Francesca: il gioco della seduzione - capitolo primo

di
genere
esibizionismo

Quella di Francesca non era una vita semplice, né tantomeno facile, sempre presa dal tran-tran quotidiano, al punto da non potersi permettere alcuna distrazione al difuori del tragitto casa-lavoro lavoro-casa. Anche quel giorno, uno dei tanti di quella sua vita monotona e tediosa, era in ritardo con la tabella di marcia. Fu così che, accomodato un morbido asciugamani bianco per contenere la miriade di lunghi capelli bagnati, ancora nuda dopo aver fatto la doccia, si diresse lesta verso la camera da letto per scegliere i vestiti da abbinare sotto il camice. Quello della farmacista era un lavoro che la appassionava molto, il lavoro per cui aveva passato anni e anni sopra i libri, ma che non le permetteva di poter avere una vita sociale soddisfacente. Non si possono creare delle amicizie solide da dietro il bacone di una farmacia: innanzitutto perché di solito si ha a che fare con gente che ti vede solo come una semplice rivenditrice di farmaci, e poi perché si passa tutto il tempo accanto a colleghi di gran lunga più in là con gli anni di te e con cui, nonostante il profondo rapporto di stima, sei sicura di non poterci uscire insieme.
Era in ritardo, lo abbiamo già detto, ma si trattenne lo stesso un momento ad osservarsi nel lungo specchio dell’armadio, godendosi quell’unico, fugace momento di civetteria che gli ricordava ancora di essere una donna. E che donna!
I suoi grossi occhi scuri studiavano con cura le dolci curve del viso, allungandosi pian piano giù per il collo e le spalle. Osservò nel dettaglio come la dolce linea dei suoi fianchi, dapprima si incurvasse morbidamente a formare il florido seno e poi si allargasse leggermente lungo i fianchi, a definire il profilo del culetto. Col fisico asciutto e ben proporzionato che si ritrovava non avrebbe faticato di certo a trovare un fidanzato, ma per quanti anni ancora avrebbe potuto far affidamento sulla sua bellezza?
Infilò un anonimo slip bianco, a vita bassa, e si diresse nuovamente in bagno per completare la sua opera di trucco e parrucco. Sapeva benissimo che, anche se fosse andata a lavoro struccata, nessuno lo avrebbe notato. O forse sì? Di solito si truccava solo per dare un tono serio e professionale a quella faccetta da ragazzina acqua e sapone; è difficile passare per una scaltra scienziata con il viso di una quindicenne; ma col tempo anche quel semplice gesto quotidiano aveva cominciato a perdere senso. Era più un’abitudine. Impiegò quasi mezz’ora per finire, di cui venti minuti buoni solo per tracciare una linea d’eyeliner accettabile che non la facesse assomigliare ad un panda o a un quadro di Picasso. Indossata una camicetta di seta bianca sul reggiseno a balconcino e un paio di pantaloni color caffè, poté inforcare le decolté di pelle beige, dal tacco basso, ancora comode anche dopo otto ore dietro un bancone, e di gran lunga preferibili a quelle orribili ciabatte bianche da infermiera gettonatissime tra i suoi colleghi.

Era già pronta ad uscire di casa quando qualcuno la fece trasalire bussando al vetro della porta-finestra della camera da letto, cosa non così eccezionale se non fosse che l’appartamento in questione si trovava al nono piano di un edificio di dodici. Il sorriso sornione di un operaio fece capolino da dietro il vetro mentre l’uomo continuava a muovere la mano in segno di saluto. Cazzo! Si era proprio dimenticata che quel giorno sarebbero cominciati i lavori di rifacimento della facciata. Il suo era uno dei pochi stabili ad essere riuscito ad approfittare delle agevolazioni del 110%, l’assemblea condominiale aveva insistito per aggiungerci anche il bonus facciate e i lavori sarebbero dovuti cominciare proprio quel giorno. Chissà da quanto tempo era lì… E che cosa avrà visto? Quelle domande cominciarono a vorticare frenetiche nella sua testa, facendole fischiare le orecchie. Perché non si era ancora decisa a mettere quelle dannate tende? E dire che sua madre le aveva comprate con tanto Amore. Imbarazzata come non mai, ricambiò il saluto dell’uomo. Era lì da tanto? Da quanto? L’aveva vista nuda?
Sentì le gote avvampare come tizzoni ardenti. Che cosa aveva visto? Le aveva visto le… le aveva visto le tette? – Un pensiero la fulminò all’istante – poteva aver visto anche… - Francesca deglutì a fatica – poteva aver visto anche il boschetto?
Quel pensiero le strappò un singulto. Immediata fu la risposta della sua micina che, stimolata da quell’immagine, cominciò a inumidirsi di caldi umori. Il cuore le batteva all’impazzata mentre l’uomo, sornione continuava a salutarla. Aveva l’aria di uno che la sapeva lunga.
Fulminea Francesca sgusciò via dall’appartamento, più per sottrarsi allo sguardo indiscreto di quel tipo che per recarsi a lavoro. Durante il viaggio in autobus, che era riuscita a prendere al volo, non fece altro che rimuginare sulla cosa; avvampando dalla vergogna, questo è vero, ma continuando inspiegabilmente a bagnarsi. Quel giorno, per la prima volta, qualcuno aveva violato la sua intimità, guardandola mentre completamente nuda si preparava per andare a lavoro; e lei, nel rendersene conto, ne restò turbata. Piacevolmente turbata.
Per tutto il giorno Francesca non fece altro che pensarci su. Serviva i clienti della farmacia con fare distratto, tornando irrimediabilmente con la mente a quell’incontro fugace e inaspettato e a come l’avesse spaventata e allo stesso tempo eccitata. Che cosa le stava accadendo? Non si riconosceva più. Per la miseria quell’anonimo paio di mutandine bianche era completamente fradicio! Davvero si era bagnata all’ipotesi che qualcuno, un perfetto sconosciuto, avesse potuto vederla nuda? Ma che cosa aveva in testa? Il cuore continuava a battere all’impazzata. Doveva calmarsi, doveva darsi un contegno. Porca puttana era pur sempre una dottoressa! Di una cosa era sicura però: avrebbe voluto rifarlo. Uno strano bagliore le balenò negli occhi: per quel giorno la storia finiva lì, all’ora prevista per il suo rientro a casa, la squadra di operai non c’era più, ma domani…
Francesca scacciò quel pensiero come se fosse stato un tafano fastidioso, ma nulla poté contro il lago formatosi nelle sue mutandine; forse era davvero giunta l’ora di togliersele.
Ma si sentiva? Davvero era disposta a togliersi le mutandine e restare con solo i pantaloni. Immediatamente pensò a che sensazione le avrebbe dato il contatto della stoffa con la sua parte più intima, e la cosa la mandò in visibilio.
Si trattenne, non era ancora giunto il momento. Il proprietario la strappò da quei pensieri per rivolgere l’attenzione su di un farmaco in giacenza di cui si era perso traccia. Lavorare, ancora una volta, sopì ogni desiderio.

Come previsto rientrò a casa all’imbrunire. Dell’eccitazione di quella mattina non restava che una specie di trance di cui non si era liberata del tutto. Inutile: qualcosa dentro di lei era cambiato per sempre, un angolo sopito della sua coscienza era stato risvegliato ed ora avrebbe dovuto farci i conti.

A svegliarla, il giorno dopo, ci pesò direttamente il rumore degli operai al lavoro, eppure, nonostante il brusco risveglio, un pacato senso di beatitudine si fece strada dentro di lei nel momento stesso in cui aprì gli occhi e si stiracchiò. Nulla era rimasto di quello strano senso di eccitazione del giorno prima, o almeno così le parve. Non curante degli spettatori alle finestre, si diresse in cucina per far colazione. La differenza di temperatura da dentro a fuori dal letto le fece immediatamente indurire i capezzoli. Ma era davvero solo per quello? Indossava uno dei suoi soliti pigiamini di maglina, quello giallo pastello, nulla di così estroso insomma da poter richiamare l’attenzione su di lei. Nel tragitto incontrò il suo riflesso nello specchio della cappottiera: i suoi capezzoli svettavano maestosi nascosti solo dalla sottile stoffa del pigiama. Avrebbe dovuto indossare un reggiseno. Avrebbe dovuto, ma non l’avrebbe fatto; che diamine quella era pur sempre casa sua! E poteva decidere di girovagarci nel modo che riteneva più opportuno, senza doversi preoccupare di eventuali spettatori; anche perché, da quella distanza lì, sarebbe stato alquanto difficile notare l’esile profilo dei suoi capezzoli. Dopotutto non aveva certo a che fare con Superman e la sua vista telescopica! Decise perciò che anche quel dì si sarebbe comportata con naturalezza, non lasciando la minima possibilità a quella storia degli operai e delle tende di modificare la sua routine. Fece quindi colazione come sempre, con una buona tazza di caffellatte e qualche fetta biscottata spalmata di marmellata. Terminata la colazione si diresse direttamente in bagno per prepararsi. Quel giorno avrebbe dovuto lavorare solo il pomeriggio, e di solito approfittava della mattinata libera per dedicarsi alla pulizia della casa. Già: le pulizie…. Di solito vi si dedicava indossando una tenuta ginnica alquanto succinta, una canotta striminzita e degli shorts che poco lasciavano all’immaginazione. Era proprio il caso di restare in casa con una mise del genere? Ci stava ancora pensando quando dallo specchio si accorse che qualcuno, munito di casco antinfortunistico, aveva fatto capolino dalla finestra e la guardava.
– Cavolo sì! - si disse - Se proprio mi devono guardare che mi guardino pure, ma voglio divertirmi un po’ anch’io. Se quello era stato solo uno sguardo di sfuggita, adesso avrebbe dato a quell’operaio un valido motivo per restare imbambolato davanti alla finestra. Non aveva ancora ben chiaro cosa avrebbe fatto per attirare ancora di più l’attenzione su di sé; ma l’inventiva non le mancava di certo. Andò in camera sua per prendere dal cassetto dell’armadio la canotta e i sexy shorts abbinati, e tornò in bagno. Non aveva alcuna intenzione di bruciare le tappe, quello era un gioco da portare avanti molto, molto lentamente, ma doveva pur giocare’ e così, controllando dallo specchio che il suo ammiratore la stesse ancora guardando, si sfilò la maglia del pigiama, tenendo cura di mostrare al suo indomito spettatore solo la bianca pelle nuda della sua schiena. Francesca Sentì i capezzoli indurirsi come non mai. Reclamavano la loro dose di attenzione, la pretendevano, ma il gioco non era ancora finito. Indossata la canotta, era ora il turno dei pantaloncini; ma non appena sfilò quelli del pigiama, decise di cambiare programma e di restare con le sole mutandine blu. Se solo le avesse sfiorate, molto probabilmente, le avrebbe già trovate zuppe. La sua patatina non chiedeva altro che di essere sgrillettata per bene, ma poi tutto sarebbe finito lì. Invece a Francesca quel suo nuovo gioco di esibizionismo piaceva, eccome se le piaceva. Ne gustava con calma ogni attimo, presa da una libidine che sarebbe stato difficile spiegare razionalmente. Fu per questo che, con molta nonchalance, decise di avvicinarsi direttamente alla porta-finestra del balcone da cui il viso paonazzo dell’operaio continuava a fare capolino di tanto in tanto. Così, con addosso solo quella misera canotta e quel paio di slip semitrasparenti, Francesca, spinta più dal desiderio che dal coraggio, si sporse fuori dalla finestra per chiedere al suo acuto spettatore se gradisse del caffè, oppure una bella bottiglia di birra fredda. L’uomo sgranò gli occhi, forse non si aspettava che una ragazza come lei potesse essere così sfacciata ma, abbozzando imbarazzato un mezzo sorriso, ringraziò per la cortesia ed accettò il caffè.
Mentre il liquido nero risaliva lentamente le pareti della moka, Francesca sentiva lo sguardo dell’operaio percorrere ogni centimetro della sua pelle. Avrebbe potuto sottrarsi in qualsiasi istante a quella specie di radiografia, ma non ne aveva la minima intenzione.
Il tempo passava, inesorabile, mentre con i capezzoli duri come chiodini e fasciati dalla sola stoffa del top intraprendeva una conversazione alquanto imbarazzante con quell’uomo. Si fermò ad osservarlo meglio: non era un adone, né un modello di quelli delle pubblicità di Dolce e Gabbana. Era alto, questo e vero, ma quell’accenno di barba incolta gli donava un aspetto un po’ troppo rude e attempato. E forse era proprio questo ad intrigarla. La eccitava l’idea che un uomo del tutto comune, un tipo normale come quel povero operaio, sudasse freddo nel vederla così svestita e morisse di voglia ogni volta che, impunemente, si piegava sul tavolo per riporre zuccheriera, tazzine e cucchiaini. Avrebbe potuto spingersi ancor più in là, magari stuzzicarlo voltandosi e, dandogli una visione perfetta del suo sedere, piegarsi per prendere qualcosa da sotto il lavello… ma lì per lì non sapeva proprio quale scusa utilizzare. Avrebbe dovuto pensarci prima, studiare un piano, ma si disse che, semmai l’avesse fatto, se avesse davvero cominciato a ragionarci su, a quest’ora sarebbe di certo morta dalla vergogna. Ora, invece, sentiva l’eccitazione salire prorompentemente; farsi largo dentro di lei proprio come stava facendo il nero liquido profumato raccolto nel brico della macchinetta del caffè. Strinse forte le gambe, di lì a poco sarebbe impazzita. Dominando, per quel poco che poteva, i propri sensi versò il caldo nettare d’arabica nelle due tazzine. Sorseggiarono quel caffè in silenzio, lui sempre perduto nelle sue forme procaci, lei preoccupandosi di dare un tono alla sua vena esibizionista. Resistere era sempre più difficile. Ancora qualche momento e si sarebbe strappata lei stessa quelle mutandine di dosso e, afferrata la nuca di quell’operaio, l’avrebbe costretto a bere qualcosa di ben più dissetante di un innocente caffè. Oh sì che lo voleva. Voleva sentire quella lingua tra le sue labbra, le sue grandi labbra. La voleva sentire mentre titillava impunemente la sua clitoride, succhiava via ogni traccia della sua eccitazione. Avrebbe voluto morire su quella sua verga dura e nodosa che, come un bozzo, faceva capolino tra i jeans strappati, assaporare il sapore del nettare che inzuppava le sue gambe sulle labbra di lui. La sua mente vorticava su pensieri osceni, peccaminosi, pensieri dannatamente eccitanti. Già immaginava la sua lingua percorrere quella mazza marmorea sino al prepuzio, le sue labbra dischiudersi come in un bacio su quella fontana zampillante di desiderio. La sua bocca, ingorda, allargarsi oscenamente su quel palo di carne, finché un fiume di latte, un denso rivo di crema preziosa, non le avesse inondato la gola. Lo desiderava con ogni fibra del suo essere. Desiderava ingoiare fino all’ultima goccia di sperma uscito da quel cazzo. Mmm… al sol pensiero sentiva il fuoco farsi strada tra le gambe. Ma non ne ebbe il tempo: l’operaio, finito il caffè, ringraziò timidamente per l’ospitalità e ritornò al suo posto di lavoro. La lasciò così: sola, eccitata e del tutto inappagata.

Passarono un paio di giorni. Oramai Francesca non si riconosceva più: quel turbine erotico stava agendo su di lei più di quanto avesse immaginato. Ogni occasione, ogni pretesto, era buono per la sua mente per vagare indisturbata su pensieri tutt’altro che casti. Chiunque le girasse intorno, all’improvviso, diventava il venerabile oggetto dei suoi pensieri sconci. Francesca non era mai stata preda dei suoi sensi, si era sempre reputata una ragazza piuttosto seria, razionale; ma quel fremito in mezzo alle gambe la spingeva ad osare di più. Sempre di più. Era stata una stupida a non approfondire il discorso con quel muratore. Aveva giocato male. Sarebbe stato meglio non giocare affatto, ma non poteva più farne a meno. Doveva battere il ferro mentre è caldo, caldo ed eccitato. Ora non sapeva più come fare per rendere il gioco interessante, anche perché le appariva abbastanza sciocco ripetere le stesse mosse dell’ultima volta. No, adesso era pronta per qualcosa di nuovo, qualcosa di più audace; qualcosa di tremendamente più eccitante. Fu proprio così che una mattina, mentre come al solito si recava a lavoro in bus, una piccola fantasia malsana si fece strada in quella sua testolina furbetta. Sentì le mutandine bagnarsi all’istante, le guance avvampare di calore, mentre i suoi occhi, vogliosi, osservavano la scena deliziati. C’era sempre poca gente sul bus a quell’ora del mattino: un paio di ragazzini che facevano comunella sul fondo del mezzo, un paio di signore distinte che sicuramente si recavano in centro, e qualche vecchietto che lo prendeva per recarsi ai giardinetti. Di solito nessuno faceva caso a lei e la cosa non le dava alcun fastidio, ma adesso… adesso che il fremito dell’esibizionismo si era fatto strada dentro di lei, ora che quel tocco di lascivia aveva sfiorato le sue labbra, le sue grandi labbra, desiderava, agognava essere vista, bramata; ammirata. Un paio di volte aveva beccato uno di quei vecchietti indugiare con lo sguardo sul suo decolté e ne era rimasta infastidita, ma ora?
Come avrebbe reagito ora visto lo stato fisico in cui si trovava? Il calore fu tale che piccole gocce di sudore cominciarono ad imperlare quello stesso decolté che, così impunemente, oggi aveva appositamente lasciato abbastanza scoperto per essere ammirato attraverso la scollatura a V del maglioncino. Quanto avrebbe voluto che la vedessero adesso le sue tette, che la ammirassero, che affondassero i loro sguardi perversi tra le morbide forme peccaminose.
Indugiava ancora su quei pensieri quando giunse il momento di scendere. L’occasione era ghiotta, troppo ghiotta per non coglierla al volo. Senza pensarci troppo si slanciò verso uno dei pali di ferro su cui era posizionato il pulsante di richiesta della fermata e, nel farlo, finse di perdere l’equilibrio, spingendosi in avanti al punto da permettere al suo spolverino di restare completamente aperto. Donò ad uno di quei vecchietti, un anonimo nonnino dall’aria innocente, una intensa panoramica delle sue tette gonfie. Durò un attimo, il tempo di un sospiro, ma la cosa le provocò una scarica di adrenalina che la fece tremare di passione. Tempo di aprire le porte e i suoi tacchi già si muovevano già lesti ed agili sul marciapiedi di fronte alla farmacia. Qualche passo ancora e nessuno dei passeggeri avrebbe potuto più vederla, ne avrebbe visto il calore che incendiava le sue guance, e bagnava le sue gambe tremanti. Solo un uomo l’avrebbe seguita con lo sguardo, lo stesso che per poco non ebbe un infarto alla vista di quel seno florido e prosperoso. Invecchiare è una vera merda.

L’interno della farmacia sembrava ancora assorbito dalla sonnolenza della notte. Non c’erano che pochi avventori sparsi qua e là all’interno del negozio, ma se ne stavano già preoccupando le sue colleghe. Francesca si diresse direttamente nel retrobottega che, attraverso un piccolo corridoio, conduceva al magazzino, al laboratorio galenico, ai bagni, ed ad una specie di cappottiera dove si poteva indossare il camice in santa pace. Era proprio quello che si accingeva a fare, se non fosse che la sua micina reclamasse la sua dose di attenzione. Era certa che se solo si fosse sfiorata, le sue mutandine si sarebbero inzuppate ancor più di quanto già non fossero. Ma che fare? Non poteva certo lavorare in quello stato. Ci pensò su per un po’, non poteva certo mettersi a sgrillettarsi la passerina lì, nella cappottiera, rischiando di essere colta sul fatto da un momento all’altro. Oppure era proprio questo quello che voleva? Non si riconosceva più. Con quel minimo di raziocinio che le era rimasto, si infilò nel bagno e, chiusa la porta a chiave, non aspettò neppure un attimo per abbassarsi le mutandine e portare il suo dito indice a sfiorare la clitoride, trovandola gonfia e turgida. Per fortuna non indossava pantaloni quel giorno, o avrebbe bagnato anche quelli per come si era eccitata; era un lago. Le sue dita saettavano sulle grandi labbra, spingendosi a sfiorare anche l’altro buchetto. Ma voleva di più. Dopo aver alzato per bene la gonna rossa, si poggiò al freddo marmo del lavabo per dedicarsi per bene a quel focoso momento di piacere. Le sue dita esploravano tutti i meandri della sua vagina, donandole sensazioni che non era certa di aver provato neppure con l’ex. Ma forse era solo la situazione ad essere eccitante. Lei lì, sola, nel bagno di servizio della farmacia, intenta a strizzarsi i capezzoli attraverso la scollatura del maglioncino bianco e a sgrillettarsi la figa come se non ci fosse un domani… Non poteva ancora credere di riuscire a provare tanto appagamento da una situazione del genere. Ma cosa le stava orendendo? Era come se il timore di essere scoperta avesse reso tutto molto, molto più eccitante. Ad un certo punto arrivò a pensare che fosse un vero peccato che in quel bagno non ci fosse un foro nella parete come aveva visto in quei film di Pierino: il suo spettacolo sarebbe stato di gran lunga più interessante rispetto ad una semplice doccia. L’orgasmo era vicino, non mancava molto, ma qualcuno bussò alla porta.

– Francesca, tutto bene?
La voce era quella di Massimo, il figlio della titolare della farmacia; sembrava preoccupato.
- Siiiì – sbiascicò Francesca trattenendo a stento un gemito.

Immediatamente la maniglia della porta si mosse, ma Francesca ancor più lesta la bloccò spingendosi contro con tutto il suo peso
Fammi entrare! – disse l’uomo dall’altro lato - Non sembra proprio che tu stia bene!
Ma Francesca già non lo sentiva più. Il solo pensiero di essere trovata in quello stato dall’avvenente figlio della proprietaria le provocò un lungo e violento orgasmo. Con una mano tentava di tener chiusa la porta, con l’altra si trastullava impunemente la patatina, ma quell’orgasmo la strappò alla realtà, donandole un senso di beatitudine e appagamento che la sconquassarono tutta. Non si rese neppure conto di quanto tempo fosse passato mentre era rimasta in quella posizione: prona, con le gambe divaricate e le dita ancora immerse nei caldi umori della sua patatina.
- Francesca? Francesca tutto bene? Rispondimi! - il tono di Massimo era molto più preoccupato di quanto già non fosse.
- Sì Massimo; sto bene, arrivo subito!
- A me non sembra! – ripeté l’uomo - Ti ripeto: fammi entrare!
- Non ti permettere! – gli rispose lei decisa – Cos’è? Adesso non si può neanche andare in bagno in santa pace?
L’uomo si ammutolì imbarazzato. Balbettò qualche scusa e il suono dei suoi passi lasciò presto posto al silenzio. Francesca si diede un’occhiata. Quella situazione era degenerata in così poco tempo che aveva inzuppato del tutto le mutandine, si potevano strizzare. Un’idea le balenò in testa, ma avrebbe mai avuto il coraggio di fare una cosa del genere? Sarebbe stata all’altezza della situazione? Francesca non stette lì a pensarci poi molto e, dopo aver sfilato del tutto gli slip ed essersi data una ripulita al bel boschetto riccioluto, ripose per bene l’involto in una bustina di plastica che mise in borsa. Adesso c’era solo il sottile strato di stoffa della gonna a separare le sue parti più intime da occhi indiscreti, e la cosa, come potrete ben immaginare, la eccitava come non mai.
Infilato in tutta fretta il camice, che lasciò aperto, e data un’ultima sistemata al trucco e ai capelli, Francesca era finalmente fuori dal bagno; a tu per tu con Massimo e il suo grugno preoccupato.
- Come ti senti? - le chiese l’uomo impacciato
- mai sentita meglio! - rispose lei, assaporando una stuzzicante frescura in mezzo alle gambe. Se solo Massimo avesse saputo…
- Sicura di sentirti bene? – riprese l’uomo con sguardo sinceramente preoccupato
- se vuoi, puoi prenderti la giornata libera. Non fa bene lavorare quando non si è al cento per cento.
- Sto bene - riprese lei arrossendo. Che cosa aveva udito Massimo? Era stata davvero discreta come pensava o l’uomo aveva sentito un mugolio di troppo? L’aveva udita ansimare? La sua micetta riprese a bagnarsi.
- Meglio così. – riprese Massimo alzando le spalle – Raggiungi Alfredo sul retro – disse poi con tono più distaccato. – sono arrivate quattro casse di farmaci dal magazzino e devono ancora tutti essere censiti e conservati. Alfredo si è offerto volontario, ma è un semplice tirocinante, perciò marcalo stretto. Non vorrei trovare un altro colluttorio tra i galenici.
Francesca obbedì. Dopotutto lavorare sul retro, nelle sue “condizioni”, era la cosa migliore e poi le era già venuta un’altra mezza idea…

Alfredo era un ragazzotto paffuto, impacciato, che dimostrava a malapena diciott’anni nonostante ne avesse già venticinque. Sotto il camice indossava sempre la maglietta di una rock band, stavolta era toccato ai Metallica, e passava il tempo a canticchiare distratto qualche motivo dei Guns N’ Roses o dei Black Sabbath. Non appena la vide il suo volto butterato sprizzò gioia da tutti i pori.
- Frà, sei venuta qui ad aiutarmi?
- Sì, mi ha mandato qui Massimo. Sei già nella merda?
Il ragazzo accennò un sorriso forzato
- Fino all’orlo – sentenziò prima di lasciarsi cadere su uno sgabello in plastica che al contatto scricchiolò pericolosamente.
- Non preoccuparti, ci sono io qui con te. Che cos’è che non ti è chiaro ancora?
- Tutto – ammise sconfitto – C’è da impazzire con tutti questi nomi. E queste scatole… cambiano quasi ogni mese; non ce la faccio più! Non si fa in tempo a riconoscere un medicinale che l’azienda gli cambia la scatola!
- Mi sembri mia nonna – riprese Francesca, trattenendo a stento un risolino divertita. Suvvia non è poi così difficile. Basta prenderci la mano. Aspetta che ti faccio vedere.
Fu così che i due passarono più di un’ora abbondante a venire a capo di ogni farmaco giunto dal magazzino. Dopo averli censiti sul programma della Farmacia, che teneva conto di ogni scatola arrivato e “spedita”, si passava a riporre fisicamente ogni cosa al suo posto. Francesca si era così immersa nel suo lavoro da essersi quasi del tutto dimenticata della sua “situazione”. Lavorare le piaceva, che diamine aveva studiato anni per poterlo fare! E insegnare qualcosina ad Alfredo, così come Massimo aveva fatto con lei durante il suo periodo di tirocinio, la appagava infinitamente. Era stata una privilegiata a trovare lavoro proprio nella farmacia in cui aveva fatto il tirocinio. Molti dei suoi colleghi non erano stati così fortunati, anzi, si erano dovuti trasferire altrove, anche in un'altra regione, e facevano ancora fatica ad arrivare a fine mese.
La testa di Massimo fece capolino da dietro la porta.
-Caffè? – chiese con fare complice a lei e ad Alfredo. Il ragazzo rifiutò. Voleva approfittare della piccola pausa per fumarsi una sigaretta (lì in farmacia era assolutamente vietato), così la lasciò sola a far compagnia al figlio della proprietaria mentre sorseggiavano insieme un buon bicchierino di espresso fumante.
- Ah! Ci voleva proprio – disse Francesca stiracchiandosi su uno degli sgabelli su cui sia lei che il collega si erano seduti. Massimo ne approfittò per darle un’occhiata all’ombellico e al pancino da ballerina che faceva capolino da sotto al maglione, ma sempre in maniera discreta, se così si può dire.
- Allora? Ti senti meglio? – le chiese mentre gettava i bicchieri di plastica.
- Sì- gli rispose Francesca mentre lo vedeva giocherellare distrattamente con la fede dorata che portava all’anulare. Non c’era da credersi che un uomo tanto bello e affascinante era sposato con quell’arpia di Luana Santucci. Erano state compagne di corso, nonché di tirocinio, ma quella gatta morta era riuscita lì dove lei aveva miseramente fallito. E dire che tra lei e Massimo l’alchimia c’era eccome, ma Luana era stata più scaltra, più disinibita, e aveva subito colto la palla al balzo. Veniva di rado in farmacia. Di solito preferiva passare le sue giornate a fare la casalinga piuttosto che la farmacista. Francesca non avrebbe mai rinunciato al suo lavoro per stare a casa ad accudire i bambini; piuttosto una vita da single che, visti i turni estenuanti in farmacia, era proprio il futuro che le si prospettava d’innanzi.
- Oggi hai qualcosa di diverso… - si lasciò sfuggire Massimo mentre era ancora intento a guardarla – non so dire bene cosa… - riprese poi scrutandola con quelle sue iridi verdi, screziate di marrone, incastonate da un bel paio di folte sopracciglia rossicce. – ma ti dona.
Francesca arrossì. Quel giorno, per la prima volta, si sentì davvero nuda. Quello sguardo penetrante la intrigava, la confondeva, la mandava in visibilio. Non poteva negarlo: provava qualcosa per Massimo, ma a dispetto di tutto ciò, quell’uomo era sposato e il loro era un rapporto strettamente professionale.
- Grazie – gli rispose, abbozzando un sorriso sghembo mentre si metteva in piedi – e grazie anche per il caffè. Adesso e meglio che torni di la; quei medicinali non si metteranno a posto da soli. – Lo sguardo di Massimo si era attardato un attimo di troppo sulla porzione di gambe che faceva capolino da sotto la gonna rossa. Le sorrise impacciato, come un bambino colto con le mani nella marmellata, mettendosi in piedi anche lui. – A… a dopo – disse col volto paonazzo, mentre con gli occhi guadagnava la porta nel vano tentativo di darsi un contegno.
- A dopo… - riprese lei divertita. – Che strano- pensò poi – dei due sono io quella senza slip, ma ad avvampare di vergogna è stato lui.
Quel pensiero le strappò un altro sorriso mentre, distratta, tornava da Alfredo e al suo annoso problema con lo stoccaggio dei farmaci.
Quel turno in farmacia passò senza altri episodi strani, in maniera quasi monotona. Fu tornando a casa, però, che quella strana sensazione che l’aveva accompagnata per tutta la mattinata tornò a farsi strada dentro di lei. Fu proprio sullo stesso bus che aveva preso la mattina che Francesca si trovò a desiderare di esporsi ancora. Che strano… era rimasta senza mutandine per l’intero pomeriggio ma era come se se ne rendesse davvero conto solo adesso. Bastava uno spiffero, infatti, una brezza impetuosa e la sua gonna si sarebbe mossa, alzata, al punto da scoprire ben più di quanto le sue gambe toniche e lisce lasciassero intravedere sotto quello spolverino. Come mai era fatta così? Perché quel gioco tornava a distrarla proprio adesso? Aveva passato ore in compagnia di Alfredo senza provare la ben che minima pulsione, con Massimo… Beh con Massimo era tutta un’altra storia, ma adesso? Perché proprio adesso? Era come se quel luogo, quell’autobus affollato, la prendesse molto più di quanto non facesse l’ambiente controllato e familiare della farmacia. C’era un ragazzino seduto proprio difronte a lei. Doveva avere su per giù la stessa età di quelle pesti che ogni giorno prendevano il bus con lei al mattino. Era intento a giocherellare col suo smartphone e non l’aveva degnata neppure di uno sguardo. Francesca prese tutto questo come una sfida. Doveva ricevere la sua dose di attenzioni. Alfredo non la guardava per niente, Massimo lo faceva di sfuggita e sempre di sottecchi; lei era stanca. Voleva essere guardata. Voleva essere ammirata. Voleva essere desiderata.
Francesca si guardò intorno. Erano tutti al cellulare; troppo distratti da quel maledetto aggeggio per rendersi conto del mondo intorno a loro. Anche il ragazzetto non faceva eccezione. Doveva avere la sua attenzione. Ma come? Prese un vecchio specchietto dalla borsa. Con la scusa di darsi una sistemata ne approfittò per colpirlo negli occhi col riflesso dei neon. Il ragazzo la guardò distrattamente. Per pochi secondi avrebbe avuto la sua attenzione. Francesca fu presa da un raptus improvviso. Fingendo di far cadere lo specchietto ne approfittò per inginocchiarsi a recuperarlo, spalancando le cosce in modo a dir poco osceno. Lo sguardo inebetito del ragazzo parlava da sé. Francesca non si perse d’animo e, aprendo e chiudendo a più riprese le gambe, recuperò lesta lo specchietto e tornò a sedere. Il ragazzo la guardava stralunato, distogliendo lo sguardo da lei solo per guardarsi intorno. Aveva davvero visto bene? Era stata tutta un’allucinazione? Francesca non gli diede modo di chiederselo. Aprendo un’ultima volta le gambe fu subito in piedi e, di lì a poco, fuori dal bus. Il ragazzo non distolse lo sguardo da lei per tutto il tempo, poteva sentire i suoi occhi addosso come una seconda pelle. Il bus riprese presto la sua corsa verso le altre fermate, lasciando Francesca, il cuore che continuava a batteva all’impazzata, sola con i suoi pensieri. Quella sera, ne era sicura, quel perfetto sconosciuto le avrebbe dedicato una sega. Quella sera un ragazzo con cui non aveva neppure parlato avrebbe schizzato sborra calda al ricordo della sua figa bagnata. Doveva toccarsi.

Per consigli, osservazioni, o semplicemente per scambiare qualche parola con l’autore: Alexdna88@libero.it
scritto il
2023-02-25
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