Elena (ombre nella nebbia)
di
Terry bondage
genere
bondage
Elena sentiva ancora tra le dita la ruvidità del nastro adesivo mentre guidava verso casa. Le mani tremavano appena, ma teneva lo sguardo fisso sulla strada. Aveva lasciato Barbara in lacrime, scioccata ma salva, con la polizia che la circondava di domande e rassicurazioni. Lei però, non riusciva a staccare la mente da quell'immagine: il corpo dell’amica legato con precisione maniacale, con quel nastro grigio che aveva già visto. Sì, l’aveva già visto. Durante quell’altra notte. Quella che nessuna di loro quattro avrebbe mai potuto dimenticare.
Clara, Terry, Barbara e lei. Quattro donne qualunque, quattro amiche unite da una serata che era iniziata come un gioco e finita in un incubo. Il sequestro, le mani legate dietro la schiena, le bocche tappate, la paura che colava fredda lungo la schiena. E ora, era ricominciato. Elena ne era certa: era lui che le stava sequestrando una alla volta.
Il venerdì sera arrivò con un silenzio pesante. Elena chiuse bene tutte le finestre. Bloccò le serrature, accese tutte le luci. Provò a distrarsi con un film, ma il cuore non voleva saperne di rallentare. Ogni piccolo rumore le faceva girare la testa. Poi, un colpo secco alla porta.
Si gelò. Nessuno le aveva detto che sarebbe passato. Nessun messaggio. Nessuna visita prevista.
«Chi è?» chiese con voce incerta.
Silenzio.
Fece un passo indietro, poi un altro.
Poi aprì. Era lui…. . Elena urlò, cercò di correre, ma lui era già su di lei. Una figura alta, incappucciata, ma i suoi occhi… quegli occhi… li riconobbe. Era lui.
Cadde a terra, si dimenò, ma l’uomo la bloccò con una forza che non sembrava umana. Prese il solito nastro grigio. Lo srotolò con calma. La legò, stretta. Più di quanto ricordasse. I polsi dietro la schiena, diversi giri attorno al busto sopra e sotto il seno stringendo in una morsa che le limitava il respiro, diversi giri attorno i gomiti, stretti sempre più stretti fino a farli toccare.
Emise un gemito di protesta ma non fece in tempo a finire che si trovo in bocca una palla di gomma con una cinghia che si strinse dietro la nuca fortissimo.
le gambe unite, le cosce sopra e sotto il ginocchio e le caviglie strette e incrociate.
Anche la pianta del piede fu legata co il nastro che passava tra i tacchi per non permetterle di sfilarsi le scarpe.
«Hai parlato troppo, Elena» sussurrò lui, a pochi centimetri dal suo viso. «Ora sarà tutto come prima. Anzi, peggio.»
Poi il buio calò. E la paura tornò ad abitare il suo respiro.
Il pavimento è freddo sotto di lei, ma ciò che le brucia davvero è la tensione delle legature. Il nastro le morde i polsi, ogni piccolo movimento è inutile e doloroso. Il petto si solleva a fatica mentre cerca di respirare attraverso il bavaglio che le riempie la bocca, troppo stretto, troppo opprimente. Mugola, un suono soffocato e disperato, sperando forse che lui si impietosisca… ma lo sente dietro di sé, sul divano.
Il crepitio della sigaretta, il profumo acre del fumo che le punge il naso. Lui la guarda, lo sente. E quello sguardo pesa più di qualsiasi legatura. La fa sentire vulnerabile, esposta. Le palpebre tremano, il cuore batte forte nel petto. Pensa se qualcuno la stia cercando. Se questo sia solo l’inizio o la fine. Si sforza di non piangere, perché le lacrime, adesso, le sembrano una resa.
Eppure, non smette di cercare una via d’uscita. Ogni respiro è una prova di resistenza. Ogni secondo che passa, un grido silenzioso che si accumula.
Elena sente i suoi passi avvicinarsi. Il rumore degli stivali sul pavimento è lento, pesante, come una minaccia che prende forma. Lei si irrigidisce, il cuore che batte come un tamburo impazzito nelle orecchie. Poi, il fruscio di una corda. La vede con la coda dell’occhio mentre lui si inginocchia dietro di lei.
Le dita del rapitore sono fredde e precise, come quelle di chi ha fatto questo molte volte. Afferra i suoi polsi già stretti dal nastro, li solleva di qualche centimetro e li unisce brutalmente alle caviglie tirando fortissimo. Inizia a legare, nodo dopo nodo, tirando la corda con una forza impietosa. Diversi giri a fare toccare i polsi alle caviglie e poi altri giri che la avvolgono sopra il seno tirandola ancora verso le caviglie. Elena geme nel bavaglio, un suono soffocato, angosciato. Il suo corpo si inarca lentamente, tirato all’indietro in una posizione innaturale, dolorosa, come un arco teso fino al limite.
In pratica resta appoggiata con la pancia, ne petto ne gambe toccano a terra, una posizione crudele ed estrema.
Ogni fibra muscolare urla. Ogni respiro è una lama.
Poi lui si ferma. La guarda.
Un sorriso storto gli si apre sul volto, quasi divertito dal dolore che ha creato. La osserva come un artista ammira la propria opera contorta. Fa un passo indietro, prende un’altra boccata dalla sigaretta quasi spenta, poi ride piano — una risata secca, gelida.
«Ora sì che stai bene,» mormora, quasi con affetto crudele.
E se ne va.
Purtroppo non posso restare questo weekend ho altri impegni, ma tranquilla che lunedì qualcuno non vedendoti verrà a liberarti.
Il terrore la assalì.
L uomo la voleva lasciare lì legata sola per tre giorni senza ne bere né mangiare?
Era terrorizzata e si dimeno con tutte le forze che aveva in corpo ma lui non si voltò e prese la porta.
La porta si chiude dietro di lui con un tonfo sordo, lasciandola sola. In silenzio. Solo il battito del suo cuore che seguiva il ticchettio delle lancette dell’orologio sul muro e il dolore pulsante in ogni giuntura a farle compagnia.
Ma dentro di lei, sotto quella tensione brutale, qualcosa si accende. Una scintilla. Questo non è il finale.
Non può esserlo.
Il silenzio dopo la risata del rapitore è assordante. Elena resta sola, il respiro spezzato dal bavaglio, i muscoli in fiamme per quella posizione forzata. Ogni tentativo di muoversi è una fitta, ogni sforzo una tortura. Ma non può fermarsi. Non vuole.
Inizia a dimenarsi, piano all’inizio, cercando di capire dove la corda cede, dove il nastro potrebbe essere logorato dal sudore, dallo sfregamento. Tira i polsi verso l’esterno, cerca di ruotarli, scivolare, ma la tensione è troppa. Il nastro plastico le scava nella pelle. I denti premono contro la palla di gomma del bavaglio. Mugola ancora, senza più sapere se è frustrazione o paura. Si contorce, una, due, dieci volte. I crampi iniziano a farsi strada, soprattutto alle gambe tese, alle braccia arcuate dietro la schiena.
Il tempo passa, lento e crudele.
Le lacrime le rigano il viso segnando il trucco senza che se ne accorga. L’aria è pesante, sa di polvere, fumo e sudore. L’adrenalina si consuma come una candela. Alla fine, esausta, le palpebre le calano. Non si arrende, ma il corpo sì.
Scivola in un dormiveglia strano, frammentato. E lì sogna.
Sogna di essere libera, di correre su un prato al sole. I capelli al vento, il viso bagnato dalla luce. Sente i muscoli distendersi, il petto aprirsi in un respiro pieno. Libera. Ride, persino. Una risata pulita, incredula.
Ma poi si muove, anche solo nel sogno. E quel movimento sveglia il dolore. Il corpo si piega contro la corda, il nastro taglia ancora di più. L’illusione svanisce come fumo. Riapre gli occhi con uno scatto muto, la bocca ancora piena, le mani serrate, la schiena tesa.
Il mondo reale è peggio del sogno.
È sola. Legata. Nessuno la sentirà.
Nessuno verrà.
Non prima di lunedì.
E oggi è solo venerdì.
Sabato.
Il giorno filtra dalle tapparelle con una luce fredda e indifferente. Elena apre gli occhi con fatica. Non sa che ore siano. Potrebbero essere le sette del mattino o mezzogiorno, poco importa: il tempo, in quella prigione silenziosa, ha smesso di valere.
Il corpo è un campo di battaglia. Ogni muscolo è rigido, gonfio, dolente. La posizione arcuata imposta dalla legatura le ha tolto sensibilità alle dita, le caviglie pulsano i piedi chiusi nella morsa delle scarpe gli fanno male. Ha sete, fame, e la testa le gira.
Ogni tanto scivola di nuovo nel dormiveglia, il confine tra sogno e realtà si fa labile. Rivede le amiche sedute al tavolo in un bar il profumo del caffè. Un abbraccio. Una corsa sulla spiaggia. Libertà. Poi si sveglia di colpo, le mascelle doloranti per aver stretto i denti contro il bavaglio nel sonno.
Pensa di gridare. Forse qualcuno la sentirà, un vicino, un passante. Ma sa che le pareti sono spesse, e il rumore del traffico lontano non le lascia speranze. Eppure, quando le forze lo permettono, prova. Tira l’aria nei polmoni e urla, ma il suono è ovattato, strozzato dalla palla che le riempie la bocca. Solo un mugolio rauco, spezzato, che le graffia la gola.
Frustrata, rabbiosa, inizia a lottare di nuovo.
Ruota i polsi, flette le dita intorpidite, cerca di contorcersi, di sfregare i legami contro uno spigolo, qualsiasi cosa. In un momento di disperazione, riesce a rotolare di qualche centimetro, colpendo una gamba del tavolo. Il dolore la ferma un istante, ma poi capisce: lo spigolo è ruvido.
Una possibilità.
Inizia a sfregare il nastro con movimenti brevi, dolorosi. Non sa se funziona, ma il semplice atto di fare qualcosa la tiene viva. Continua a lottare fino a quando le forze non la abbandonano di nuovo.
Sprofonda in un sonno pieno di sogni che sembrano messaggi spezzati: una finestra aperta, il suono di un cellulare che squilla lontano, qualcuno che chiama il suo nome.
Ma non sa che non è del tutto sola.
Nel condominio, un'anziana signora al piano di sopra ha notato che l’appartamento è rimasto silenzioso da troppo tempo. Nessun rumore, nessuna porta che si apre. Nessuna Elena che scende a prendere il giornale il sabato mattina, come fa sempre.
Nel frattempo, il suo telefono — lasciato a vibrare in un cassetto — riceve un messaggio dopo l’altro. Uno in particolare si distingue: “Ehi, ci sei? Io sono tornata a casa, sto bene, questo week end starò in casa a riposare aspettando che i segni delle corde spariscano, ci vediamo lunedì per colazione” era Barbara…… la sua amica che aveva liberato il weekend prima.
E mentre il sole cala su un sabato che sembra eterno, là fuori, piccoli pezzi iniziano a muoversi.
Qualcuno potrebbe iniziare a farsi delle domande.
Domenica.
Il tempo è diventato un’ombra. Elena non sa più se è mattina o pomeriggio. Solo il cambiamento della luce oltre le tende le fa intuire che un altro giorno è passato. Il terzo.
Il corpo è una mappa di dolori. I crampi sono diventati costanti, come un fuoco lento sotto la pelle. Le articolazioni gridano. La bocca, ancora serrata dal bavaglio, è secca. Le labbra tagliate. Ogni movimento è una punizione, eppure continua a provarci. Per istinto, per rabbia, per disperazione.
E mentre giace lì, legata, il pensiero corre a Clara e Barbara.
Anche loro. Anche loro erano state trovate legate, distrutte, svuotate. Le voci che giravano parlavano di sparizioni brevi, inspiegabili. Avevano pianto molto, dopo. Avevano detto poco.
Elena ora capisce tutto.
Si sente come loro. Forse peggio: sola, dimenticata, legata da giorni, come un oggetto. Le lacrime le bagnano il viso senza sosta. Non piange più come prima, adesso è un pianto nervoso, tremante, che vibra nel petto insieme ai singhiozzi. E mentre piange, ricomincia a dimenarsi. Non per scappare, non per rabbia, ma perché il corpo ha bisogno di muoversi, di sentire qualcosa.
E succede qualcosa di strano. Inaspettato.
Nel contorcersi, nello sfregarsi contro le corde e il nastro, i nervi confusi iniziano a inviare segnali contraddittori. Il dolore si mescola al calore. Le fibre muscolari tese, la pelle ipersensibile, ogni piccolo contatto diventa più intenso. Un'onda lenta, improvvisa. L'orgasmo la coglie senza preavviso, un’esplosione intrappolata che attraversa tutto il corpo, forzata dal contesto, deformata dalla posizione, ma reale.
E in mezzo allo shock, qualcosa nella sua mente si incrina.
Per un momento — breve, colpevole, confuso — non le dispiace essere lì.
Non capisce se è il corpo che ha reagito da solo, se è la mente che cerca rifugio nel piacere per non impazzire, o se è solo il segno che qualcosa dentro di lei si è rotto. Ma una nuova consapevolezza inizia a crescere. Una voce sussurrata nella mente che dice: Non sei solo vittima. Sei qualcosa di diverso, ora. Qualcosa che comprende il potere dell’impotenza.
Resta lì, esausta, respirando forte attraverso il naso. Le lacrime si sono fermate. Il corpo è distrutto, sì, ma anche vivo. Ancora vivo.
E nel silenzio della domenica sera…
…qualcuno bussa alla porta.
Marco il vicino.
Ha trovato strano il silenzio. Sta chiedendo in giro. Domande semplici. Ma giuste.
E l’anziana signora al piano di sopra? Non riesce a togliersi quella sensazione dallo stomaco.
“C’è qualcosa che non va nell’appartamento di Elena.”
Fuori dalla sua prigione, le crepe iniziano ad aprirsi.
La notte.
L’ultima.
Ancora dormiveglia. Ancora sogni spezzati. Il corpo non ne può più, ma continua a rispondere, come se la tensione estrema avesse aperto una nuova soglia. Tra le fitte e i tremori, il piacere riaffiora. Inaspettato. Confuso un altro orgasmo. Come un riflesso del trauma, o una reazione disperata della carne che non vuole morire. Più di uno, come scosse involontarie che la attraversano e la lasciano tremante, stremata, in lacrime.
Ma poi arriva lunedì mattina.
E con esso, qualcosa cambia.
Il rumore delle chiavi nella toppa non è quello del rapitore. Non ha quel passo. È diverso. Concitato. Poi una voce. Due. Tre.
«Elena!?»
Terry. Clara. Barbara.
Lo hanno capito. Il telefono che squillava a vuoto. Il silenzio sospetto. Hanno messo insieme i pezzi, e sono andate a casa sua, forzando l’ingresso dopo aver bussato inutilmente. Quando aprono la porta e la vedono, resta un attimo di silenzio gelido.
La scena è devastante.
Elena è ancora lì, sul pavimento, il corpo spezzato in una posa innaturale, legata con il nastro e la corda, la pelle segnata, il viso pallido, gli occhi rossi. Una bambola dimenticata, svuotata, ma viva.
Barbara resta immobile, tremante. Clara si porta le mani alla bocca. Terry, con freddezza che non sapeva di avere, si china subito per iniziare a liberarla.
Le mani tremano. I nodi sono durissimi. Le unghie spezzate. Il nastro si attacca alla pelle. Ogni strappo fa gemere Elena, che ormai non riesce nemmeno più a mugolare. Le lacrime scorrono, ma non solo di dolore. Di sollievo. Di incredulità.
Finalmente libera, si accascia sul fianco, rantolando. Le ragazze le danno da bere a piccoli sorsi, le tamponano il viso, cercano di coprirla. Ma nessuna parola viene detta per lunghi minuti.
Poi Clara sussurra, con un filo di voce:
«È lui. Lo stesso. Ci ha prese quasi tutte.»
Terry annuisce, lo sguardo duro. È l’unica che non è stata toccata. Ancora.
Un silenzio pieno di paura cala nella stanza.
«Il prossimo weekend lo passiamo insieme,» dice. «Nessuna resta sola.»
Tutte concordano. Non è più solo una minaccia. È una guerra.
E il rapitore non ha finito.
Lunedì pomeriggio.
Le sirene arrivano tardi, ma arrivano. La polizia prende nota, scatta foto, fa domande. Elena è avvolta in una coperta, seduta sul divano. Ha lo sguardo vuoto, ma dentro di lei la mente corre veloce. Un’agente donna le parla con tatto, la invita a raccontare tutto, ma Elena non riesce ancora.
Non del tutto.
Più tardi, in ospedale, mentre le controllano i lividi e la reidratazione procede a goccia lenta, è con Terry che si apre. Le altre due stanno dormendo in sala d’attesa. Terry, accanto a lei, le tiene la mano. E a bassa voce, Elena inizia a parlare.
«C'è una cosa che non riesco a dire a loro. Ma a te sì.»
Terry la guarda senza interromperla.
«È successo qualcosa... mentre ero legata. Una cosa strana. Non lo capisco nemmeno io.»
Fa una pausa. Il cuore le batte forte. Si sente vulnerabile, esposta.
«A un certo punto… tra il dolore, la fame, il pianto… ho provato piacere. Non so perché. È stato... come se il mio corpo avesse deciso da solo. Un orgasmo. Uno. Poi altri. Non volevo. Ma è successo.»
Abbassa lo sguardo.
«E la cosa peggiore è che… in quel momento, una parte di me si è sentita viva. Come se tutto quel dolore mi avesse svuotata al punto che l’unica cosa rimasta fosse quella scintilla. E non mi è dispiaciuto. Mi fa schifo dirlo. Ma è la verità.»
Terry non la giudica. Stringe solo la mano più forte.
«Non sei sola. Il corpo reagisce anche sotto stress estremo. Non significa che volevi. Non significa che ti è piaciuto quello che lui ha fatto. Significa solo che sei viva. E che sei umana.»
Elena sente un nodo sciogliersi nel petto. Forse non tutto è perduto.
Intanto, l’indagine procede.
Le telecamere del quartiere offrono poco. Il rapitore è meticoloso. Ma i racconti incrociati di Clara, Barbara ed Elena iniziano a comporre un profilo: uomo solo, ordinato, metodico, che osserva per giorni prima di colpire. Le tiene solo per il weekend. Le lascia vive. Ma piegate.
Un detective inizia a collegare i puntini con altri casi mai risolti, in altre città. Forse c’è un nome. Forse no.
Ma Terry ha deciso.
Non aspetteranno il prossimo weekend per difendersi.
Saranno pronte.
Clara, Terry, Barbara e lei. Quattro donne qualunque, quattro amiche unite da una serata che era iniziata come un gioco e finita in un incubo. Il sequestro, le mani legate dietro la schiena, le bocche tappate, la paura che colava fredda lungo la schiena. E ora, era ricominciato. Elena ne era certa: era lui che le stava sequestrando una alla volta.
Il venerdì sera arrivò con un silenzio pesante. Elena chiuse bene tutte le finestre. Bloccò le serrature, accese tutte le luci. Provò a distrarsi con un film, ma il cuore non voleva saperne di rallentare. Ogni piccolo rumore le faceva girare la testa. Poi, un colpo secco alla porta.
Si gelò. Nessuno le aveva detto che sarebbe passato. Nessun messaggio. Nessuna visita prevista.
«Chi è?» chiese con voce incerta.
Silenzio.
Fece un passo indietro, poi un altro.
Poi aprì. Era lui…. . Elena urlò, cercò di correre, ma lui era già su di lei. Una figura alta, incappucciata, ma i suoi occhi… quegli occhi… li riconobbe. Era lui.
Cadde a terra, si dimenò, ma l’uomo la bloccò con una forza che non sembrava umana. Prese il solito nastro grigio. Lo srotolò con calma. La legò, stretta. Più di quanto ricordasse. I polsi dietro la schiena, diversi giri attorno al busto sopra e sotto il seno stringendo in una morsa che le limitava il respiro, diversi giri attorno i gomiti, stretti sempre più stretti fino a farli toccare.
Emise un gemito di protesta ma non fece in tempo a finire che si trovo in bocca una palla di gomma con una cinghia che si strinse dietro la nuca fortissimo.
le gambe unite, le cosce sopra e sotto il ginocchio e le caviglie strette e incrociate.
Anche la pianta del piede fu legata co il nastro che passava tra i tacchi per non permetterle di sfilarsi le scarpe.
«Hai parlato troppo, Elena» sussurrò lui, a pochi centimetri dal suo viso. «Ora sarà tutto come prima. Anzi, peggio.»
Poi il buio calò. E la paura tornò ad abitare il suo respiro.
Il pavimento è freddo sotto di lei, ma ciò che le brucia davvero è la tensione delle legature. Il nastro le morde i polsi, ogni piccolo movimento è inutile e doloroso. Il petto si solleva a fatica mentre cerca di respirare attraverso il bavaglio che le riempie la bocca, troppo stretto, troppo opprimente. Mugola, un suono soffocato e disperato, sperando forse che lui si impietosisca… ma lo sente dietro di sé, sul divano.
Il crepitio della sigaretta, il profumo acre del fumo che le punge il naso. Lui la guarda, lo sente. E quello sguardo pesa più di qualsiasi legatura. La fa sentire vulnerabile, esposta. Le palpebre tremano, il cuore batte forte nel petto. Pensa se qualcuno la stia cercando. Se questo sia solo l’inizio o la fine. Si sforza di non piangere, perché le lacrime, adesso, le sembrano una resa.
Eppure, non smette di cercare una via d’uscita. Ogni respiro è una prova di resistenza. Ogni secondo che passa, un grido silenzioso che si accumula.
Elena sente i suoi passi avvicinarsi. Il rumore degli stivali sul pavimento è lento, pesante, come una minaccia che prende forma. Lei si irrigidisce, il cuore che batte come un tamburo impazzito nelle orecchie. Poi, il fruscio di una corda. La vede con la coda dell’occhio mentre lui si inginocchia dietro di lei.
Le dita del rapitore sono fredde e precise, come quelle di chi ha fatto questo molte volte. Afferra i suoi polsi già stretti dal nastro, li solleva di qualche centimetro e li unisce brutalmente alle caviglie tirando fortissimo. Inizia a legare, nodo dopo nodo, tirando la corda con una forza impietosa. Diversi giri a fare toccare i polsi alle caviglie e poi altri giri che la avvolgono sopra il seno tirandola ancora verso le caviglie. Elena geme nel bavaglio, un suono soffocato, angosciato. Il suo corpo si inarca lentamente, tirato all’indietro in una posizione innaturale, dolorosa, come un arco teso fino al limite.
In pratica resta appoggiata con la pancia, ne petto ne gambe toccano a terra, una posizione crudele ed estrema.
Ogni fibra muscolare urla. Ogni respiro è una lama.
Poi lui si ferma. La guarda.
Un sorriso storto gli si apre sul volto, quasi divertito dal dolore che ha creato. La osserva come un artista ammira la propria opera contorta. Fa un passo indietro, prende un’altra boccata dalla sigaretta quasi spenta, poi ride piano — una risata secca, gelida.
«Ora sì che stai bene,» mormora, quasi con affetto crudele.
E se ne va.
Purtroppo non posso restare questo weekend ho altri impegni, ma tranquilla che lunedì qualcuno non vedendoti verrà a liberarti.
Il terrore la assalì.
L uomo la voleva lasciare lì legata sola per tre giorni senza ne bere né mangiare?
Era terrorizzata e si dimeno con tutte le forze che aveva in corpo ma lui non si voltò e prese la porta.
La porta si chiude dietro di lui con un tonfo sordo, lasciandola sola. In silenzio. Solo il battito del suo cuore che seguiva il ticchettio delle lancette dell’orologio sul muro e il dolore pulsante in ogni giuntura a farle compagnia.
Ma dentro di lei, sotto quella tensione brutale, qualcosa si accende. Una scintilla. Questo non è il finale.
Non può esserlo.
Il silenzio dopo la risata del rapitore è assordante. Elena resta sola, il respiro spezzato dal bavaglio, i muscoli in fiamme per quella posizione forzata. Ogni tentativo di muoversi è una fitta, ogni sforzo una tortura. Ma non può fermarsi. Non vuole.
Inizia a dimenarsi, piano all’inizio, cercando di capire dove la corda cede, dove il nastro potrebbe essere logorato dal sudore, dallo sfregamento. Tira i polsi verso l’esterno, cerca di ruotarli, scivolare, ma la tensione è troppa. Il nastro plastico le scava nella pelle. I denti premono contro la palla di gomma del bavaglio. Mugola ancora, senza più sapere se è frustrazione o paura. Si contorce, una, due, dieci volte. I crampi iniziano a farsi strada, soprattutto alle gambe tese, alle braccia arcuate dietro la schiena.
Il tempo passa, lento e crudele.
Le lacrime le rigano il viso segnando il trucco senza che se ne accorga. L’aria è pesante, sa di polvere, fumo e sudore. L’adrenalina si consuma come una candela. Alla fine, esausta, le palpebre le calano. Non si arrende, ma il corpo sì.
Scivola in un dormiveglia strano, frammentato. E lì sogna.
Sogna di essere libera, di correre su un prato al sole. I capelli al vento, il viso bagnato dalla luce. Sente i muscoli distendersi, il petto aprirsi in un respiro pieno. Libera. Ride, persino. Una risata pulita, incredula.
Ma poi si muove, anche solo nel sogno. E quel movimento sveglia il dolore. Il corpo si piega contro la corda, il nastro taglia ancora di più. L’illusione svanisce come fumo. Riapre gli occhi con uno scatto muto, la bocca ancora piena, le mani serrate, la schiena tesa.
Il mondo reale è peggio del sogno.
È sola. Legata. Nessuno la sentirà.
Nessuno verrà.
Non prima di lunedì.
E oggi è solo venerdì.
Sabato.
Il giorno filtra dalle tapparelle con una luce fredda e indifferente. Elena apre gli occhi con fatica. Non sa che ore siano. Potrebbero essere le sette del mattino o mezzogiorno, poco importa: il tempo, in quella prigione silenziosa, ha smesso di valere.
Il corpo è un campo di battaglia. Ogni muscolo è rigido, gonfio, dolente. La posizione arcuata imposta dalla legatura le ha tolto sensibilità alle dita, le caviglie pulsano i piedi chiusi nella morsa delle scarpe gli fanno male. Ha sete, fame, e la testa le gira.
Ogni tanto scivola di nuovo nel dormiveglia, il confine tra sogno e realtà si fa labile. Rivede le amiche sedute al tavolo in un bar il profumo del caffè. Un abbraccio. Una corsa sulla spiaggia. Libertà. Poi si sveglia di colpo, le mascelle doloranti per aver stretto i denti contro il bavaglio nel sonno.
Pensa di gridare. Forse qualcuno la sentirà, un vicino, un passante. Ma sa che le pareti sono spesse, e il rumore del traffico lontano non le lascia speranze. Eppure, quando le forze lo permettono, prova. Tira l’aria nei polmoni e urla, ma il suono è ovattato, strozzato dalla palla che le riempie la bocca. Solo un mugolio rauco, spezzato, che le graffia la gola.
Frustrata, rabbiosa, inizia a lottare di nuovo.
Ruota i polsi, flette le dita intorpidite, cerca di contorcersi, di sfregare i legami contro uno spigolo, qualsiasi cosa. In un momento di disperazione, riesce a rotolare di qualche centimetro, colpendo una gamba del tavolo. Il dolore la ferma un istante, ma poi capisce: lo spigolo è ruvido.
Una possibilità.
Inizia a sfregare il nastro con movimenti brevi, dolorosi. Non sa se funziona, ma il semplice atto di fare qualcosa la tiene viva. Continua a lottare fino a quando le forze non la abbandonano di nuovo.
Sprofonda in un sonno pieno di sogni che sembrano messaggi spezzati: una finestra aperta, il suono di un cellulare che squilla lontano, qualcuno che chiama il suo nome.
Ma non sa che non è del tutto sola.
Nel condominio, un'anziana signora al piano di sopra ha notato che l’appartamento è rimasto silenzioso da troppo tempo. Nessun rumore, nessuna porta che si apre. Nessuna Elena che scende a prendere il giornale il sabato mattina, come fa sempre.
Nel frattempo, il suo telefono — lasciato a vibrare in un cassetto — riceve un messaggio dopo l’altro. Uno in particolare si distingue: “Ehi, ci sei? Io sono tornata a casa, sto bene, questo week end starò in casa a riposare aspettando che i segni delle corde spariscano, ci vediamo lunedì per colazione” era Barbara…… la sua amica che aveva liberato il weekend prima.
E mentre il sole cala su un sabato che sembra eterno, là fuori, piccoli pezzi iniziano a muoversi.
Qualcuno potrebbe iniziare a farsi delle domande.
Domenica.
Il tempo è diventato un’ombra. Elena non sa più se è mattina o pomeriggio. Solo il cambiamento della luce oltre le tende le fa intuire che un altro giorno è passato. Il terzo.
Il corpo è una mappa di dolori. I crampi sono diventati costanti, come un fuoco lento sotto la pelle. Le articolazioni gridano. La bocca, ancora serrata dal bavaglio, è secca. Le labbra tagliate. Ogni movimento è una punizione, eppure continua a provarci. Per istinto, per rabbia, per disperazione.
E mentre giace lì, legata, il pensiero corre a Clara e Barbara.
Anche loro. Anche loro erano state trovate legate, distrutte, svuotate. Le voci che giravano parlavano di sparizioni brevi, inspiegabili. Avevano pianto molto, dopo. Avevano detto poco.
Elena ora capisce tutto.
Si sente come loro. Forse peggio: sola, dimenticata, legata da giorni, come un oggetto. Le lacrime le bagnano il viso senza sosta. Non piange più come prima, adesso è un pianto nervoso, tremante, che vibra nel petto insieme ai singhiozzi. E mentre piange, ricomincia a dimenarsi. Non per scappare, non per rabbia, ma perché il corpo ha bisogno di muoversi, di sentire qualcosa.
E succede qualcosa di strano. Inaspettato.
Nel contorcersi, nello sfregarsi contro le corde e il nastro, i nervi confusi iniziano a inviare segnali contraddittori. Il dolore si mescola al calore. Le fibre muscolari tese, la pelle ipersensibile, ogni piccolo contatto diventa più intenso. Un'onda lenta, improvvisa. L'orgasmo la coglie senza preavviso, un’esplosione intrappolata che attraversa tutto il corpo, forzata dal contesto, deformata dalla posizione, ma reale.
E in mezzo allo shock, qualcosa nella sua mente si incrina.
Per un momento — breve, colpevole, confuso — non le dispiace essere lì.
Non capisce se è il corpo che ha reagito da solo, se è la mente che cerca rifugio nel piacere per non impazzire, o se è solo il segno che qualcosa dentro di lei si è rotto. Ma una nuova consapevolezza inizia a crescere. Una voce sussurrata nella mente che dice: Non sei solo vittima. Sei qualcosa di diverso, ora. Qualcosa che comprende il potere dell’impotenza.
Resta lì, esausta, respirando forte attraverso il naso. Le lacrime si sono fermate. Il corpo è distrutto, sì, ma anche vivo. Ancora vivo.
E nel silenzio della domenica sera…
…qualcuno bussa alla porta.
Marco il vicino.
Ha trovato strano il silenzio. Sta chiedendo in giro. Domande semplici. Ma giuste.
E l’anziana signora al piano di sopra? Non riesce a togliersi quella sensazione dallo stomaco.
“C’è qualcosa che non va nell’appartamento di Elena.”
Fuori dalla sua prigione, le crepe iniziano ad aprirsi.
La notte.
L’ultima.
Ancora dormiveglia. Ancora sogni spezzati. Il corpo non ne può più, ma continua a rispondere, come se la tensione estrema avesse aperto una nuova soglia. Tra le fitte e i tremori, il piacere riaffiora. Inaspettato. Confuso un altro orgasmo. Come un riflesso del trauma, o una reazione disperata della carne che non vuole morire. Più di uno, come scosse involontarie che la attraversano e la lasciano tremante, stremata, in lacrime.
Ma poi arriva lunedì mattina.
E con esso, qualcosa cambia.
Il rumore delle chiavi nella toppa non è quello del rapitore. Non ha quel passo. È diverso. Concitato. Poi una voce. Due. Tre.
«Elena!?»
Terry. Clara. Barbara.
Lo hanno capito. Il telefono che squillava a vuoto. Il silenzio sospetto. Hanno messo insieme i pezzi, e sono andate a casa sua, forzando l’ingresso dopo aver bussato inutilmente. Quando aprono la porta e la vedono, resta un attimo di silenzio gelido.
La scena è devastante.
Elena è ancora lì, sul pavimento, il corpo spezzato in una posa innaturale, legata con il nastro e la corda, la pelle segnata, il viso pallido, gli occhi rossi. Una bambola dimenticata, svuotata, ma viva.
Barbara resta immobile, tremante. Clara si porta le mani alla bocca. Terry, con freddezza che non sapeva di avere, si china subito per iniziare a liberarla.
Le mani tremano. I nodi sono durissimi. Le unghie spezzate. Il nastro si attacca alla pelle. Ogni strappo fa gemere Elena, che ormai non riesce nemmeno più a mugolare. Le lacrime scorrono, ma non solo di dolore. Di sollievo. Di incredulità.
Finalmente libera, si accascia sul fianco, rantolando. Le ragazze le danno da bere a piccoli sorsi, le tamponano il viso, cercano di coprirla. Ma nessuna parola viene detta per lunghi minuti.
Poi Clara sussurra, con un filo di voce:
«È lui. Lo stesso. Ci ha prese quasi tutte.»
Terry annuisce, lo sguardo duro. È l’unica che non è stata toccata. Ancora.
Un silenzio pieno di paura cala nella stanza.
«Il prossimo weekend lo passiamo insieme,» dice. «Nessuna resta sola.»
Tutte concordano. Non è più solo una minaccia. È una guerra.
E il rapitore non ha finito.
Lunedì pomeriggio.
Le sirene arrivano tardi, ma arrivano. La polizia prende nota, scatta foto, fa domande. Elena è avvolta in una coperta, seduta sul divano. Ha lo sguardo vuoto, ma dentro di lei la mente corre veloce. Un’agente donna le parla con tatto, la invita a raccontare tutto, ma Elena non riesce ancora.
Non del tutto.
Più tardi, in ospedale, mentre le controllano i lividi e la reidratazione procede a goccia lenta, è con Terry che si apre. Le altre due stanno dormendo in sala d’attesa. Terry, accanto a lei, le tiene la mano. E a bassa voce, Elena inizia a parlare.
«C'è una cosa che non riesco a dire a loro. Ma a te sì.»
Terry la guarda senza interromperla.
«È successo qualcosa... mentre ero legata. Una cosa strana. Non lo capisco nemmeno io.»
Fa una pausa. Il cuore le batte forte. Si sente vulnerabile, esposta.
«A un certo punto… tra il dolore, la fame, il pianto… ho provato piacere. Non so perché. È stato... come se il mio corpo avesse deciso da solo. Un orgasmo. Uno. Poi altri. Non volevo. Ma è successo.»
Abbassa lo sguardo.
«E la cosa peggiore è che… in quel momento, una parte di me si è sentita viva. Come se tutto quel dolore mi avesse svuotata al punto che l’unica cosa rimasta fosse quella scintilla. E non mi è dispiaciuto. Mi fa schifo dirlo. Ma è la verità.»
Terry non la giudica. Stringe solo la mano più forte.
«Non sei sola. Il corpo reagisce anche sotto stress estremo. Non significa che volevi. Non significa che ti è piaciuto quello che lui ha fatto. Significa solo che sei viva. E che sei umana.»
Elena sente un nodo sciogliersi nel petto. Forse non tutto è perduto.
Intanto, l’indagine procede.
Le telecamere del quartiere offrono poco. Il rapitore è meticoloso. Ma i racconti incrociati di Clara, Barbara ed Elena iniziano a comporre un profilo: uomo solo, ordinato, metodico, che osserva per giorni prima di colpire. Le tiene solo per il weekend. Le lascia vive. Ma piegate.
Un detective inizia a collegare i puntini con altri casi mai risolti, in altre città. Forse c’è un nome. Forse no.
Ma Terry ha deciso.
Non aspetteranno il prossimo weekend per difendersi.
Saranno pronte.
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