Chissà quanto ancora può durare così.»
Poi gli sfioro il mento con un dito. Solo un tocco.
Lui sobbalza. Il minimo contatto è ormai un’esplosione dentro di lui.
Ma non diciamo altro.
Lo lasciamo lì.
A bruciare.
A chiedersi quando — e se — finirà.
E questo silenzio…
È la punizione più perfetta di tutte.
Il tempo, ormai, si è liquefatto.
Lui è ancora lì, piegato sul letto, avvolto nelle corde come in un bozzolo di pelle e nodi.
L’incaprettamento lo tiene immobile, sospeso tra l’aria e la sua stessa carne.
Ogni fibra del corpo vibra sotto la tensione.
Ogni respiro è un atto di volontà.
La saliva gli scende lentamente dal mento, ormai senza controllo, bagnando il lenzuolo sotto di lui in un piccolo cerchio umido, vergognoso e inevitabile.
Ma non tenta più di asciugarsi. Non può.
E forse… non vuole nemmeno.
Ci avviciniamo.
Siamo silenziose, lente, come se temessimo di spezzare qualcosa di sacro.
Le nostre mani lo sfiorano appena: sul fianco, sul petto fasciato, lungo il collo in tensione.
Accarezziamo. Osserviamo.
E lui… comincia a tremare.
Non dice nulla. Non può. Ma il corpo parla per lui.
Un fremito lieve, poi più forte.
Un contorcersi trattenuto dalle corde, come un’onda che si infrange contro una diga che non si spezzerà.
Un respiro profondo.
Poi un altro, più irregolare.
E infine, lo sentiamo.
Il momento in cui tutto cambia.
Il suo corpo si tende in un ultimo scatto, le corde lo bloccano, ma non riescono a contenere tutto.
Un sussulto lo attraversa dalla nuca ai piedi, e poi… il rilascio.
Un altro orgasmo…..
Totale. Silenzioso.
Quasi sacro.
Lo sentiamo cedere.
Ogni muscolo, ogni nodo, ogni pensiero si scioglie.
La lotta è finita.
Resta lì, fermo, abbandonato.
Respira piano, profondo.
Gli occhi si chiudono.
La tensione svanisce come nebbia al sole.
Io mi chino e lo bacio sulla fronte, con lentezza.
Clara lo guarda con un’espressione quasi dolce, poi lo bacia anche lei, appena sotto l’orecchio.
Non diciamo niente.
Non serve.
Ci allontaniamo in silenzio.
Lui si addormenta, sfinito.
E nel suo sonno, c’è qualcosa di più profondo della resa.
C’è fiducia.
E pace.
Quando si sveglia, la luce nella stanza è cambiata.
È più soffusa. Calda.
Il tempo sembra essersi ritirato, come le onde dopo una marea.
Non c’è rumore.
Solo il proprio respiro.
E il peso delle corde ancora presenti sul corpo, a ricordargli che non è stato un sogno.
Le braccia sono ancora dietro la schiena, i polsi uniti.
Le gambe, legate, unite ancora ai polsi portano i segni sottili della pressione.
Ogni nodo è lì. Muto, ma vivo.
Ogni fibra è stanca, ma… ancora calda.
Si muove appena.
Il corpo è lento, pesante, come se fosse stato scolpito nel legno.
I muscoli tirano, ma non si ribellano più.
Poi sente qualcosa.
La coperta, leggera, che lo copre dal bacino in giù.
L’aria profumata di lenzuola pulite.
E due tazze di tè — ancora calde — appoggiate sul comodino.
Segni silenziosi di una cura che è arrivata dopo la tempesta.
Nessuna voce. Nessuna presenza.
Solo piccoli gesti lasciati dietro, come impronte.
Si volta lentamente di lato, quanto il corpo gli consente.
E lì, sul cuscino accanto, un biglietto piegato in due.
Con le dita ancora rigide, riesce ad aprirlo.
Una sola frase, scritta con la calligrafia sottile di Clara:
"Riposa. Sei stato perfetto. Torneremo quando sarai pronto a ricominciare."
Sente un brivido salire dalla schiena.
Non per paura.
Ma per quello che quella promessa significa.
Chiude gli occhi di nuovo.
Non dorme, ma non è nemmeno sveglio.
È in uno spazio di mezzo, dove le corde non fanno più male.
Dove il corpo respira.
E l’attesa… ricomincia.
Il suono dei tacchi sul pavimento precede la loro presenza.
Lui lo sente prima ancora di vederle: il toc regolare, lento, preciso. Due passi distinti. Due presenze familiari.
Poi la porta si apre.
La luce si piega. E loro entrano.
“ciao tesoro..”
I suoi occhi si alzano, stanchi ma vigili. Le corde sono ancora al loro posto, il corpo avvolto come in un incantesimo che non si è ancora spezzato.
Ma ora, nella stanza, c’è di nuovo movimento.
E tutto cambia.
Io mi avvicino per prima, inginocchiandomi accanto al suo volto.
Il bavaglio viene sfilato piano, con delicatezza.
Lui tossisce leggermente, poi respira più a fondo.
Le labbra secche si schiudono appena.
Clara gli porge un bicchiere d’acqua con una cannuccia. Lo tiene lei stessa, inclinando piano mentre io sorreggo la sua testa.
Lui beve in silenzio, con gratitudine evidente.
Quando ha finito, ci guarda. Non parla subito.
«Vi aspettavo», sussurra con un filo di voce.
Clara sorride, piegando la testa di lato.
«Lo sappiamo. Non sapevi quanto.»
Il bavaglio torna al suo posto con la stessa lentezza di prima, ma stavolta lui non si oppone.
Non è una punizione. È un gesto che conosce.
Avrebbe potuto tentare di ribellarsi ma a cosa sarebbe servito, lo avrei imbavagliato comunque di nuovo e lui avrebbe speso quel poco di energie recuperate nel sonno.
Una quieta rassegnazione apre la bocca e infilo la palla dentro mentre Clara stringe forte la cinghia dietro.
Una regola del gioco.
Lo spostiamo con attenzione, lasciandolo ancora nella posizione raccolta e stretta delle corde.
Poi ci stendiamo accanto a lui, sopra le coperte.
I nostri corpi rilassati in contrasto con il suo ancora in tensione.
I nostri piedi, calzati con tacchi altissimi, si muovono lentamente verso di lui.
Non c’è violenza. Solo provocazione. Un gioco fatto di distanza e piccoli contatti.
Un tacco sfiora il fianco. Un altro disegna un cerchio invisibile sulla coscia tesa.
Lui si irrigidisce, prova a muoversi, ma le corde trattengono ogni intenzione.
Inizia a dimenarsi.
È un movimento goffo, impulsivo, che non ha via d’uscita.
Clara ride piano, quasi affettuosa.
«Ancora con tutta questa energia? Ma quanto resisti, davvero?»
Io lo guardo con una finta serietà.
«Pensavi di cavartela solo con un risveglio dolce?»
Lui sbuffa sotto il bavaglio, gli occhi socchiusi in una miscela di fatica, umiliazione e un residuo impossibile di desiderio.
Ogni gesto, ogni sussulto, alimenta la scena come se il tempo stesso fosse legato insieme a lui.
E noi restiamo lì, sopra il letto, a giocare con il silenzio che gli abbiamo imposto.
Il gioco è ripreso.
Ma ora… è più sottile.
Più lento.
E forse, ancora più profondo.
I minuti scorrono come gocce lente.
Lui si dimena. Ma è un movimento diverso da prima.
Non c’è rabbia. Non c’è frustrazione.
È un impulso naturale, istintivo, che si ribella al vincolo solo per riaffermare la realtà: è legato.
E lo sarà fino a che lo decideremo noi.
Ogni piccolo gesto che proviene da noi — un tacco che sfiora, una carezza lieve, persino un sorriso non detto — amplifica la tensione dentro di lui.
Le corde non lasciano spazio.
Ogni muscolo ha un confine preciso.
Ogni respiro è un piccolo sforzo.
Eppure, il suo corpo ci parla.
Con il tremore delle cosce, con l’arco della schiena che tenta inutilmente di sollevarsi.
Con quel fremito che parte da dentro e attraversa tutto.
Poi arriva il momento.
Breve. Totale.
Un’ondata che non può fermare.
Un altro orgasmo…..
Il corpo si tende come un arco e poi cede, travolto, esausto, vinto.
Un silenzio profondo riempie la stanza.
Non c’è più bisogno di parole, né di gesti.
Lui respira piano.
I muscoli rilassati, la testa piegata di lato.
Lentamente, il peso del sonno lo avvolge.
Io e Clara ci scambiamo uno sguardo.
Nessuna battuta ora. Nessun gioco.
Solo mani silenziose che si muovono sui nodi.
Li sciogliamo uno a uno, con cura.
Non per liberarlo…
Ma per restituirgli il corpo.
Quel corpo che ci aveva affidato.
Le corde si allentano. Cadono.
Slacciamo e togliamo delicatamente il bavaglio per non svegliarlo.
La pelle porta ancora i segni, ma ora respira.
Lui dorme. Profondamente.
E nel suo sonno, c’è qualcosa di pieno. Di completo.
Lo copriamo con un lenzuolo.
Io gli asciugo un poil sudore sulla fronte.
Clara gli sussurra qualcosa che solo lui sentirà nei sogni.
Poi usciamo.
Chiudendo piano la porta.
Lasciandolo in quella quiete che si è guadagnato con ogni respiro.
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