Barbara (ombre nella nebbia)
di
Terry bondage
genere
bondage
Barbara era appena tornata a casa, ancora scossa da ciò che aveva visto: Clara, la sua amica, legata e terrorizzata nella sua stessa abitazione. Aveva chiamato la polizia non appena era riuscita a metterla in salvo, ma l’uomo – quel volto che ora non poteva dimenticare – era ancora a piede libero.
Era lo stesso uomo della festa di carnevale, quello che aveva tenuto legate lei e le sue amiche per quel weekend infernale.
Non passò molto tempo. Un rumore secco alla finestra. Poi il crepitio del legno. Barbara non ebbe il tempo di reagire: la figura dell’uomo emerse dall’ombra con delle corde in mano e prima che potesse urlare, si ritrovò sopraffatta. Si mosse con una precisione inquietante. In pochi istanti, era legata, i gomiti serrati dietro la schiena, impossibilitata a muoversi.
«Ora vediamo se sei brava quanto la tua amica», sussurrò l’uomo con un ghigno freddo, mentre camminava per la casa osservando ogni stanza. Sembrava cercare qualcosa. Un luogo. Un rifugio. Un nascondiglio.
Barbara, a terra, osservava ogni suo movimento. Il dolore alle braccia cresceva, ma la sua mente era fredda, lucida. Doveva restare calma. Doveva capire cosa volesse, e soprattutto, trovare un’occasione per fuggire.
Il tempo scorreva lento, ogni passo dell’uomo echeggiava come un ticchettio inesorabile. Ma Barbara non aveva intenzione di restare una vittima.
L’uomo tornò lentamente verso di lei, i passi lenti e sicuri. Barbara lo guardò con occhi pieni di rabbia, ma anche di paura. Lui non disse una parola. Si chinò e cominciò ad avvolgerle nuove corde intorno alle gambe, stringendo con cura, come se stesse costruendo un’opera. Le caviglie, poi le ginocchia, e infine sollevò le sue gambe legate fino a fissarle alla schiena incaprettandola. Il dolore fu immediato, ma lei non emise un suono.
«Non voglio che tu vada in giro a curiosare», disse, con un tono mellifluo e terribile. Poi prese un grosso pezzo di stoffa – spesso, ruvido – e glielo infilò tra le labbra, legandolo stretto dietro la testa. Il gusto acre del tessuto le fece venire la nausea, ma fu costretta a respirare lentamente per non farsi prendere dal panico.
Poi lo vide girarsi, osservare un angolo della casa. Una piccola porta in fondo al corridoio. L’uomo si avvicinò, la aprì lentamente. La porta della cantina scricchiolò mentre veniva spalancata.
Barbara lo osservava con il cuore martellante nel petto.
«Perfetta», disse lui, e scese i primi gradini. Sparì nell’oscurità, lasciandola sola.
Barbara rimase immobile per un attimo. Poi cominciò a divincolarsi con tutta la forza che aveva. Si contorceva, si arrotolava sul fianco, cercando di far leva con le spalle, ma le corde erano troppo strette, troppo ben fissate. Il bavaglio la soffocava, e ogni respiro sembrava un sussurro strozzato.
Il tempo passava, ma lei non mollava.
Non lo avrebbe permesso. Non sarebbe rimasta lì ad aspettare.
Barbara aveva perso la cognizione del tempo. Il dolore alle articolazioni era costante, e il peso del bavaglio le impediva di respirare bene. Eppure, il rumore dei passi che tornavano la scosse. Era ancora lì. Non era scappato. Peggio: aveva deciso che lei non andava da nessuna parte.
L’uomo si fermò davanti a lei, con un’espressione quasi serena, come se stesse per iniziare un fine settimana qualunque.
«Sai che giorno è, Barbara?» le chiese con voce calma, come se volesse fare una chiacchierata. «È venerdì mattina. E tu sei in ferie, vero? Nessuno ti cercherà. Abbiamo tutto il weekend per stare insieme.»
Le si gelò il sangue…
Lui le accarezzò la guancia con una lentezza inquietante. Barbara si voltò d’istinto, respingendo il contatto. Lui rise piano.
«Sei forte… e flessibile. Ottimo. È raro trovare corpi così adattabili. Mi darai la possibilità di provare qualche nodo… più stretto. Più interessante.»
Barbara sussultò. Il cuore le batteva come un tamburo nel petto. Non riusciva a urlare, ma lo avrebbe fatto con ogni fibra del suo corpo se avesse potuto.
Senza dire altro, lui si chinò, la afferrò con facilità e la sollevò come un peso morto, caricandosela sulla spalla. Ogni movimento faceva gridare le sue articolazioni legate, ma Barbara non smetteva di pensare. Non smetteva di cercare un piano. Qualsiasi cosa.
Attraversarono il corridoio. La porta della cantina era ancora aperta. Scese i gradini lentamente, portandola con sé nell’oscurità fredda, umida, dove la luce del giorno non entrava.
Il buio la avvolse. Il silenzio si fece più denso.
Ma nella mente di Barbara, qualcosa restava acceso. Una scintilla. Una promessa.
Non avrebbe permesso che il weekend finisse come voleva lui.
La cantina odorava di muffa e legno vecchio. La luce era fioca, proveniente da una lampadina nuda appesa a un filo, che ondeggiava appena sopra il centro della stanza. Barbara fu depositata bruscamente a terra. Il pavimento era freddo, sporco di polvere e frammenti di legno. Il suo cuore continuava a martellare nel petto, ma i suoi occhi osservavano ogni dettaglio: la posizione della porta, gli angoli bui, e quel palo grezzo di legno piantato saldamente al centro della stanza.
L’uomo la lasciò lì per un istante, poi si mosse con calma verso una scatola contro il muro. Ne estrasse nuove corde, più lunghe, più spesse.
«Voglio vedere se riesci davvero a stupirmi», disse con voce bassa, quasi divertita.
Barbara si contorceva ancora leggermente, provando ogni tanto a muovere le mani serrate dietro la schiena, ma non c’era nulla da fare. Le sue forze erano già provate.
Lui si avvicinò e iniziò a sciogliere parte delle corde, giusto il necessario per riorganizzare la sua prigionia. Non era una liberazione. Era solo una nuova prigione.
Con gesti metodici, la sollevò e la posizionò in piedi contro il palo. Il legno era ruvido e freddo contro la sua schiena. La gonna corta che indossava e la camicia leggera, aperta quanto bastava per lasciar trasparire la silhouette del suo seno, non offrivano alcuna protezione dal gelo della cantina.
Le sue braccia vennero tirate dietro al palo, e le corde cominciarono a stringersi. Prima i polsi, poi i gomiti, tirati lentamente fino a toccarsi. Barbara trattenne il respiro per il dolore crescente, ma non emise un suono.
La posizione dei gomiti dietro il palo faceva si che il seno fosse spinto in avanti facendo forza sui bottoni della camicia fino a che uno cedette scoprendo parzialmente il suo bel seno.
Lui si fermò per un istante, osservando il risultato. «Incredibile… riesci a chiuderli così tanto I gomiti. Sei davvero... notevole, Clara soffriva molto di più»
Le corde continuarono a scorrere tra le sue braccia e intorno al busto. Passavano sopra e sotto il seno, facendolo risaltare e bloccandolo contro il palo, creando una rete che la immobilizzava completamente. Ogni nodo era tirato con precisione, senza fretta.
Le gambe vennero unite e fissate al palo, una corda dopo l’altra. Sopra le ginocchia. Poi alle caviglie. Infine, con attenzione, l’uomo avvolse le corde anche intorno ai piedi, serrandole sopra i tacchi delle sue scarpe nere, fissandoli al legno come a impedirle anche solo l’idea di muoversi o scalzare le scarpe.
Barbara tremava, non solo per il freddo ma per la tensione di quella legatura così stretta al palo.
La luce della lampadina proiettava ombre lunghe e distorte sulle pareti umide. Ogni nodo che lui stringeva sembrava un confine in più tra lei e la libertà. Ma nella sua mente, ancora, la scintilla non si era spenta.
Era immobile. Ma non sconfitta.
L’uomo si chinò per l’ultima volta. Le sue dita callose le sfiorarono la guancia in un gesto disturbante, quasi tenero nella sua follia.
«Tornerò per cena», sussurrò con un sorriso. «Riposa, Barbara. Abbiamo un lungo weekend davanti.»
Poi si voltò, risalì le scale lentamente, e la porta si richiuse con un suono secco. Il rumore del chiavistello che scattava fu come un colpo di martello nel silenzio.
Barbara era sola.
Il silenzio era pesante, rotto solo dal ticchettio dell'acqua che gocciolava da qualche tubo arrugginito. La luce tremolante della lampadina sembrava più debole, come se anche lei avesse cominciato a cedere.
Le corde erano ovunque. Le braccia le pulsavano per la tensione continua, i gomiti serrati uno contro l’altro. Le gambe erano ancorate al palo con una precisione spaventosa. I tacchi, inchiodati dalle corde, le facevano sentire ogni vibrazione del pavimento sotto i piedi. Era come essere diventata parte del legno stesso.
Il bavaglio era ormai fradicio. La stoffa le aveva assorbito la saliva, che ora cominciava a colarle giù per il mento, insinuandosi tra i seni. Le dava una sensazione di umiliazione e vulnerabilità che la faceva stringere gli occhi dalla frustrazione.
Provò a muoversi, anche solo a spostare un piede, un ginocchio. Nulla. Le corde erano troppo strette, troppo ben posizionate. Ogni minimo sforzo le causava fitte acute, come se il suo stesso corpo le stesse dicendo di smettere.
Chiuse gli occhi per un attimo. Le venne in mente Clara.
Clara, legata nello stesso modo. Clara che lei aveva trovato in casa propria, ridotta a un corpo prigioniero, tremante, con lo stesso sguardo che ora sentiva nei propri occhi. Aveva pensato di averla salvata. Di aver posto fine a quell’incubo.
Ma ora era lei, al posto di Clara.
Cominciò a contare i nodi mentalmente, cercando di ricordare come erano stati legati. Cercò di percepire se qualcuno cedesse, se ci fosse un minimo allentamento con ogni respiro. Niente. Il tipo sapeva quello che faceva.
Barbara sapeva anche un’altra cosa: lui sarebbe tornato.
E il pensiero la teneva sospesa in un limbo. Non c’era rumore, né tempo. Solo l’attesa. E la certezza che prima o poi avrebbe sentito di nuovo quei passi sulla scala.
Sapeva che doveva resistere. Ma non sapeva ancora come.
Le ore passarono lente, scandite solo dalla luce che filtrava dalle fessure della porta. Barbara era esausta. Ogni muscolo era in tensione da troppo tempo. Le corde tagliavano la circolazione, le articolazioni urlavano. Ma la mente, quella era ancora sveglia. Attenta. In cerca di un punto debole.
Fu allora che lo notò.
Un chiodo, sporgente dal palo, mezzo arrugginito, nascosto sotto uno dei giri di corda vicino ai suoi polsi. Era piccolo, ma abbastanza affilato. E soprattutto, fermo. La speranza si accese come una scintilla.
Ci vollero minuti solo per riuscire a sfregare le corde nel punto giusto. Il margine di movimento era ridicolo. Doveva contorcersi, sollevare leggermente i polsi quel tanto che bastava. Il legno graffiava la pelle, il chiodo pungeva, ma lei non si fermava.
Ogni ora che passava, sentiva il corpo chiedere tregua. Si fermava per qualche minuto, riprendeva fiato, cercava di controllare il dolore. Poi ricominciava. Sfregamento dopo sfregamento. Nodo dopo nodo.
La stoffa bagnata tra le labbra le dava il tormento costante di un respiro incompleto. Il petto le si sollevava a fatica, serrato com’era tra le corde. Ma non smise. Mai. La sua volontà era più forte del dolore.
Quando finalmente sentì la corda cedere, quasi non ci credette. Il polso sinistro si mosse. Poco, ma si mosse. Le dita si allungarono verso il nodo. Non vedeva, ma poteva sentire. Una spirale sottile di corda scivolò libera.
I polsi erano liberi.
Il sollievo fu immediato, ma non completo. I gomiti erano ancora stretti, troppo. Bloccavano buona parte dei movimenti delle braccia. Non riusciva a portare le mani davanti a sé. E il busto, legato al palo, era ancora completamente immobilizzato.
E fu allora che lo sentì.
Uno scricchiolio.
La porta della cantina si aprì con un gemito lungo e lento.
La luce delle scale si accese.
Barbara sollevò il viso. Gli occhi dilatati, il cuore impazzito nel petto.
I suoi polsi erano liberi, sì.
Ma il tempo era finito.
Era tornato.
La porta si aprì di colpo.
L’uomo scese i gradini due alla volta, e bastò un solo sguardo perché si accorgesse che qualcosa era cambiato.
I suoi occhi scivolarono subito sui polsi di Barbara, ormai liberi anche se ancora inerti, stanchi. L’espressione sul suo volto mutò. Nessun grido, nessun scatto d’ira. Solo un sorriso sottile, disturbante.
«Hai avuto coraggio. Ma ora... sarà peggio per te.»
Si avvicinò con decisione, e prima che Barbara potesse reagire — ammesso che potesse — afferrò un rotolo di nastro adesivo grigio da una mensola polverosa. In pochi secondi, le bloccò di nuovo i polsi insieme, stringendo con forza. Il suono del nastro che si srotolava copriva il battito sordo del cuore di Barbara.
Lei non lo guardava. Guardava il pavimento, cercando di non cedere. Cercando di restare presente.
Ma poi lo vide estrarre qualcosa di nuovo da una borsa: una grossa pallina di gomma nera, montata su una cinghia di cuoio. Il suo stomaco si chiuse. Il bavaglio di stoffa che le era stato in bocca per ore era stato un tormento, ma questo… questo era diverso.
«Clara…», pensò. Quante ore ci sei rimasta? Quanti pensieri hai soffocato con qualcosa del genere tra i denti?
Quando lui glielo mostrò con compiacimento disse, “senti, si sente ancora il profumo della tua amica Clara “ .Barbara si irrigidì. Scosse la testa, quanto riusciva. Tentò di chiudere le labbra, di tirarsi indietro. Ma era inutile. Era troppo stanca, troppo bloccata. Dopo una breve lotta, lui riuscì a farle aprire la bocca a forza. Barbara serrò la bocca ma l’uomo le tappo il naso aspettando pazientemente che la fame di aria le facesse aprire la bocca, e così fu. Spinse con forza dentro la bocca la pallina e la fissò dietro la sua testa con un nodo rapido e brutale.
La gomma le riempì la bocca completamente. La mandibola si tese subito per il dolore. Non poteva più chiudere le labbra, non poteva deglutire bene. E la saliva… cominciò a scendere quasi subito, abbondante, impossibile da controllare. La sentiva scorrere giù per il mento, lungo il collo, insinuarsi tra i seni, calda, umiliante.
Come hai fatto, Clara? pensò. Come hai resistito così a lungo senza spezzarti?
Non era più solo un paragone. Era come se potesse sentire il respiro di Clara lì, nella stessa cantina. Come se le loro menti, separate da giorni e da corde diverse, stessero vivendo lo stesso incubo.
Il rapitore si allontanò, soddisfatto. Non parlò più.
Barbara, sola di nuovo nel silenzio, sentiva il cuore martellare nelle tempie. Il bavaglio le chiudeva la voce, ma i pensieri erano ancora liberi. E Clara, dentro quei pensieri, diventava ogni ora di più una ragione per resistere.
La notte era stata un vortice confuso di dolore, freddo e fatica. Barbara aveva resistito quanto poteva, ma alla fine il corpo aveva ceduto, abbandonandosi in una posizione innaturale, legata al palo, con la testa reclinata sul petto e i pensieri ormai frantumati dalla stanchezza.
Non sognava, non dormiva davvero. Fluttuava tra momenti di incoscienza e attimi di angoscia in cui la mente le riproponeva il volto di Clara, immobile, silenziosa, come uno specchio di se stessa. Ora capisco, pensava, ora sento cosa hai provato davvero.
Il mattino successivo fu brutale.
Passi pesanti sulle scale, la porta che si apriva e il fascio di luce che colpiva i suoi occhi chiusi. Non ebbe neppure il tempo di reagire. Lui era già su di lei, cominciando a scioglierla dal palo. Le corde cadevano a terra, ma non era libertà.
Appena il corpo di Barbara crollò sul pavimento, esausto e senza forze, il nastro tornò. Nessuna parola. Solo il suono secco del nastro adesivo che avvolgeva di nuovo i polsi, poi le caviglie, le cosce, e ancora i gomiti. Ogni movimento diventava impossibile.
Barbara sentiva solo il calore del suo stesso respiro intrappolato. La mente, stordita, cercava di restare lucida. Ma il corpo era a pezzi.
Fu sollevata come un fardello. Il suo volto urtò la spalla dell’uomo. E poi, il cambio d’ambiente. Fu scaricata in salotto. La luce era diversa. L’aria più secca e fresca, ma più calda.
Davanti a lei, una sedia. Al centro della stanza. Solitaria. Prevedibile. Ineluttabile.
Barbara era stesa sul tappeto, respirando a fatica, mentre il bavaglio la stringeva ancora come una morsa. Si rese conto solo allora che le corde erano tutte scomparse. Ora c’era solo nastro. Nastro grigio, lucido, serrato fino a toglierle il fiato.
Lui si chinò su di lei, con un sorriso gelido: «Buongiorno. Ti aspettavo sveglia, ma anche così va bene.»
Le mani ruvide la sollevarono e la posarono sulla sedia. La schiena premuta contro lo schienale, i fianchi ben centrati. E di nuovo il nastro.
Una, due, tre volte intorno al petto sopra e sotto il seno, alla vita, alle gambe. Fissava ogni parte del suo corpo al legno, senza fretta, come un rituale studiato. Le braccia già bloccate furono avvolte anche allo schienale per poi stringersi attorno alla vita. Caviglie legate alla base. Cosce immobilizzate e poi fissate con diversi giri alla seduta e altro nastro a collegare i polsi alle caviglie tirando molto e costringendola a inarcarsi per quanto possibile facendo risaltare il seno stretto tra giri di nastro strettissimi con il risultato che i bottoni della camicia cedettero alla pressione del suo seno esponendo il suo intimo nero alla vista dell’uomo.
Barbara sentiva ogni giro stringere sempre di più. Il respiro breve. Le gambe formicolanti. Il dolore tornava, ma era come ovattato. La mente era troppo concentrata su un solo pensiero.
Questa era Clara. Così l’aveva tenuta. Così lei aveva passato quei tre giorni.
E ora era il suo turno.
Lui si allontanò, si fermò a pochi passi, e la osservò. Annuì, come soddisfatto di un lavoro ben fatto.
Barbara non poteva muoversi. Ma dentro, non era ancora finita.
Il nastro era ovunque, liscio e compatto, senza nodi da sciogliere, senza margini. Il suo corpo era diventato parte della sedia, prigioniero in una struttura rigida da cui era impossibile liberarsi. Anche il tempo sembrava essersi incollato a lei: ogni ora si allungava, indistinta, lenta.
Le uniche cose libere erano i pensieri.
E proprio quelli si affollavano nella sua mente, mentre la luce calava lentamente dietro le finestre.
Clara. Terry. Elena.
Il pensiero tornava a loro 4 legate per giorni in quella cantina da quell’uomo, la loro prigionía, la sofferenza, l’umiliazione e gli inutili tentativi di slegarsi.
Se non erano riuscite insieme cominciava a pensare che da sola sarebbe stato impossibile.
Volti, nomi, respiri trattenuti.
anche loro erano state legate alla sedia sedia, pensava Barbara. avevano sentito lo stesso dolore ai polsi, ai gomiti, lo stesso formicolio che ora mi fa tremare le gambe e che rende le mani insensibili, inutilizzabili per tentare una fuga, lo stesso peso del silenzio.
Quando la porta si aprì di nuovo, fu già sera inoltrata.
L’uomo entrò con una scatola bianca in mano. Pizza. Il profumo la colpì con una violenza quasi beffarda. Il suo stomaco si contorse, affamato e ribelle.
Lui si sedette di fronte a lei, si servì per primo, e solo dopo aver mangiato un paio di fette si alzò, le si avvicinò e con calma le tolse la pallina di gomma dalla bocca. Barbara gemette, ma era più un sospiro di sollievo che altro. La mandibola dolorante rimase aperta per qualche secondo, come se non sapesse più richiudersi.
Poi lui le avvicinò una bottiglia.
«Bevi, o svieni», disse con tono quasi casuale.
Barbara bevvein maniera avida. L’acqua le scese lungo la gola come un torrente, bagnandole il mento, la camicia, il petto colandole tra i seni. Ma non si fermò. Anche se tossiva, anche se il liquido colava dappertutto. Quando l’uomo si fermò, lei riprese fiato con affanno, gli occhi lucidi.
Poi lui prese una fetta di pizza e la avvicinò alle sue labbra.
Barbara esitò, poi morse. E masticò lentamente. Il sapore era reale, concreto, eppure sembrava lontano. Come se stesse mangiando in sogno.
Quando finì, lo guardò negli occhi e con le lacrime che le scendevano rovinandole il trucco disse.
«Ti prego…», disse con voce fioca. «Basta. Non chiamerò la polizia. Non dirò nulla. Se vuoi soldi… posso darteli.»
La sua voce era sincera. Ma anche calcolata. Sperava. Temeva.
Lui rise. Non disse nulla. Prese la pallina da dove l’aveva lasciata e, senza fretta, gliela rimise in bocca. Stringendo dietro la nuca come sempre. Non oppose resistenza, tanto era inutile. Poi, con la solita freddezza, si voltò.
«Buonanotte, Barbara.»
La luce si spense.
E Barbara rimase lì.
Legata. Immobile. A fissare il vuoto davanti a sé. Ma dentro, nella mente, non era sola. Terry, Clara, Elena. Le sentiva accanto, come presenze invisibili. Immaginava i loro sussurri, i pensieri che forse avevano avuto nelle notti passate in quella cantina.
Barbara era crollata nel sonno.
La notte l’aveva consumata, e il corpo, ormai sfinito, si era arreso. Le ultime ore di buio erano passate in un dormiveglia inquieto, fatto di incubi frammentati e pensieri aggrovigliati.
Il mattino seguente, il suono secco del nastro che veniva strappato dal rotolo la svegliò.
L’uomo era di nuovo lì.
Le tolse il nastro dal petto, dalla seduta e dal collegamento alle caviglie, la sollevò dalla sedia con uno sforzo calcolato e la posò a terra, sempre mezza legata. Poi, con freddezza, riprese ad avvolgerla. Aggiungendo nastro intorno ai polsi. Ai gomiti. Alle caviglie. Barbara non reagiva più. Gli occhi fissi davanti a sé, la mente svuotata. Non c’era più speranza nel movimento, eppure dentro di lei un piccolo fuoco, fioco ma presente, continuava a bruciare.
Lui concluse stringendole le gambe contro le braccia, incaprettandola con strati di nastro che le bloccavano ogni angolo di libertà. Poi, senza una parola, uscì sbattendo la porta. Il silenzio tornò a dominare la casa.
Passarono ore.
Barbara non sapeva più quanto tempo fosse trascorso. Il corpo le faceva male ovunque, il respiro era faticoso, il viso poggiato per terra per cercare un po’ di sollievo da quella posizione crudele, la saliva che continuava a uscire copiosa da dietro il bavaglio le colava lungo il mento creando una pozza di saliva sotto il suo viso segnato dalla fatica e dalle lacrime, e la mente, pur stanca, continuava a vagare. Finché, d’improvviso, il rumore della serratura.
Un brivido. È tornato?
Ma no. I passi erano diversi. Leggeri, incerti, con un rumore di tacchi. Poi una voce.
«Barbara? Ci sei?»
Era Elena.
Barbara cercò di emettere un suono, di muoversi. Con tutte le forze che gli erano rimaste in corpo emise un mugolio più forte che poteva. Quel poco bastò.
«Oddio… Barbara!»
Elena si precipitò nel salotto e rimase paralizzata dalla scena. L’amica era lì, a terra, come un pacco umano. Il corpo serrato da decine di strati di nastro grigio, il volto rigato dalle lacrime e dalla fatica, gli occhi spalancati. Era legata in modo così complesso che a un primo sguardo sembrava impossibile capire da dove cominciare.
«Mio Dio… aspetta… aspetta!»
Elena corse in cucina, aprì ogni cassetto fino a trovare un paio di forbici da cucina. Tornò da Barbara e iniziò a tagliare con decisione, ma con mani tremanti.
«Chi ti ha fatto questo…? Come?»
Il nastro era ovunque. Ogni taglio era un piccolo trionfo, ma anche una fatica. Elena dovette cambiare angolo più volte, sfilare strati su strati. Barbara cominciava a gemere piano, la tensione finalmente cominciava a sciogliersi.
Polsi. Poi caviglie. I gomiti. Poi il petto.
Ogni parte liberata sembrava ridare un frammento di umanità a Barbara, che respirava a fatica, ma con crescente lucidità.
A fatica Elena riuscì a sciogliere il bavaglio permettendogli di togliere la pallina di bocca
Alla fine, quando anche l’ultima fascia fu tagliata, Barbara crollò sul fianco, libera, ma senza forze. Elena le si inginocchiò accanto, le prese il viso tra le mani.
«Ci sei… ci sei ancora, Barbara… Sei salva.»
Barbara annuì, un cenno appena visibile. Ma dentro di lei, sapeva che non era finita. L’uomo era ancora là fuori.
E Clara, Terry, Elena… ora tutte erano in pericolo.
Era lo stesso uomo della festa di carnevale, quello che aveva tenuto legate lei e le sue amiche per quel weekend infernale.
Non passò molto tempo. Un rumore secco alla finestra. Poi il crepitio del legno. Barbara non ebbe il tempo di reagire: la figura dell’uomo emerse dall’ombra con delle corde in mano e prima che potesse urlare, si ritrovò sopraffatta. Si mosse con una precisione inquietante. In pochi istanti, era legata, i gomiti serrati dietro la schiena, impossibilitata a muoversi.
«Ora vediamo se sei brava quanto la tua amica», sussurrò l’uomo con un ghigno freddo, mentre camminava per la casa osservando ogni stanza. Sembrava cercare qualcosa. Un luogo. Un rifugio. Un nascondiglio.
Barbara, a terra, osservava ogni suo movimento. Il dolore alle braccia cresceva, ma la sua mente era fredda, lucida. Doveva restare calma. Doveva capire cosa volesse, e soprattutto, trovare un’occasione per fuggire.
Il tempo scorreva lento, ogni passo dell’uomo echeggiava come un ticchettio inesorabile. Ma Barbara non aveva intenzione di restare una vittima.
L’uomo tornò lentamente verso di lei, i passi lenti e sicuri. Barbara lo guardò con occhi pieni di rabbia, ma anche di paura. Lui non disse una parola. Si chinò e cominciò ad avvolgerle nuove corde intorno alle gambe, stringendo con cura, come se stesse costruendo un’opera. Le caviglie, poi le ginocchia, e infine sollevò le sue gambe legate fino a fissarle alla schiena incaprettandola. Il dolore fu immediato, ma lei non emise un suono.
«Non voglio che tu vada in giro a curiosare», disse, con un tono mellifluo e terribile. Poi prese un grosso pezzo di stoffa – spesso, ruvido – e glielo infilò tra le labbra, legandolo stretto dietro la testa. Il gusto acre del tessuto le fece venire la nausea, ma fu costretta a respirare lentamente per non farsi prendere dal panico.
Poi lo vide girarsi, osservare un angolo della casa. Una piccola porta in fondo al corridoio. L’uomo si avvicinò, la aprì lentamente. La porta della cantina scricchiolò mentre veniva spalancata.
Barbara lo osservava con il cuore martellante nel petto.
«Perfetta», disse lui, e scese i primi gradini. Sparì nell’oscurità, lasciandola sola.
Barbara rimase immobile per un attimo. Poi cominciò a divincolarsi con tutta la forza che aveva. Si contorceva, si arrotolava sul fianco, cercando di far leva con le spalle, ma le corde erano troppo strette, troppo ben fissate. Il bavaglio la soffocava, e ogni respiro sembrava un sussurro strozzato.
Il tempo passava, ma lei non mollava.
Non lo avrebbe permesso. Non sarebbe rimasta lì ad aspettare.
Barbara aveva perso la cognizione del tempo. Il dolore alle articolazioni era costante, e il peso del bavaglio le impediva di respirare bene. Eppure, il rumore dei passi che tornavano la scosse. Era ancora lì. Non era scappato. Peggio: aveva deciso che lei non andava da nessuna parte.
L’uomo si fermò davanti a lei, con un’espressione quasi serena, come se stesse per iniziare un fine settimana qualunque.
«Sai che giorno è, Barbara?» le chiese con voce calma, come se volesse fare una chiacchierata. «È venerdì mattina. E tu sei in ferie, vero? Nessuno ti cercherà. Abbiamo tutto il weekend per stare insieme.»
Le si gelò il sangue…
Lui le accarezzò la guancia con una lentezza inquietante. Barbara si voltò d’istinto, respingendo il contatto. Lui rise piano.
«Sei forte… e flessibile. Ottimo. È raro trovare corpi così adattabili. Mi darai la possibilità di provare qualche nodo… più stretto. Più interessante.»
Barbara sussultò. Il cuore le batteva come un tamburo nel petto. Non riusciva a urlare, ma lo avrebbe fatto con ogni fibra del suo corpo se avesse potuto.
Senza dire altro, lui si chinò, la afferrò con facilità e la sollevò come un peso morto, caricandosela sulla spalla. Ogni movimento faceva gridare le sue articolazioni legate, ma Barbara non smetteva di pensare. Non smetteva di cercare un piano. Qualsiasi cosa.
Attraversarono il corridoio. La porta della cantina era ancora aperta. Scese i gradini lentamente, portandola con sé nell’oscurità fredda, umida, dove la luce del giorno non entrava.
Il buio la avvolse. Il silenzio si fece più denso.
Ma nella mente di Barbara, qualcosa restava acceso. Una scintilla. Una promessa.
Non avrebbe permesso che il weekend finisse come voleva lui.
La cantina odorava di muffa e legno vecchio. La luce era fioca, proveniente da una lampadina nuda appesa a un filo, che ondeggiava appena sopra il centro della stanza. Barbara fu depositata bruscamente a terra. Il pavimento era freddo, sporco di polvere e frammenti di legno. Il suo cuore continuava a martellare nel petto, ma i suoi occhi osservavano ogni dettaglio: la posizione della porta, gli angoli bui, e quel palo grezzo di legno piantato saldamente al centro della stanza.
L’uomo la lasciò lì per un istante, poi si mosse con calma verso una scatola contro il muro. Ne estrasse nuove corde, più lunghe, più spesse.
«Voglio vedere se riesci davvero a stupirmi», disse con voce bassa, quasi divertita.
Barbara si contorceva ancora leggermente, provando ogni tanto a muovere le mani serrate dietro la schiena, ma non c’era nulla da fare. Le sue forze erano già provate.
Lui si avvicinò e iniziò a sciogliere parte delle corde, giusto il necessario per riorganizzare la sua prigionia. Non era una liberazione. Era solo una nuova prigione.
Con gesti metodici, la sollevò e la posizionò in piedi contro il palo. Il legno era ruvido e freddo contro la sua schiena. La gonna corta che indossava e la camicia leggera, aperta quanto bastava per lasciar trasparire la silhouette del suo seno, non offrivano alcuna protezione dal gelo della cantina.
Le sue braccia vennero tirate dietro al palo, e le corde cominciarono a stringersi. Prima i polsi, poi i gomiti, tirati lentamente fino a toccarsi. Barbara trattenne il respiro per il dolore crescente, ma non emise un suono.
La posizione dei gomiti dietro il palo faceva si che il seno fosse spinto in avanti facendo forza sui bottoni della camicia fino a che uno cedette scoprendo parzialmente il suo bel seno.
Lui si fermò per un istante, osservando il risultato. «Incredibile… riesci a chiuderli così tanto I gomiti. Sei davvero... notevole, Clara soffriva molto di più»
Le corde continuarono a scorrere tra le sue braccia e intorno al busto. Passavano sopra e sotto il seno, facendolo risaltare e bloccandolo contro il palo, creando una rete che la immobilizzava completamente. Ogni nodo era tirato con precisione, senza fretta.
Le gambe vennero unite e fissate al palo, una corda dopo l’altra. Sopra le ginocchia. Poi alle caviglie. Infine, con attenzione, l’uomo avvolse le corde anche intorno ai piedi, serrandole sopra i tacchi delle sue scarpe nere, fissandoli al legno come a impedirle anche solo l’idea di muoversi o scalzare le scarpe.
Barbara tremava, non solo per il freddo ma per la tensione di quella legatura così stretta al palo.
La luce della lampadina proiettava ombre lunghe e distorte sulle pareti umide. Ogni nodo che lui stringeva sembrava un confine in più tra lei e la libertà. Ma nella sua mente, ancora, la scintilla non si era spenta.
Era immobile. Ma non sconfitta.
L’uomo si chinò per l’ultima volta. Le sue dita callose le sfiorarono la guancia in un gesto disturbante, quasi tenero nella sua follia.
«Tornerò per cena», sussurrò con un sorriso. «Riposa, Barbara. Abbiamo un lungo weekend davanti.»
Poi si voltò, risalì le scale lentamente, e la porta si richiuse con un suono secco. Il rumore del chiavistello che scattava fu come un colpo di martello nel silenzio.
Barbara era sola.
Il silenzio era pesante, rotto solo dal ticchettio dell'acqua che gocciolava da qualche tubo arrugginito. La luce tremolante della lampadina sembrava più debole, come se anche lei avesse cominciato a cedere.
Le corde erano ovunque. Le braccia le pulsavano per la tensione continua, i gomiti serrati uno contro l’altro. Le gambe erano ancorate al palo con una precisione spaventosa. I tacchi, inchiodati dalle corde, le facevano sentire ogni vibrazione del pavimento sotto i piedi. Era come essere diventata parte del legno stesso.
Il bavaglio era ormai fradicio. La stoffa le aveva assorbito la saliva, che ora cominciava a colarle giù per il mento, insinuandosi tra i seni. Le dava una sensazione di umiliazione e vulnerabilità che la faceva stringere gli occhi dalla frustrazione.
Provò a muoversi, anche solo a spostare un piede, un ginocchio. Nulla. Le corde erano troppo strette, troppo ben posizionate. Ogni minimo sforzo le causava fitte acute, come se il suo stesso corpo le stesse dicendo di smettere.
Chiuse gli occhi per un attimo. Le venne in mente Clara.
Clara, legata nello stesso modo. Clara che lei aveva trovato in casa propria, ridotta a un corpo prigioniero, tremante, con lo stesso sguardo che ora sentiva nei propri occhi. Aveva pensato di averla salvata. Di aver posto fine a quell’incubo.
Ma ora era lei, al posto di Clara.
Cominciò a contare i nodi mentalmente, cercando di ricordare come erano stati legati. Cercò di percepire se qualcuno cedesse, se ci fosse un minimo allentamento con ogni respiro. Niente. Il tipo sapeva quello che faceva.
Barbara sapeva anche un’altra cosa: lui sarebbe tornato.
E il pensiero la teneva sospesa in un limbo. Non c’era rumore, né tempo. Solo l’attesa. E la certezza che prima o poi avrebbe sentito di nuovo quei passi sulla scala.
Sapeva che doveva resistere. Ma non sapeva ancora come.
Le ore passarono lente, scandite solo dalla luce che filtrava dalle fessure della porta. Barbara era esausta. Ogni muscolo era in tensione da troppo tempo. Le corde tagliavano la circolazione, le articolazioni urlavano. Ma la mente, quella era ancora sveglia. Attenta. In cerca di un punto debole.
Fu allora che lo notò.
Un chiodo, sporgente dal palo, mezzo arrugginito, nascosto sotto uno dei giri di corda vicino ai suoi polsi. Era piccolo, ma abbastanza affilato. E soprattutto, fermo. La speranza si accese come una scintilla.
Ci vollero minuti solo per riuscire a sfregare le corde nel punto giusto. Il margine di movimento era ridicolo. Doveva contorcersi, sollevare leggermente i polsi quel tanto che bastava. Il legno graffiava la pelle, il chiodo pungeva, ma lei non si fermava.
Ogni ora che passava, sentiva il corpo chiedere tregua. Si fermava per qualche minuto, riprendeva fiato, cercava di controllare il dolore. Poi ricominciava. Sfregamento dopo sfregamento. Nodo dopo nodo.
La stoffa bagnata tra le labbra le dava il tormento costante di un respiro incompleto. Il petto le si sollevava a fatica, serrato com’era tra le corde. Ma non smise. Mai. La sua volontà era più forte del dolore.
Quando finalmente sentì la corda cedere, quasi non ci credette. Il polso sinistro si mosse. Poco, ma si mosse. Le dita si allungarono verso il nodo. Non vedeva, ma poteva sentire. Una spirale sottile di corda scivolò libera.
I polsi erano liberi.
Il sollievo fu immediato, ma non completo. I gomiti erano ancora stretti, troppo. Bloccavano buona parte dei movimenti delle braccia. Non riusciva a portare le mani davanti a sé. E il busto, legato al palo, era ancora completamente immobilizzato.
E fu allora che lo sentì.
Uno scricchiolio.
La porta della cantina si aprì con un gemito lungo e lento.
La luce delle scale si accese.
Barbara sollevò il viso. Gli occhi dilatati, il cuore impazzito nel petto.
I suoi polsi erano liberi, sì.
Ma il tempo era finito.
Era tornato.
La porta si aprì di colpo.
L’uomo scese i gradini due alla volta, e bastò un solo sguardo perché si accorgesse che qualcosa era cambiato.
I suoi occhi scivolarono subito sui polsi di Barbara, ormai liberi anche se ancora inerti, stanchi. L’espressione sul suo volto mutò. Nessun grido, nessun scatto d’ira. Solo un sorriso sottile, disturbante.
«Hai avuto coraggio. Ma ora... sarà peggio per te.»
Si avvicinò con decisione, e prima che Barbara potesse reagire — ammesso che potesse — afferrò un rotolo di nastro adesivo grigio da una mensola polverosa. In pochi secondi, le bloccò di nuovo i polsi insieme, stringendo con forza. Il suono del nastro che si srotolava copriva il battito sordo del cuore di Barbara.
Lei non lo guardava. Guardava il pavimento, cercando di non cedere. Cercando di restare presente.
Ma poi lo vide estrarre qualcosa di nuovo da una borsa: una grossa pallina di gomma nera, montata su una cinghia di cuoio. Il suo stomaco si chiuse. Il bavaglio di stoffa che le era stato in bocca per ore era stato un tormento, ma questo… questo era diverso.
«Clara…», pensò. Quante ore ci sei rimasta? Quanti pensieri hai soffocato con qualcosa del genere tra i denti?
Quando lui glielo mostrò con compiacimento disse, “senti, si sente ancora il profumo della tua amica Clara “ .Barbara si irrigidì. Scosse la testa, quanto riusciva. Tentò di chiudere le labbra, di tirarsi indietro. Ma era inutile. Era troppo stanca, troppo bloccata. Dopo una breve lotta, lui riuscì a farle aprire la bocca a forza. Barbara serrò la bocca ma l’uomo le tappo il naso aspettando pazientemente che la fame di aria le facesse aprire la bocca, e così fu. Spinse con forza dentro la bocca la pallina e la fissò dietro la sua testa con un nodo rapido e brutale.
La gomma le riempì la bocca completamente. La mandibola si tese subito per il dolore. Non poteva più chiudere le labbra, non poteva deglutire bene. E la saliva… cominciò a scendere quasi subito, abbondante, impossibile da controllare. La sentiva scorrere giù per il mento, lungo il collo, insinuarsi tra i seni, calda, umiliante.
Come hai fatto, Clara? pensò. Come hai resistito così a lungo senza spezzarti?
Non era più solo un paragone. Era come se potesse sentire il respiro di Clara lì, nella stessa cantina. Come se le loro menti, separate da giorni e da corde diverse, stessero vivendo lo stesso incubo.
Il rapitore si allontanò, soddisfatto. Non parlò più.
Barbara, sola di nuovo nel silenzio, sentiva il cuore martellare nelle tempie. Il bavaglio le chiudeva la voce, ma i pensieri erano ancora liberi. E Clara, dentro quei pensieri, diventava ogni ora di più una ragione per resistere.
La notte era stata un vortice confuso di dolore, freddo e fatica. Barbara aveva resistito quanto poteva, ma alla fine il corpo aveva ceduto, abbandonandosi in una posizione innaturale, legata al palo, con la testa reclinata sul petto e i pensieri ormai frantumati dalla stanchezza.
Non sognava, non dormiva davvero. Fluttuava tra momenti di incoscienza e attimi di angoscia in cui la mente le riproponeva il volto di Clara, immobile, silenziosa, come uno specchio di se stessa. Ora capisco, pensava, ora sento cosa hai provato davvero.
Il mattino successivo fu brutale.
Passi pesanti sulle scale, la porta che si apriva e il fascio di luce che colpiva i suoi occhi chiusi. Non ebbe neppure il tempo di reagire. Lui era già su di lei, cominciando a scioglierla dal palo. Le corde cadevano a terra, ma non era libertà.
Appena il corpo di Barbara crollò sul pavimento, esausto e senza forze, il nastro tornò. Nessuna parola. Solo il suono secco del nastro adesivo che avvolgeva di nuovo i polsi, poi le caviglie, le cosce, e ancora i gomiti. Ogni movimento diventava impossibile.
Barbara sentiva solo il calore del suo stesso respiro intrappolato. La mente, stordita, cercava di restare lucida. Ma il corpo era a pezzi.
Fu sollevata come un fardello. Il suo volto urtò la spalla dell’uomo. E poi, il cambio d’ambiente. Fu scaricata in salotto. La luce era diversa. L’aria più secca e fresca, ma più calda.
Davanti a lei, una sedia. Al centro della stanza. Solitaria. Prevedibile. Ineluttabile.
Barbara era stesa sul tappeto, respirando a fatica, mentre il bavaglio la stringeva ancora come una morsa. Si rese conto solo allora che le corde erano tutte scomparse. Ora c’era solo nastro. Nastro grigio, lucido, serrato fino a toglierle il fiato.
Lui si chinò su di lei, con un sorriso gelido: «Buongiorno. Ti aspettavo sveglia, ma anche così va bene.»
Le mani ruvide la sollevarono e la posarono sulla sedia. La schiena premuta contro lo schienale, i fianchi ben centrati. E di nuovo il nastro.
Una, due, tre volte intorno al petto sopra e sotto il seno, alla vita, alle gambe. Fissava ogni parte del suo corpo al legno, senza fretta, come un rituale studiato. Le braccia già bloccate furono avvolte anche allo schienale per poi stringersi attorno alla vita. Caviglie legate alla base. Cosce immobilizzate e poi fissate con diversi giri alla seduta e altro nastro a collegare i polsi alle caviglie tirando molto e costringendola a inarcarsi per quanto possibile facendo risaltare il seno stretto tra giri di nastro strettissimi con il risultato che i bottoni della camicia cedettero alla pressione del suo seno esponendo il suo intimo nero alla vista dell’uomo.
Barbara sentiva ogni giro stringere sempre di più. Il respiro breve. Le gambe formicolanti. Il dolore tornava, ma era come ovattato. La mente era troppo concentrata su un solo pensiero.
Questa era Clara. Così l’aveva tenuta. Così lei aveva passato quei tre giorni.
E ora era il suo turno.
Lui si allontanò, si fermò a pochi passi, e la osservò. Annuì, come soddisfatto di un lavoro ben fatto.
Barbara non poteva muoversi. Ma dentro, non era ancora finita.
Il nastro era ovunque, liscio e compatto, senza nodi da sciogliere, senza margini. Il suo corpo era diventato parte della sedia, prigioniero in una struttura rigida da cui era impossibile liberarsi. Anche il tempo sembrava essersi incollato a lei: ogni ora si allungava, indistinta, lenta.
Le uniche cose libere erano i pensieri.
E proprio quelli si affollavano nella sua mente, mentre la luce calava lentamente dietro le finestre.
Clara. Terry. Elena.
Il pensiero tornava a loro 4 legate per giorni in quella cantina da quell’uomo, la loro prigionía, la sofferenza, l’umiliazione e gli inutili tentativi di slegarsi.
Se non erano riuscite insieme cominciava a pensare che da sola sarebbe stato impossibile.
Volti, nomi, respiri trattenuti.
anche loro erano state legate alla sedia sedia, pensava Barbara. avevano sentito lo stesso dolore ai polsi, ai gomiti, lo stesso formicolio che ora mi fa tremare le gambe e che rende le mani insensibili, inutilizzabili per tentare una fuga, lo stesso peso del silenzio.
Quando la porta si aprì di nuovo, fu già sera inoltrata.
L’uomo entrò con una scatola bianca in mano. Pizza. Il profumo la colpì con una violenza quasi beffarda. Il suo stomaco si contorse, affamato e ribelle.
Lui si sedette di fronte a lei, si servì per primo, e solo dopo aver mangiato un paio di fette si alzò, le si avvicinò e con calma le tolse la pallina di gomma dalla bocca. Barbara gemette, ma era più un sospiro di sollievo che altro. La mandibola dolorante rimase aperta per qualche secondo, come se non sapesse più richiudersi.
Poi lui le avvicinò una bottiglia.
«Bevi, o svieni», disse con tono quasi casuale.
Barbara bevvein maniera avida. L’acqua le scese lungo la gola come un torrente, bagnandole il mento, la camicia, il petto colandole tra i seni. Ma non si fermò. Anche se tossiva, anche se il liquido colava dappertutto. Quando l’uomo si fermò, lei riprese fiato con affanno, gli occhi lucidi.
Poi lui prese una fetta di pizza e la avvicinò alle sue labbra.
Barbara esitò, poi morse. E masticò lentamente. Il sapore era reale, concreto, eppure sembrava lontano. Come se stesse mangiando in sogno.
Quando finì, lo guardò negli occhi e con le lacrime che le scendevano rovinandole il trucco disse.
«Ti prego…», disse con voce fioca. «Basta. Non chiamerò la polizia. Non dirò nulla. Se vuoi soldi… posso darteli.»
La sua voce era sincera. Ma anche calcolata. Sperava. Temeva.
Lui rise. Non disse nulla. Prese la pallina da dove l’aveva lasciata e, senza fretta, gliela rimise in bocca. Stringendo dietro la nuca come sempre. Non oppose resistenza, tanto era inutile. Poi, con la solita freddezza, si voltò.
«Buonanotte, Barbara.»
La luce si spense.
E Barbara rimase lì.
Legata. Immobile. A fissare il vuoto davanti a sé. Ma dentro, nella mente, non era sola. Terry, Clara, Elena. Le sentiva accanto, come presenze invisibili. Immaginava i loro sussurri, i pensieri che forse avevano avuto nelle notti passate in quella cantina.
Barbara era crollata nel sonno.
La notte l’aveva consumata, e il corpo, ormai sfinito, si era arreso. Le ultime ore di buio erano passate in un dormiveglia inquieto, fatto di incubi frammentati e pensieri aggrovigliati.
Il mattino seguente, il suono secco del nastro che veniva strappato dal rotolo la svegliò.
L’uomo era di nuovo lì.
Le tolse il nastro dal petto, dalla seduta e dal collegamento alle caviglie, la sollevò dalla sedia con uno sforzo calcolato e la posò a terra, sempre mezza legata. Poi, con freddezza, riprese ad avvolgerla. Aggiungendo nastro intorno ai polsi. Ai gomiti. Alle caviglie. Barbara non reagiva più. Gli occhi fissi davanti a sé, la mente svuotata. Non c’era più speranza nel movimento, eppure dentro di lei un piccolo fuoco, fioco ma presente, continuava a bruciare.
Lui concluse stringendole le gambe contro le braccia, incaprettandola con strati di nastro che le bloccavano ogni angolo di libertà. Poi, senza una parola, uscì sbattendo la porta. Il silenzio tornò a dominare la casa.
Passarono ore.
Barbara non sapeva più quanto tempo fosse trascorso. Il corpo le faceva male ovunque, il respiro era faticoso, il viso poggiato per terra per cercare un po’ di sollievo da quella posizione crudele, la saliva che continuava a uscire copiosa da dietro il bavaglio le colava lungo il mento creando una pozza di saliva sotto il suo viso segnato dalla fatica e dalle lacrime, e la mente, pur stanca, continuava a vagare. Finché, d’improvviso, il rumore della serratura.
Un brivido. È tornato?
Ma no. I passi erano diversi. Leggeri, incerti, con un rumore di tacchi. Poi una voce.
«Barbara? Ci sei?»
Era Elena.
Barbara cercò di emettere un suono, di muoversi. Con tutte le forze che gli erano rimaste in corpo emise un mugolio più forte che poteva. Quel poco bastò.
«Oddio… Barbara!»
Elena si precipitò nel salotto e rimase paralizzata dalla scena. L’amica era lì, a terra, come un pacco umano. Il corpo serrato da decine di strati di nastro grigio, il volto rigato dalle lacrime e dalla fatica, gli occhi spalancati. Era legata in modo così complesso che a un primo sguardo sembrava impossibile capire da dove cominciare.
«Mio Dio… aspetta… aspetta!»
Elena corse in cucina, aprì ogni cassetto fino a trovare un paio di forbici da cucina. Tornò da Barbara e iniziò a tagliare con decisione, ma con mani tremanti.
«Chi ti ha fatto questo…? Come?»
Il nastro era ovunque. Ogni taglio era un piccolo trionfo, ma anche una fatica. Elena dovette cambiare angolo più volte, sfilare strati su strati. Barbara cominciava a gemere piano, la tensione finalmente cominciava a sciogliersi.
Polsi. Poi caviglie. I gomiti. Poi il petto.
Ogni parte liberata sembrava ridare un frammento di umanità a Barbara, che respirava a fatica, ma con crescente lucidità.
A fatica Elena riuscì a sciogliere il bavaglio permettendogli di togliere la pallina di bocca
Alla fine, quando anche l’ultima fascia fu tagliata, Barbara crollò sul fianco, libera, ma senza forze. Elena le si inginocchiò accanto, le prese il viso tra le mani.
«Ci sei… ci sei ancora, Barbara… Sei salva.»
Barbara annuì, un cenno appena visibile. Ma dentro di lei, sapeva che non era finita. L’uomo era ancora là fuori.
E Clara, Terry, Elena… ora tutte erano in pericolo.
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