Zio Francesco

di
genere
incesti

Racconto di fantasia.

Mi chiamo Sara 24 anni. Mio zio, Francesco, fratello di mia madre, di 39 anni, è uno di quegli uomini che non passano inosservati, anche quando fingono di volerlo. Alto, prestante, elegante in modo quasi disinvolto, con quello sguardo ironico e un po’ sfuggente che faceva girare la testa a molte. Eppure, per quanto si lasciasse corteggiare, sembrava non appartenere mai a nessuna. Le donne lo volevano, e lui sapeva come tenerle sospese tra illusione e piacere.
Io lo osservavo da sempre con la curiosità tipica di chi cerca di capire cosa renda una persona così magnetica. Che cos’aveva Francesco che gli altri non avevano? Non era solo una questione di bellezza. Era un insieme: la voce bassa e ferma, i gesti precisi, la leggerezza con cui riusciva a rendere tutto interessante. Era il mistero che lo circondava a renderlo irresistibile, ma soprattutto libero da vincoli. Dal punto di vista sessuale conduceva una intensa attività e a volte riusciva a condurne anche due contemporaneamente, così come avvenne qualche anno fà, quando organizzò una viaggio in Grecia con due delle sue donne . Ma torniamo a noi.
Era consuetudine il venerdì, dopo essere uscita da scuola, passare da lui, in attesa che passassero i miei genitori a prendermi per riportarmi a casa. Lui mi accoglieva sempre con la solita gentilezza e poi mi lasciava libera di girare per casa, leggere, ascoltare musica… o sedermi al suo computer per passare il tempo.
Quel giorno, mi sedetti alla scrivania come sempre. Il computer era già acceso – cosa insolita per lui, così metodico – ma il monitor era spento. Lo riattivai, pensando si fosse semplicemente dimenticato di chiuderlo. E fu lì che la realtà prese una piega inaspettata.
Sul desktop, una finestra era ancora aperta. Una cartella, dal nome vago, quasi innocuo. Eppure bastò un solo clic per aprire un mondo che non mi apparteneva… e che proprio per questo mi affascinò profondamente. Conteneva foto e video che lo rappresentavano. Decine di immagini, forse centinaia. Ogni scatto sembrava raccontare una storia diversa. C’erano donne sorridenti, alcune in abiti eleganti, altre in pose più intime, vulnerabili, ma mai volgari. Video dal contenuto prettamente hard, passionali e coinvolgenti che egli conduceva con le sue donne. Sembravano tutte amate, in qualche modo. Ogni fotogramma era un frammento di una vita sessuale vissuta con intensità – e tutte avevano una cosa in comune: Francesco.
C’era qualcosa di profondamente intimo in tutto quello, non solo per ciò che si vedeva, ma per ciò che si materializzava. Un legame, un’intimità che non aveva bisogno di spiegazioni.
Mi resi conto di non riuscire a distogliere lo sguardo dal monitor. Era come se stessi spiando qualcosa di proibito… e insieme, come se stessi finalmente comprendendo ciò che lo rendeva così desiderato. Francesco non “usava” le donne. Le viveva. Le ammirava. Le possedeva. Le faceva sentire uniche, forse anche solo per un istante.
Potei osservare per la prima volta mio zio nudo. Restai impressionata dai suoi notevoli attributi, ben dotato. Credo di essere rimasta ammirata da tanta bontà, e video dopo video non mi rendevo conto di cosa mi succedeva intorno.

Ed ecco all’improvviso, sull’uscio della porta, comparve zio Francesco, il cuore mi balzò in gola. Mi aveva colta in flagrante. La cartella ancora aperta, le immagini che raccontavano di lui – della sua intimità – erano lì, ancora impresse sul monitor. Spensi lo schermo d’istinto, le mani lievemente tremanti, e mi voltai verso di lui.
«Scusa, io… non volevo… il computer era già acceso e…» cercai di spiegare, la voce che si incrinava appena. «Non stavo cercando nulla. È comparso tutto da solo, davvero.»
Non so se mi abbia creduto. Non so nemmeno se tutto quello non fosse, in fondo, una trappola elegante – il monitor lasciato spento, la cartella aperta per caso. Forse era un caso, o forse no. Ma in quel momento, io mi sentivo spogliata, colpevole della mia curiosità. Come se avessi invaso qualcosa di sacro.
Francesco non disse nulla per un attimo. Mi guardava con quel viso tirato, serio, che non ero abituata a vedere in lui. Poi, con voce piatta ma gentile, disse soltanto:
«Tranquilla. Non è successo niente.»
Eppure, dentro me, lo sapevo: era successo qualcosa. Da quel giorno, iniziai a guardare mio zio con occhi diversi.
La sua immagine, impressa su quel monitor, mi perseguitavano. Non era solo il suo corpo, pur bello, curato, virile, ma il modo in cui stava con quelle donne. La sicurezza, la dolcezza decisa con cui le toccava, il rispetto che si leggeva nei dettagli. La passione che traspariva, mai urlata, ma intensa. Era l’uomo che molte desideravano. E io non facevo più eccezione. Mi bastava sentirlo passare dietro di me, sfiorare il mio corpo, o ricevere uno dei suoi abbracci leggeri, quelli che prima prendevo come affetto familiare, e che ora mi mandavano in tilt i sensi, per sentirmi in subbuglio. Anche lui sembrava cambiato. C’era qualcosa di diverso nel suo sguardo. Mi osservava con più attenzione, come se mi stesse studiando, lentamente. Come se, dopo quella scoperta imprevista, mi vedesse non più come “la nipote di sempre”, ma come una donna, una presenza da considerare, forse da conquistare.
Zio Francesco restava se stesso: gentile, affettuoso, disponibile. Ma i suoi gesti avevano assunto una sfumatura che non potevo ignorare. Il modo in cui mi sorrideva, come trattenendo qualcosa. Tutto sembrava diventato… più carico. Più denso. E io? Io non riuscivo a dormire la notte. La mente affollata di immagini, di pensieri che mi toglievano il respiro. Lo desideravo. Lo volevo tra le mie braccia, addosso, dentro la mia pelle. Desideravo il suo sguardo, le sue mani, la sua voce che pronunciasse il mio nome « Valeria ti desidero!» con quella intensità riservata alle sue muse. E intanto mi mordo leggermente un lato delle labbra, chiudo gli occhi, emetto un profondo respiro. Cerco di allontanare la mente, ma la mia mano inizia a sfiorare il mio seno, sento i capezzoli inturgidirsi, e le mie dita, inconsapevolmente, cercano tra le mie gambe un piacere nascosto. Sento le mutandine in pizzo bagnarsi, mi accarezzo attraverso queste con le gambe ancora chiuse. Basta, non riesco più ad aspettare, la mano si fa spazio sotto gli slip, le gambe si allargano. Sento la mia pelle calda e bagnata. Il dito si muove su e giù avvolto dalle mie grandi labbra, fino ad arrivare al clitoride. Il mio bacino si muove su e giù e un ondata di calore mi sta per pervade. Un orgasmo diverso, quasi reale.

Avevo sempre avuto una certa dimestichezza con Photoshop. La grafica era la mia passione, il mio rifugio creativo. E quella sera, mossa da un impulso che nemmeno io sapevo spiegare del tutto, mi ritrovai davanti al computer, e così per gioco scaricai alcune foto porno dalla rete, e con movimenti precisi, quasi ipnotici, cancellai i loro volti e li sostituii con i nostri. Non fu solo un gioco. Era come se stessi dando vita a un sogno. Il risultato mi lasciò senza fiato: io e zio Francesco, insieme, incastonati l'un all'altro in in unico amplesso, come fa una vera coppia nella loro intimità. Sembrava reale, incredibilmente autentico. Era inquietante... è nello stesso tempo bellissimo.
Da quel momento divenne una sorta di ossessione. Lo confesso: non riuscivo a smettere di guardare i miei capolavori. La mente correva, il cuore pure. Forse era follia. Ma era anche desiderio, speranza, fantasia. E così, spinta da un misto di entusiasmo e incoscienza, una sera gli inviai alcuni do queste foto elaborate su WhatsApp. Non scrissi molto, solo alcune parole, cariche di tutto quello che non avevo mai avuto il coraggio di dirgli:
«Come sarebbe bello se.... »
E poi… silenzio.
Ogni secondo che passava era una tortura. L’ansia si faceva largo come un’onda scura nello stomaco. E se mi avesse presa per pazza? O peggio, se avesse capito tutto, e mi avesse rifiutata con freddezza? Dopo mezz’ora, lunghissima ed eterna, il suo messaggio arrivò.
«Vediamoci venerdì sera. Dobbiamo parlare.»
Il cuore mi si fermò per un istante. Due possibilità. Una fredda ramanzina, o… qualcosa di completamente diverso. Il venerdì si avvicinava, e con lui cresceva la tensione. Provai a calmarmi con una tisana, ma le mani tremavano lo stesso. Scelsi con cura cosa indossare, volevo che mi vedesse diversa, più attraente, più sicura, più donna. Puntai su un look che potesse parlare per me, che raccontasse tutto ciò che ancora non avevo avuto il coraggio di dire ad alta voce.
Arrivai a casa sua con qualche ora d’anticipo. Volevo tempo, tempo per respirare, per pensare. Per prepararmi, anche se la verità era che non si è mai davvero pronti, quando ci si gioca con i sentimenti.

Suonai il campanello con un brivido che mi percorreva la schiena. Era come se il solo tocco sul citofono avesse liberato un’energia elettrica nel mio corpo. Il cuore batteva all’impazzata, le labbra leggermente dischiuse, e le gambe… le gambe avvertivano un calore che saliva piano, insinuante. La porta si aprì. Zio Francesco era lì. Bello. Maturo. Vestito in modo semplice, ma con quella presenza maschile che faceva sembrare ogni dettaglio sul suo corpo pensato per sedurre.
«Ciao. Entra pure.» La sua voce, profonda e pacata, mi attraversò il ventre. Lo seguii, quasi in trance, fino al salotto. L’aroma del caffè mescolato al suo profumo mi fece girare la testa. Si accomodò, indicandomi il divano accanto a lui. Le sue ginocchia sfiorarono le mie quando mi sedetti. Un contatto breve, eppure il mio respiro si spezzò. «Come va? Sei tesa?» mi chiese, inclinando appena il capo per guardarmi negli occhi. «Abbastanza, zio…» sussurrai, le labbra vicine alle sue più di quanto avrei dovuto.
Lui restò in silenzio, osservandomi. Era come se cercasse di leggermi dentro, e io… io non volevo più nascondermi.
«Allora vogliamo affrontare l’argomento? Cos’è che ti turba? Perché mi hai mandato quelle foto? Sono molto forti, capisci?»
Deglutii. Le immagini inviate pochi giorni prima, in un impulso folle, carico di desiderio, mi tornarono alla mente.
«Non riesco più a vederti solo come il mio zio…» dissi piano, con voce rotta ma decisa. «È come se stessi cercando un uomo. Un uomo vero. Qualcuno capace di farmi sentire… viva.»
Lui strinse le labbra, come se volesse trattenere qualcosa. O forse tutto.
«C’entra quello che hai visto sul mio pc?» chiese.
«Certo, ha influito molto.»

Quelle immagini proibite, scoperte per caso, mi avevano acceso dentro un fuoco che non riuscivo più a spegnere. Lo avevo visto sotto una nuova luce. Non più solo come l’uomo maturo, lo zio premuroso, il confidente sicuro. Ma un uomo, con desideri, fantasie.
«Da quel momento ho capito cosa cercavo. E l’ho visto in te.»
«Non mi dire che ti sei innamorata di me…?»
«Forse sì. Forse è solo attrazione. Ma è intensa. E reale. Non riesco a guardare nessun altro.»
Zio Francesco mi fissò. I suoi occhi erano fermi sui miei, ma poi scesero lentamente sul mio viso, sulla mia bocca. E da lì sul mio petto che si alzava e abbassava, irrequieto, appena contenuto da quella camicetta leggera che avevo scelto non a caso.
«Me ne sono accorto…» mormorò. La voce leggermente più roca.
«E allora… ti piaccio?» chiesi, mentre la mia mano sfiorava con finta distrazione il suo braccio. Si voltò di lato. Respirò profondamente.
«Non dovrei risponderti. Sei bellissima. Lo sai. Ma sei anche la figlia di mia sorella. E questo cambia tutto.»
E fu lì che mi parlò, a lungo. Con dolcezza, ma anche con fermezza. Mi disse che avevo bisogno di vivere la mia età, con i miei coetanei. Che quello che cercavo in lui era forse un’illusione. Una proiezione di qualcosa che mi mancava. Mentre parlava, lo ascoltavo… ma dentro di me, ogni parola che usciva dalla sua bocca era come una mano che si ritraeva dal mio corpo. Ogni frase razionale era una carezza che non arrivava.
Io non avevo dubbi. Il mio desiderio era reale. Lui era reale. Il calore tra le mie gambe era vero. Il bisogno di sentire la sua pelle sulla mia… più urgente di qualsiasi consiglio saggio.
Mi ero immaginata che mi avrebbe presa tra le braccia. Che mi avrebbe spinta dolcemente contro di sé, esplorando il mio corpo con dita esperte. Che mi avrebbe fatto scoprire quella parte di me ancora inesplorata, con pazienza, con passione.
Ma non accadde. Mi alzai, cercando di non far trapelare la delusione che mi stava divorando. Avevo mostrato tutto. Mi ero messa a nudo, e lui… mi aveva respinta. Con rispetto. Con delicatezza. Ma pur sempre respinta.
Feci un passo verso la porta. Poi un altro. E quando la mia mano sfiorò la maniglia, lui disse soltanto:
«Spero tu non me ne voglia.»
Mi voltai. Lo guardai. Gli sorrisi. Ma fu un sorriso amaro.
La notte, però, non finì lì. Nella mia mente, nel mio corpo, la sua voce e il suo profumo rimasero vivi. Lo volevo. Lo volevo con una forza che non riuscivo più a nascondere, nemmeno a me stessa. L’idea che lui potesse sfuggirmi, che non mi vedesse davvero, mi rodeva dentro come una fame che non si placa. Non potevo più accettare quella distanza emotiva, quella sua indifferenza travestita da gentilezza.

Dovevo trovare un modo. Dovevo avvicinarmi. Dovevo fargli sentire che c’ero, che ero lì per lui. L’estate, come un alleato inatteso, si affacciò con il suo calore pigro e promettente. Le vacanze erano all’orizzonte e accadde l’imprevisto. Lo zio Francesco non aveva ancora trovato la compagna con cui condividere le vacanze. In un impeto che oscillava tra l’audacia e la disperazione, buttai lì la proposta, come se fosse uno scherzo: «Beh, se proprio non trovi nessuno… potrei venire io.»

Lui mi guardò con quel suo sorriso obliquo, carico di ironia e sottintesi.
«Sai che non voglio limitazioni. Ho bisogno di muovermi libero.»

Ma prima che potessi trovare una risposta spiritosa, fu mia madre a intervenire, cogliendo l’occasione con una leggerezza quasi teatrale, che mi spiazzò completamente:
«Dai Francesco… per una volta accontentala. Non ti darà fastidio.»

Dentro di me rise una parte che non sapevo nemmeno di avere. Sapevo che non avrebbe mai detto di sì. E invece, qualche giorno dopo, in un messaggio secco e diretto, accettò.
Disse solo:
«Formentera, si parte tra tre settimane. Preparati.»

Avevo il cuore che batteva come una tamburo. La mente era un turbine: come avrei potuto sfruttare quei giorni per farmi notare? Per farmi desiderare?

Cominciai subito i preparativi. Più che la valigia, era il mio corpo a essere il campo di lavoro. Un’estetista, nuovi vestiti, piccoli dettagli scelti con cura… Volevo essere leggera, attraente, presente ma non invadente. Una presenza femminile che si fa sentire senza mai parlare troppo. Ogni giorno era un’eternità. Contavo le ore, immaginavo scenari, sognavo il suo sguardo posarsi su di me con un’intensità diversa. Non da zio, da uomo.

E poi arrivò il giorno. Valigie pronte. Zaini caricati. Cuore in tumulto. In macchina, l’aria profumava già di mare, di salsedine e possibilità. Destinazione: Formentera. Isola di vento, di pelle nuda al sole, di notti che si allungano tra corpi che si sfiorano sotto la luna. Avrei avuto giorni interi per stargli vicino. Per mostrargli chi sono. E chissà… forse anche per farlo capitolare.

Scesi dall’aereo con gli occhiali scuri e un sorriso che non riuscivo a nascondere. Non per la vacanza, non per l’isola… ma per lui. Zio Francesco camminava davanti a me, con lo zaino buttato su una spalla e quell’andatura distratta, quasi noncurante, come se il mondo gli appartenesse e lui avesse semplicemente deciso di concedergli un’occhiata.

Formentera ci accolse con il suo profumo d’estate selvaggia: sabbia, mirto, vento caldo.
Prendemmo un traghetto breve e poi un taxi fino all’albergo, una struttura immersa nel bianco accecante delle Baleari, a pochi passi dalla spiaggia.

Quando ci assegnarono le stanze, ebbi un tuffo al cuore. Gli appartamenti erano piccoli ma curate, pareti chiare, lenzuola leggere, un balconcino affacciato su un angolo di cielo e mare. Un ventilatore girava pigro sul soffitto, come in attesa che qualcosa, o qualcuno, accendesse l’atmosfera.

Non avevamo chiesto niente di particolare, ma il destino, aveva fatto il suo gioco. Un corridoio interno, una porta tra le due camere da letto. Bastava un tocco, una svolta di chiave, e lui sarebbe stato lì. A un respiro da me.

Zio Francesco si buttò sul letto con una naturalezza disarmante, lasciando intravedere la linea dei fianchi sotto la maglietta sollevata.
«Che ne dici di sistemarci in fretta e scendere a esplorare la spiaggia?»
Annuii, cercando di nascondere l’agitazione.
Il mio primo pensiero fu il costume. Ne avevo scelti tre, ma ce n’era uno in particolare: nero, semplice, con tagli strategici. Elegante, sensuale. Lo infilai lentamente, mentre il rumore della doccia nella stanza accanto mi scivolava sulla pelle come un’eco proibita.

Le giornate cominciarono a scorrere come in un sogno lento e salato.
Sveglia presto, caffè freddo sulla terrazza, occhiali da sole, risate leggere. Poi la spiaggia: ore sdraiati al sole, il suono delle onde come sottofondo alle nostre conversazioni, che a volte erano frivole, a volte cariche di sottintesi che sembravano sfiorarci senza toccarci davvero. Lui leggeva. Io lo guardavo. Fingendo di osservare l’orizzonte.
Ogni tanto si voltava, mi sorrideva, e io sentivo un calore crescermi sotto la pelle.

Le sere erano leggere, fatte di discoteca, lounge bar, ritrovo con amici conosciuti in loco, tra risate e drink. Ma poi veniva la notte… e ognuno tornava al proprio letto.
Era la regola, quella che avevamo fissato con apparente sicurezza: due stanze, due spazi. Niente fraintendimento.
Lui teneva alla sua indipendenza. Io, alla sua presenza.
Ma una notte una tempesta montò senza preavviso. Un lampo squarciò il cielo e la pioggia prese a battere furiosa, come dita impazienti contro i vetri. Il cuore mi batteva forte, ad ogni lampo sussultavo, non solo per la paura, ma per qualcosa che premeva dentro di me, un’urgenza che non voleva più essere ignorata. Volevo sentirmi al sicuro.
Sola nel mio letto, mi giravo e rigiravo, mi nascondevo sotto le lenzuola, ma l’istinto di sopravvivenza mi portò a cercare un porto sicuro.
A piedi nudi, con addosso solo una canotta corta, corsi velocemente nella stanza dello zio francesco. La pelle d’oca correva sulle gambe. Non bussai. La porta non era chiusa. Forse non lo era mai stata.
Zio Francesco era sveglio, sdraiato sul letto con le braccia dietro la testa, il torace nudo e lento nel respiro.
La luce dei fulmini ne scolpiva i lineamenti, e io… mi persi in quel corpo che avevo desiderato in silenzio troppe volte.
«Non riesco a dormire…» dissi piano. «Ho molta paura dei fulmini.»
Mi guardò. I suoi occhi si fecero improvvisamente morbidi, quasi teneri. Si spostò senza dire nulla, sollevando una parte del lenzuolo.
Mi infilai accanto a lui. Mi accostati a lui per cercare protezione.
Lui mi guardò. Uno sguardo lungo, carico. Non disse nulla.
Il suo calore mi avvolse subito. Era forte, vivo. Il suo odore, maschio, familiare, mi attaccai alla sua pelle come una sanguisuga.
Appoggiai la testa al suo petto e le mie dita, quasi per errore, toccarono la linea dei suoi fianchi. Istintivamente la mia gamba piegata e accovacciata sul suo bacino. Ora mi sentivo più sicura, l’energia che mi trasmetteva era davvero notevole. Mi accorsi che qualcosa si stava gonfiando all’ altezza del ginocchio. Era proprio adagiato sul suo pene che nel frattempo prendeva vita. Colsi l’occasione per effettuare piccoli movimenti per tastare la rigidità, quando improvvisamente avverti la sua mano adagiarsi sul ginocchio.

Ecco «Ora la sposterà», pensai.

Invece rimase lì come indecisa su cosa fare. Trattenne il respiro. Poi, lentamente, la fece scivolare lungo la gamba, in prossimità degli slip. Il tempo si fermò.
Sollevai lo sguardo per guardarlo.
I nostri occhi si trovarono nel buio, e in quel momento capimmo entrambi: era finita. L’attesa. Il contenimento. La distanza. Non c’era più spazio per fingere, per trattenersi.
Il bacio arrivò senza preavviso, pieno, profondo, desiderato da troppo tempo.
Fu un’esplosione contenuta: caldo, affamato, pieno di tutte le volte che avevamo finto di non volerlo.
Le sue mani mi cercarono con decisione, affondando sotto il tenero tessuto. Scivolarono lungo i fianchi, sulle cosce nude, salendo tra le mie gambe con una naturalezza che mi fece tremare.
Sospirai il suo nome, un filo di voce strozzato dal desiderio.
Mi lasciò sopra di lui, le mani forti a guidarmi.
La mia canotta scivolò via, come un velo inutile.
E i suoi occhi mi percorsero piano, come se volessero ricordare ogni centimetro di pelle.
Le sue labbra mi sfiorarono il collo, il seno, l’ombelico. Ogni bacio era lento, consapevole, come se sapesse che non c’era bisogno di fretta.
Io lo seguivo, cavalcavo il suo respiro, lo stringevo tra le cosce mentre i nostri corpi si cercavano, si prendevano, si fondevano. Entrò in me, con una dolce ferocia, come se mi volesse dentro la pelle, dentro il sangue. Mi muovevo su di lui con una lentezza istintiva, sensuale, dominando il ritmo, sentendo ogni scossa, ogni gemito trattenuto tra i denti.
Fu un atto di fame e tenerezza, di potere e resa.
Il temporale fuori urlava, come un’eco dei nostri corpi.
Ogni colpo di pioggia sembrava battere a tempo con i nostri movimenti, i nostri sospiri, le spinte, le carezze che non conoscevano più pudore.
Venimmo insieme, forti, profondi, con il cuore in gola e le mani aggrappate l’uno all’altro.
Il suo nome sulle mie labbra. Il mio respiro contro la sua pelle.
Quando tutto si placò, restammo nudi e intrecciati. Le sue dita scivolavano ancora lente lungo il mio corpo, come se non volesse smettere di sentirmi.

Fuori, la tempesta si era arresa.
Dentro, invece, qualcosa era appena iniziato.
E nessuno dei due, in quel letto condiviso, voleva più tornare indietro.
di
scritto il
2025-07-19
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