Ombre nella nebbia

di
genere
bondage

Ombre nella Nebbia
Terry camminava svelta lungo la via secondaria che usava ogni sera per tornare a casa. Il vento soffiava con forza tra i palazzi, sollevando foglie e facendo oscillare le luci giallastre dei lampioni. La minigonna elegante e i tacchi alti, indossati per un colloquio di lavoro, erano tutto tranne che comodi per camminare, ma ormai era quasi arrivata.
Un suono alle sue spalle la fece voltare. Poi il nulla.
Si risvegliò con un tonfo sordo nelle orecchie e un dolore acuto alle spalle. Era al buio. Sdraiata su un pavimento freddo e ruvido. Provò a muoversi, ma fu subito fermata da una morsa di corde. Le braccia erano state tirate all’indietro in modo dolorosamente stretto, i gomiti serrati uno contro l’altro. Il torace era spinto in avanti dalla tensione della legatura, diversi giri di corda sopra e sotto il seno rendevano difficile persino respirare a fondo.
Polsi e caviglie erano collegati da un'altra corda che la teneva inarcata in una posizione forzata.
Le cosce erano bloccate con diversi giri di corda, immobilizzandola.
Conosceva quella posizione, si chiamava hogtied o incaprettamento.
L'aveva vista in qualche foto su internet la sera sfogliando annoiata immagini in rete.
Un bavaglio stretto formato da una palla con una cinghia le impediva di parlare, la grossa palla premuta con forza tra le labbra le faceva emettere solo un mugolío soffocato e aumentava la salivazione in modo incredibile.
Non potendo inghiottire era costretta a spingere fuori la saliva che colava copiosa dalle sue labbra formando un piccolo lago sotto il suo viso.
Terry trattenne il panico. Doveva pensare. Doveva osservare. La stanza era una specie di scantinato: pareti grezze, odore di muffa, una grata in alto da cui filtrava una luce pallida. Non c’era suono, non c’era tempo.
Ma lei non era il tipo da arrendersi.
Con calma iniziò a testare le corde. Non c’era spazio, nessun margine. Ma sapeva che i nodi umani, per quanto precisi, raramente sono perfetti. Ma chi l’aveva legata, non aveva avuto fretta e i nodi erano stretti e non raggiungibili dalle sue dita che cominciavano a formicolare a causa della legatura strettissima a polsi e gomiti,
Terry pensò che doveva agire in fretta se voleva provare a slegarsi prima che le sue mani si addormentassero del tutto.
Un rumore di passi fece sobbalzare Terry mentre si dimenava per tentare di raggiungere il nodo che le collegava i polsi alle caviglie. Era sopra di lei, sulla scala. Lenta, pesante. La porta si aprì con un cigolio metallico e una sagoma apparve nel rettangolo di luce. Alta, con un cappuccio scuro che copriva il volto.
Sulle spalle portava qualcuno.
Terry sgranò gli occhi.
Era Clara!!!!.
Il rapitore scese lentamente i gradini, il corpo della ragazza completamente inerme, legato con la stessa precisione maniacale. Le braccia di Clara erano state tirate indietro fino a far combaciare i gomiti, le corde tese e simmetriche. I polsi legati e uniti alle caviglie da un’altra fune, forzandola in un arco innaturale. Anche le sue cosce erano state strette con più giri di corda, come se qualcuno avesse voluto impedirle qualsiasi movimento, anche minimo. Un bavaglio identico a quello di Terry le tappava la bocca.
La saliva colava copiosa dal bavaglio mentre la sua testa ciondolante le faceva capire che era priva di sensi
Il rapitore la scaraventò a terra con uno sforzo controllato. Clara atterrò di fianco a Terry, con un gemito ovattato. Terry si voltò verso di lei con gli occhi sbarrati, cercando di comunicarle qualcosa — paura, forza, speranza — ma Clara sembrava appena cosciente.
L’uomo si fermò un istante, osservandole entrambe. Poi, senza una parola, si voltò e uscì. Il rumore dei suoi passi svanì insieme al suono del chiavistello.
Ora erano in due.
Perché?
Perché era legata?
Perché anche Clara era stata rapita?
Ma Terry sapeva che, insieme, avevano una possibilità.
Si fece forza e rotolando, a fatica riuscì a raggiungere il viso di Clara accarezzandola dolcemente per farle riprendere i sensi
Clara si svegliò emettendo un suono soffocato dall' enorme palla che le riempiva la bocca.
Si guardarono negli occhi con i visi un po' deformati dal bavaglio che riempiva le loro bocche e la saliva che colava copiosa dalle loro labbra formando una piccola pozza sotto i loro visi.
provarono a muoversi, a contorcersi, a trovare un minimo allentamento nei nodi. Non si scambiarono parole, non potevano, ma ogni sguardo era un incoraggiamento muto. Le corde, però, non cedevano. I nodi erano precisi, studiati, lontani da raggiungere, tirati con forza. Ogni tentativo non faceva che affaticare i muscoli già doloranti.
Il tempo passava lento, scandito solo dal respiro affannoso e dai piccoli movimenti frustranti delle loro mani dietro la schiena. Clara riuscì a girarsi su un fianco, Terry nello stesso modo tentando di trovare un nodo per liberarla trovando solo le sue mani, stringendole a vicenda per darsi forza e riattivare un po' la circolazione del sangue che le corde strettissime limitava un poco ma nessuna riusciva a sciogliere nulla.
Dopo quasi due ore, esauste e con i corpi contratti dal freddo e dalla tensione, crollarono. Prima una, poi l’altra. Addormentate così, legate, stremate.
Il tempo sembrava essersi fermato quando un nuovo rumore le svegliò. La porta si aprì di nuovo. La luce filtrò dalla scala e le colpì in pieno viso, costringendole a socchiudere gli occhi.
Era lui.
E questa volta, sulle spalle, portava un altra ragazza Era Barbara!!!!
Anche il suo corpo legato nello stesso modo: gomiti serrati dietro la schiena, caviglie collegate ai polsi, le cosce strettamente bloccate da più giri di corda, diversi giri di corda passavano sopra e sotto il seno stringendo forte attorno alle braccia facendo risaltare il suo seno che lottando per non farsi legare aveva fatto saltare i bottoni della camicia facendo intravedere il reggiseno.
Anche lei in tacchi alti, anche lei imbavagliata con la stessa palla enorme che le faceva colare la saliva sulle spalle del suo rapitore. Immobile, ma cosciente. Gli occhi spalancati dal terrore.
Il rapitore la buttò a terra accanto a loro come un oggetto. Le osservò, come a studiare una collezione.
«Adesso siete quasi tutte qui,» disse, con un tono quasi soddisfatto. «Non fate sciocchezze. Il gioco è appena iniziato.»
Poi uscì di nuovo, chiudendo la porta con un tonfo.
Ora erano in tre. Legate, prigioniere, ma vive.
Terry si voltò verso Clara e Barbara. Se c’era un momento per reagire, era quello.
Passarono ore. Terry, Clara e Barbara provarono tutto ciò che potevano: si torcevano, cercavano angoli nel pavimento per sfregare i nodi, tentavano goffe manovre di squadra, allineandosi schiena contro schiena. Ma ogni tentativo si infrangeva contro la precisione feroce delle legature. I nodi erano serrati con tecnica, specialmente ai gomiti, e ogni minimo movimento li faceva solo pulsare di più.
Alla fine si arresero, esauste. I corpi doloranti, le membra intorpidite, i respiri affannosi. Crollarono di nuovo, fianco a fianco, legate e sconfitte.
Il silenzio fu spezzato solo molte ore dopo.
La porta si aprì di colpo.
Il rapitore tornò, e anche questa volta portava una donna sulle spalle.
Era Elena!!!
Anche lei legata con la stessa inquietante precisione: gomiti serrati dolorosamente dietro la schiena, le gambe bloccate in più punti, il corpo curvato dalla legatura che univa polsi e caviglie. Il suo sguardo era confuso, ma consapevole. Lottava ancora come una furia, anche se inutilmente.
Venne scaraventata a terra tra le altre, il colpo sordo echeggiò nella stanza.
Il rapitore si mise le mani sui fianchi e le osservò. Un sorriso largo, storto, sul volto.
«Eccovi qua… le quattro tigri della festa di carnevale. Pensavate che non vi avessi riconosciute, eh? Quei vestiti appariscenti… la vostra sfilata tra tutti, risate, battute. Mi avete ignorato come se fossi invisibile. Ma io ho visto tutto. E ora… beh, siete mie.»
Terry sentì il gelo correrle lungo la schiena. La mente correva. Sì, quella sera di carnevale… un uomo con una maschera semplice, uno che stava in disparte. Lo avevano notato a malapena. E ora...
Il rapitore si chinò. Ricontrollò ogni nodo, tirando con forza, uno a uno. Le ragazze gemettero nel bavaglio. Ogni legatura sembrava stringersi ancora di più.
«Bene,» disse infine, alzandosi. «Ora siete pronte per l’incontro di domani. I miei amici sono… impazienti di conoscervi.»
Si voltò, rise piano e uscì, chiudendo la porta dietro di sé.
Il silenzio tornò. Ma ora era carico di terrore.
Amici?
Chi erano?
Che intenzioni aveva?
Si guardarono negli occhi e cominciarono a dimenarsi disperatamente per cercare di uscire da quella situazione
Il tempo nella cantina sembrava dilatarsi. Nessuna delle quattro riusciva più a distinguere il giorno dalla notte. I corpi doloranti, le corde ancora più strette dopo l’ultima visita, e la mente che cercava disperatamente una via d’uscita.
Poi, all’improvviso, rumori sopra le loro teste. Voci. Più di una. Risa. Passi pesanti sulla scala.
La porta si aprì di colpo.
Il rapitore entrò per primo, e con lui tre uomini. Non indossavano maschere, né si sforzavano di nascondere il volto. Uno di loro impugnava una videocamera. Gli altri due avevano lo sguardo eccitato, come se stessero entrando in uno spettacolo privato.
«Eccole qui,» disse il rapitore, indicando il gruppo di ragazze, tutte ancora incaprettate sul pavimento, le corde tese, i corpi inarcati. «Le quattro tigri. Non sembrano più tanto feroci ora, eh?»
Gli altri risero.
Le ragazze iniziarono a divincolarsi con quanto fiato e forza avevano ancora in corpo. Terry cercava di liberare i polsi, Clara di allentare le corde alle caviglie. Barbara riuscì con uno sforzo enorme a sollevarsi un attimo sulle ginocchia, mentre Elena rotolava a fatica cercando di avvicinarsi a una parete.
I tre uomini le osservavano come spettatori davanti a una lotta disperata. Si scambiavano battute, commenti, mentre le ragazze, nonostante tutto, continuavano a lottare.
«Guarda come si muovono,» disse uno. «Quella lì, la bionda, sembra ancora convinta di potersi liberare.»
Il rapitore le guardò con soddisfazione. «Lascio che si stanchino da sole. Quando avranno finito, saranno docili come agnelli. Nessuna fuga. Solo tempo… e corde ben strette.»
Terry sentì un’ondata di rabbia salire. Non potevano continuare così. Dovevano resistere. Dovevano trovare un modo.
Ma le corde stringevano ancora. E le ore passavano lente.
«Per oggi è abbastanza,» disse con un tono calmo. «Un ricordo, però, ci vuole.»
Scattarono alcune foto, uno alla volta, immortalandole nella loro condizione con i rapitori in mezzo a loro come a fare una foto ricordo in una battuta di caccia. Poi, come se nulla fosse, se ne andarono. La porta si richiuse, il chiavistello tornò al suo posto.
Silenzio.
Terry aspettò qualche secondo, poi sussurrò un richiamo strozzato sotto il bavaglio. Le altre risposero con mugolii. In quel momento, tutte capirono che dovevano provarci — era la loro unica occasione.
Con pazienza e dolore, si trascinarono le une vicino alle altre. Le dita si muovevano a tentoni, le dita delle mani ormai erano completamente insensibili causa le corde strette ai gomiti ma finalmente, dopo lunghi minuti di sforzi, riuscirono a sciogliere le corde che bloccavano solo le caviglie.
Fu come un piccolo miracolo. Riuscivano finalmente ad allungare le gambe, a mettere i piedi a terra. Ma il resto delle legature — ai gomiti serrati, ai polsi, alle cosce strettamente bloccate — era ancora lì, opprimente e doloroso.
Clara fu la prima a tentare di alzarsi. Barcollò, ricadde in ginocchio, poi si rimise in piedi con l’aiuto di Terry. Una dopo l’altra, tutte riuscirono a mettersi in piedi. I movimenti erano rigidi, difficili. Le gambe si muovevano a fatica, costrette dalla corda stretta sopra le ginocchia. Ogni passo era una sfida. Ogni scalino della cantina un’impresa.
Ma ce la fecero.
Con passi lenti, impacciati, salirono le scale. Il cuore batteva forte. Ogni scricchiolio sembrava un allarme. Ogni ombra, una minaccia.
La porta d’ingresso era socchiusa. Forse nella fretta l’avevano chiusa male. Clara la spinse con la spalla e uscì per prima.
L’aria fresca della notte le investì. Fu come rinascere.
Mezze piegate, ancora parzialmente legate, corsero — o meglio, trascinarono i piedi in una corsa incerta e dolorosa — lungo la strada di campagna. Le luci lontane di una casa accesero la speranza.
Ora dovevano solo trovare qualcuno. Fermare una macchina. Battere alla porta. Qualcosa.
Ma erano vive. E libere abbastanza da non tornare indietro.
Le quattro ragazze correvano come potevano, inciampando spesso, barcollando con le gambe ancora parzialmente bloccate. I polsi e i gomiti legati stretti dietro la schiena le costringevano a mantenere l’equilibrio con fatica. Il freddo dell’aria notturna le colpiva in volto, ma non si fermavano.
Poi, in lontananza, una strada.
Con uno sforzo disperato, raggiunsero l’asfalto e si misero in mezzo, cercando di farsi notare. I fari di un’auto si accesero all’orizzonte. Terry sbandò verso il centro della carreggiata, sollevando le braccia quanto poteva. Clara urlava, anche se la voce le usciva appena dal bavaglio. Le altre si unirono al caos, tutte e quattro illuminate dai fari.
L’auto inchiodò. Dal finestrino si sporse una ragazza sui venticinque anni, lo sguardo sconvolto.
«Ma che diavolo—?! Siete… siete legate? Dio mio, salite! Subito!»
Non ci fu tempo per spiegare. La ragazza aprì lo sportello e aiutò le quattro a salire come poteva, con gesti rapidi e nervosi. Proprio in quell’istante, dalla curva della strada, un urlo lacerò l’aria.
«FERMATEVI!»
Era il rapitore.
Ma la macchina partì con uno scatto.
Il grido si allontanò dietro di loro, fino a diventare un sussurro portato dal vento. Solo allora, le ragazze si lasciarono andare a un tremito, un pianto liberatorio che avevano trattenuto troppo a lungo.
Dopo alcuni chilometri, l’auto si fermò in un piazzale isolato. La ragazza alla guida scese, corse ad aprire le portiere posteriori, e iniziò a slegarle come meglio poteva.
«Non riesco a crederci… le corde sono… strette da far paura,» mormorò mentre lottava con i nodi.
Ogni fune sembrava cucita addosso, ma lei non si fermava, con le mani tremanti e le lacrime agli occhi.
«Siete al sicuro adesso. Ve lo giuro.»
E finalmente, per la prima volta dopo giorni di terrore, le ragazze iniziarono a credere che fosse vero.
Le prime sirene si udirono in lontananza. Nadia, ancora intenta a liberare le ultime corde, si voltò di scatto verso la strada. Un lampeggiante blu si rifletteva sugli alberi.
«Ecco, stanno arrivando!» esclamò, con un sorriso sollevato.
Poco dopo, un’ambulanza e una pattuglia della polizia si fermarono nel piazzale. I soccorritori scesero correndo. In pochi istanti, le ragazze furono affidate alle cure mediche, avvolte in coperte termiche, dissetate, rassicurate. I poliziotti presero Nadia da parte per raccogliere la sua testimonianza, mentre le quattro liberate raccontavano tra le lacrime tutto ciò che era successo.
Nonostante la stanchezza e lo shock, Terry si voltò verso Clara, Barbara ed Elena. «Ce l’abbiamo fatta», disse piano. Nessuna parlava davvero, ma nei loro sguardi c'era un'intesa nuova: una forza nata dal dolore, una fratellanza costruita nella prova.
Quando tutto fu sotto controllo e il rapitore ormai braccato dalla polizia, le ragazze si riunirono un momento con Nadia.
«Non so come ringraziarti,» disse Elena. «Se non fossi passata...»
Nadia sorrise. «Non serve che mi ringraziate. Ho fatto quello che chiunque dovrebbe fare. Ma... se c'è una cosa che ho capito stasera, è che siete più forti di quanto pensate.»
Si abbracciarono, strette, tra le lacrime e il sollievo. Non erano più vittime. Erano sopravvissute.
E da quella notte, un’amicizia speciale nacque tra loro, fatta non solo di ricordi difficili, ma di coraggio condiviso e di una promessa: non avrebbero mai più lasciato che qualcun altro decidesse per loro.


scritto il
2025-05-21
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