Zazie - Cap. 7

Scritto da , il 2020-09-05, genere pulp

Quella doveva essere la trap. Enza ascoltò la voce un po' robotica dell'artista, le parole troncate, il ripetersi ossessivo di concetti chiave come "money", "cash", "weeda", "pusher" mescolati a intercalari come "fra", "yah", "nah" e capì che la musica proveniva dal suo giardino. Era buio e le luci erano tutte accese. Un brulicare di giovanissimi rendeva noto al vicinato che lì era in corso un party. Enza premette il pulsante che bloccava le portiere della Nissan Juke e inseriva l'antifurto. Le quattro frecce lanciarono un bagliore arancione e un breve segnale acustico confermò il recepimento del comando. La donna si avvicinò al cancelletto pedonale spalancato, fece qualche passo sul prato e curiosò in giro. Qualcuno ballava, qualcuno fumava, qualcuno beveva. I più intraprendenti ballavano, fumavano e bevevano contemporaneamente. Tutti ridevano.
«Mamma, che fai? ci spii?», Simonetta era sbucata dal nulla. «Cercate di non fare troppo casino», disse Enza. «Non preoccuparti. E poi i De Marchi non sono in casa, ricordi? Torneranno domani. Non disturbiamo nessuno». «Andateci piano con gli alcolici e non drogatevi». «E dai, mamma! perché non te ne vai di sopra a rilassarti un po'? Lasciaci festeggiare in pace il mio compleanno». «E va bene! Io vado a mettermi a letto. Mi raccomando...». «Sì, stai tranquilla. Ma Riccardino dov'è?». «Stanotte dormirà a casa del cuginetto. Zia Silvana domani mattina lo accompagnerà a scuola. Io andrò a riprenderlo al termine delle lezioni. A pranzo sarà nuovamente dei nostri». «Bene! Buonanotte, mamma». «Buonanotte. Divertiti, cara. E... auguri». «Grazie».
Enza percorse il tragitto che la separava dal portone, entrò nell'edificio e salì al secondo piano. Un bastoncino di incenso indiano spargeva una fragranza di cedro nel soggiorno. Enza si tolse le scarpe e iniziò a spogliarsi, ma si fermò nell'udire dei sospiri provenire dal salotto. Trattenne il fiato e rimase in ascolto. Concluse che degli intrusi stavano facendo sesso sul suo divano di angora. Non sapendo come comportarsi, restò lì impalata in preda allo stupore. Non si avvide che, nonostante le luci nell'appartamento fossero spente, il fascio di un lampione esterno colpiva la porta a vetri e rivelava la sua presenza nella stanza attigua. «Ehi, c'è qualcuno...». «Cercatevi un altro posto. Qua siamo già in troppi!». Enza non si mosse e non disse una parola. Il lampadario del salotto s'illuminò e un giovane scapigliato e barbuto si piazzò sulla soglia. Dietro di lui spuntarono altri tre ragazzetti. Due coppie che avevano deciso di appartarsi. «Salve, signora Enza», disse una biondina col piercing al naso. «La conosci?», fece il ragazzo barbuto. «Certo. È la madre di Simonetta». «E chi è Simonetta?». «Lascia perdere, Luca! Signora, ci scusi. Non avevamo intenzione di disturbarla. Volevamo solo starcene per i fatti nostri». «Okay. Nessun problema», disse la donna congiungendo i lembi della camicetta sbottonata, «Ho sentito dei rumori e mi sono spaventata». «Ci dispiace. Ce ne andiamo subito».
I ragazzi attraversarono il soggiorno e, scambiandosi risatine e spintoni, formarono una fila sulla scala scendendo verso la tavernetta, dov'era il nucleo della festa. Enza li accompagnò con lo sguardo, poi eseguì una rapida ricognizione nel salotto per valutare i danni subiti. A parte qualche birra rovesciata sui tappeti, sembrava tutto in ordine. Aprì le finestre per arieggiare. Evitò di calpestare le lattine di Guinness sparpagliate al suolo, rimandando le pulizie a un altro momento. Raggiunse il frigo. Bevve qualche sorso di latte direttamente dal cartone. Finì di spogliarsi e andò a mettersi sotto la doccia. Il vapore invase la stanza da bagno e opacizzò lo specchio, tanto che la donna non poté vedere la propria immagine riflessa mentre si spalmava la crema idratante. Al suo posto c'era una macchia dai contorni umani, un fantasma intrappolato in una dimensione di acqua e vetro. Enza si lavò i denti. Indossò le mutandine e un pigiama elasticizzato che le disegnava i fianchi e il sedere. Una volta in camera da letto, dopo aver concluso i riti che sancivano la fine della giornata, si gettò sul materasso. Prese lo smartphone e, al buio, elargì qualche like spostandosi con agilità tra i social network. Il baccano della festa la infastidiva. I ragazzi erano alticci e su di giri. Sbuffando, Enza si alzò e, per precauzione, chiuse a chiave la porta. Collegò il cellulare alla presa elettrica per ricaricare la batteria, accese la TV e tornò a sdraiarsi.
I notiziari della notte riproponevano stralci dell'Angelus del papa. Per Enza la preghiera e la meditazione furono più potenti di qualsiasi sonnifero. Dopo pochi minuti, infatti, cedette a un sonno leggero e agitato. Si rigirava tra le lenzuola con la fronte aggrottata come in preda a brutti pensieri. Dal balcone continuava a entrare l'allegria rumorosa degli amici di Simonetta. A un tratto, dal basso partì anche un assordante coro di auguri. Enza emise un grugnito, ma non si svegliò. Stava stesa su un fianco, in posizione fetale, quando sobbalzò spalancando gli occhi. Qualcuno aveva bussato alla porta o, almeno, così le era parso. Si mise seduta e tese le orecchie. «Enza», chiamò una voce femminile. E di nuovo le nocche di qualcuno picchiarono contro il legno insistentemente. «Enza», ripeté la voce. «Chi è?», fece la donna ancora insonnolita. «Enza, apri. Sono io, Francesca». «Francesca?», mormorò Enza saltando giù dal letto. Aprì la porta e la ragazza le sventolò sotto al naso una confezione da quattro di lattine di birra. «Mica stavi dormendo?». Enza non rispose e si scansò per lasciar passare l'inattesa visitatrice, che si stravaccò sulla poltrona, proprio sopra i vestiti che l'altra aveva piegato con cura prima di coricarsi. «Festeggiamo?» disse Francesca strappando la linguetta a una lattina. «Non sono molto in vena», ribatté Enza richiudendo la porta dopo aver dato un'occhiata al corridoio deserto. «Dovresti trovarti giù con gli altri, invece», incalzò l'altra, «Sanno come divertirsi quelli, devo ammetterlo!». Enza accese l'abat-jour sul comodino e si sistemò sul letto a gambe incrociate. «Stavo guardando la TV», disse passandosi le dita fra i capelli e indicando col mento lo schermo sul quale campeggiava il volto di Donald Trump, «e devo essermi assopita». «Cristo! sembri mia nonna! Almeno bevi con me», propose la ragazza trangugiando alcune sorsate di birra. «Non mi va, te l'ho detto». «Ma che hai? sei strana». «Sono solo un po' stanca». «È per l'appuntamento di domani?». «Che appuntamento?». «Quello con l'avvocato di Frate Marcello. Il paladino dei più piccoli!». Enza restò di sasso. «Che c'è?», fece Francesca, «lo sai che a me non sfugge mai niente. In fondo, fa parte dei miei compiti tenere aggiornata l'agenda del parroco». «Ci hai spiato?». «Sì, ma non ce n'era bisogno. Sapevo già che cosa avevi in mente. Lo sapevo dal giorno in cui sei venuta da me a fare un sacco di domande su Frate Alberto. Ricordi? Non sei stata affatto sincera quella volta». «Sincera? come sarebbe?». «Siamo amiche, no? Perché ti sei comportata in quel modo, allora?». «Ma... in che modo?».
Francesca si sfilò le scarpe scalciandole sullo scendiletto, accanto alle pantofole di Enza. «Cercavi delle prove contro Frate Alberto», disse, «per dimostrare che è un pedofilo. Sei convinta che lui abbia violentato Riccardo. Potevi parlarmene, ma non l'hai fatto». «Oh... io... non ero sicura... non volevo che...». «E così mi hai usata». «Usata? ma... Francesca...». «Hai ottenuto quelle informazioni con l'inganno. Mi hai manipolata per raggiungere lo scopo che ti eri prefissata. Mi sono insospettita notando l'effetto che le mie rivelazioni producevano su di te. Quando ho ammesso che Frate Alberto in diverse occasioni si era intrattenuto con i bambini nelle stanze della sagrestia, sei diventata quasi cianotica. Sì, avevi le labbra blu. Davvero pensavi che non avrei capito qual era il motivo di tanto interesse per le dinamiche interne della parrocchia?». «Volevo tenerti fuori da questo... da questo schifo! Dannazione, sono quasi impazzita a causa di...». «Credevi di potermi prendere in giro? Forse mi consideri una stupida! Eh, è cosi? mi consideri una stupida?». Enza, a disagio, si torceva le mani. Francesca posò la lattina di birra sul pavimento e si tolse la maglietta per poi appallottolarla e fiondarla lontano. Aveva ancora addosso i jeans attillati e il reggiseno sportivo. «Ti ho fatto una cazzo di domanda», sibilò scoccando un sorrisetto corrosivo. «Francesca io...», fece Enza, «io so che secondo te Frate Alberto è un santo. Credimi, anche per me è stato difficile accettare la verità. Purtroppo, i fatti sono contro di lui. Ha finto con tutti. A prenderti in giro è stato quel prete che ammiri tanto». «Frate Alberto è un povero stronzo», ridacchiò Francesca alzandosi in piedi. Enza era sbalordita mentre osservava la ragazza avvicinarsi alla porta della stanza. Forse sperò che stesse andandosene. Invece, quella fece girare la chiave nella toppa chiudendo a doppia mandata, poi la estrasse dalla serratura e la fece scivolare nella tasca dei jeans.
«Che fai?», chiese la donna allarmata. «Anche adesso hai le labbra blu», disse Francesca, poggiata contro lo stipite con le braccia conserte. «Sei... sei ubriaca», protestò Enza. «Già», concordò la ragazza, «ma ti assicuro che anche da ubriaca sono in grado di romperti il culo». «Cosa? ma perché...? perché dovresti...? che ho fatto di male? Se ti sei sentita usata mi dispiace, ti chiedo scusa». «Non hai ancora capito?». «Ma di che parli? mi fai paura!». Francesca si mosse verso il letto, poi scartò a destra e rincorse Enza che, sentendosi minacciata, tentava una fuga rocambolesca in direzione del balcone. La intercettò afferrandola rudemente per un braccio e la spintonò indietro. «Rimettiti subito seduta!». «AIUTOOO!», urlò la donna. Francesca le allungò un ceffone che la rispedì sul materasso a faccia in giù. «Non può sentirti nessuno, idiota!». Enza rimase immobile per qualche istante, poi si tirò su e con una mano si coprì la guancia dolorante.
Dal giardino arrivavano grida e risate, oltre alla musica ad alto volume. «Adesso hai capito?», chiese Francesca con calma. «Ma che dovrei capire?», piagnucolò Enza, rannicchiandosi contro la spalliera del letto. «Ancora niente? sei proprio scema!». «Ti prego, Francesca...». «Io ho violentato Riccardino!». La bocca di Enza formò una O perfetta. «Frate Alberto non c'entra», continuò la ragazza, «Un uomo volgare come lui non sarebbe capace di simili raffinatezze». Enza scuoteva la testa incredula e atterrita. «Io ho violentato tuo figlio. Molte volte. Ho impiegato mesi per addestrarlo, per farne il mio personale strumento di piacere. Ormai è diventato bravissimo». La donna nascose il viso dietro i pugni stretti. «Sa usare la lingua come pochi. E poi è così docile, così obbediente! Certo, all'inizio ho dovuto anche castigarlo qualche volta. Ma i risultati sono stati più che soddisfacenti. Ti consiglio di provarlo tu stessa. Potresti farti leccare da lui. Vedrai, ha davvero un talento naturale».
Enza scattò all'improvviso. Si lanciò di lato oltre la sponda del letto, impugnò l'abat-jour strappandola dalla presa elettrica e scagliandola addosso a Francesca, che si spostò ed evitò l'urto. La lampada terminò il suo volo contro lo schermo della televisione provocando uno schianto e una scintilla. Con un solo gesto, Enza aveva messo fuori uso, senza volerlo, le sole due fonti di luce presenti nella stanza, che a quel punto sprofondò nel buio. «AIUTOOO!», urlò ancora la donna presa dal panico. Brancolò tra la porta e l'armadio e percepì appena il rapido movimento di un'ombra, un attimo prima di subire un violento colpo nello stomaco. Un pugno oppure una ginocchiata. Crollò a terra esalando uno sbuffo prolungato. Si contorceva ansimando penosamente quando la camera venne illuminata a giorno dal lampadario in stile liberty. Francesca, tenendo ancora il dito sull'interruttore, perlustrava con sguardo militare ogni angolo di quel campo di battaglia ora in piena luce, per valutare ogni possibile opzione. Del tutto a proprio agio, camminò con disinvoltura, aprì le ante dell'armadio e rovistò tra i vestiti e la biancheria. Studiò la scarpiera, guardò nel cassettone e gettò all'aria le coperte e gli asciugamani puliti. Curiosò un po' ovunque marcando il territorio. Infine, sedette sul bordo del letto e sembrò ricordarsi di Enza che, in ginocchio, prostrata, stava provando inutilmente a parlare. «Stai calma. Pensa a respirare», disse la ragazza, «Tra un po' starai meglio». La donna stese i palmi delle mani sul pavimento e, a quattro zampe, fissò un punto nel vuoto davanti a sé, cercando di rifiatare. «Mi fai una tale rabbia!», sbottò Francesca. «Insomma, tu Riccardino ce l'hai in casa con te, potresti giocare con lui ogni volta che ti viene voglia. E invece che fai? Non solo non ne approfitti, ma vorresti impedire anche a quelli come me di godere di certi piaceri. Cazzo, ti rendi conto che quel periodo dura pochissimo! quel periodo in cui i bambini sono così sensuali, intendo. Maschi o femmine, non c'è differenza quando sono piccoli e delicati. Cristo, hanno la pelle morbida e un odore... un odore indescrivibile! Poi, purtroppo, sopraggiungono i cambiamenti fisici della preadolescenza...». «Quelli... come te...», disse Enza tra i colpi di tosse, «sono dei mostri...!». Francesca osservò divertita la donna che a fatica si rimetteva in piedi e che, con le spalle contro il muro, si abbandonava a smorfie di dolore. «Vedi? stai già meglio. Te l'avevo detto, no?». «Ma come... come hai potuto?».
Francesca si alzò dal letto e accennò ad avvicinarsi a Enza, che tremava di paura. «Quello che non ti ho detto», fece la ragazza avanzando minacciosa, «è che noi due abbiamo appena cominciato a scaldarci. La notte è ancora lunga!». Enza si appiattì alla parete, incapace di qualsiasi reazione. Sollevò le mani per difendersi quando Francesca le fu addosso. «Non sai quanto ho aspettato questo momento!». «Stai indietro!». «Non avresti dovuto farmi incazzare. È stato un errore da parte tua chiedere l'allontanamento di Frate Alberto. Vedi, con lui le cose erano più semplici, potevo appartarmi con Riccardino ogni volta che lo desideravo. Quello stronzo di Frate Marcello, invece, ci controlla, sta sempre in mezzo ai piedi! Ed è unicamente colpa tua. Per punirti ti ho scatenato contro Gianni Kurt Angle. Ma non ti è bastato...». «Gianni? vuoi dire che...». «Certo. Secondo te chi gli ha raccontato di te e Tony?». «Sei stata tu? ma com'è possibile? come facevi a saperlo?». «Non essere ridicola! All'agenzia tutti si erano accorti che tra te e quel ragazzo c'era del tenero. E poi sapevo che avevi una storia anche con Gianni perché lui ha la lingua troppo lunga e, in palestra, si è vantato di averti aggiunto alla sua collezione di puttanelle». «Ma... così hai messo Tony nei guai. Sai che Gianni potrebbe fargli del male». «Credi che me ne freghi qualcosa? Avevi bisogno di una lezione, perciò ti ho stravolto un po' la vita. Pensavo di aver pareggiato i conti, ma, a quanto pare, con te dovrò ricorrere a un trattamento più drastico». «Aspetta. L'idea di chiamare l'avvocato è stata di Frate Marcello. Io non avevo alcuna intenzione di sporgere denuncia». Francesca mostrò un sorriso acido. «Per me la questione era chiusa», continuò Enza, «te lo giuro!». «E l'appuntamento di domani?». «Lo disdico. Domani mattina telefonerò a Frate Marcello per pregarlo di annullare tutto. Vedrai, non insisterà». «Non insisterà, dici? Ehm, parliamo dello stesso fottuto prete?». «Sì, magari insisterà, ma poi se ne farà una ragione. La decisione è mia». «Non credi che sia anche il caso di darci un taglio con quelle sedute psicologiche del cazzo?». «Oh, va bene! tanto non servono a niente. Sul serio, Francesca, mettiamoci una pietra sopra, dimentichiamo questa faccenda». «Mmh... significa che potrò sempre contare sui servizi di Riccardino?». Enza non rispose e si morse le labbra. «Me lo prometti?», insisté la ragazza, «prometti di smetterla con queste stronzate e di permettere a tuo figlio di leccarmi la fica? Io e il mio piccolo amante abbiamo la tua benedizione?». La donna vacillò e chiuse gli occhi. «Me lo prometti, mammina?». «Francesca, ti prego...».
La ragazza con un guizzo afferrò i polsi di Enza, inchiodandole le braccia al muro. La donna trasalì e tentò di respingerla, ma la presa era troppo salda; così, lanciando un latrato di frustrazione, si arrese e reclinò il capo sulla spalla, per evitare lo sguardo della sua persecutrice. «Sì, te... te lo prometto», mormorò. «Quindi», disse Francesca, «ci siamo chiarite? Posso andarmene tranquilla?». «Sì... ti prego, vattene». «D'accordo». Enza fu libera dalla presa e un lampo di speranza le attraversò il verde dell'iride. Si massaggiò i polsi e spostò il peso da un piede all'altro, ansiosa di togliersi di torno quella pericolosa psicopatica, la cui risata sadica la fece fremere ancora di terrore. «Ih, ih, ih!». Capì che era solo un trucco, che Francesca non se ne sarebbe andata affatto e allora fu accecata dalla rabbia. Assecondando l'impeto di ferocia che le saliva dalle viscere, si buttò sulla ragazza con le mani protese a cercarle la gola. Caddero entrambe sul pavimento, dove rotolarono per qualche istante, prima che Enza rimanesse intrappolata sotto le gambe della giovane, che, nel frattempo, continuava a ridere come una matta. «Basta! Lasciami in pace!», frignò la donna, mentre l'altra, sempre più divertita, le stava seduta sul seno, schiacciandole lo sterno.
Seguì una breve pausa, durante la quale tra le due ex amiche si insinuò una silenziosa consapevolezza. Il chiasso della festa sembrava aver perso ogni nota di allegria. Restava solo il frastuono. L'atmosfera si caricò di un presagio nefasto. Francesca, che aveva smesso di ridere, agguantò Enza per i capelli e le picchiò ripetutamente la nuca contro l'impiantito di marmo. I colpi furono numerosi e lasciarono la donna in uno stato di torpido stupore, da cui si riscosse allorché la ragazza, rialzatasi con un balzo, le affondò un piede nel basso ventre, strappandole un mugolio strozzato. Stavolta la poveretta non ebbe neppure il tempo di riaversi. L'altra, infatti, infierì su di lei con una gragnola di schiaffi e calci. Enza, stordita e dolorante, si coprì la testa con le braccia, tenendo i gomiti rivolti in avanti, sperando che la bufera che la investiva passasse in fretta. Infine, priva di energie, come svuotata, si trascinò verso il letto, lo raggiunse e cercò di montarvi sopra, ma le forze le vennero meno quando era a metà dell'opera e, dunque, stette in ginocchio, col busto riverso sul materasso, i pugni che stringevano le lenzuola. Non aveva idea di dove fosse Francesca. Spingendo sugli avambracci si tirò su e, barcollando, si guardò attorno. Aveva il fiatone e le labbra le tremavano. La ragazza era lì, accanto alla toeletta, con l'aria assorta e un po' annoiata di chi è in fila da ore davanti allo sportello postale. Mostrò i denti in quello che parve un misto tra un ringhio e uno sbadiglio. Si mosse rapida e letale come al solito, dando l'impressione di danzare sulle punte. Lasciò partire un calcio circolare che si stampò sotto il mento di Enza, scaraventando la malcapitata sul letto, dove ella giacque immobile.
Francesca saltò addosso alla sua vittima e constatò che era svenuta. Un rivolo di sangue le scendeva dall'angolo della bocca. La ragazza capì che si era morsa la lingua nel cadere all'indietro. Con le dita raccolse le dense gocce cremisi e, come un vampiro, le succhiò avidamente. Si chinò su Enza e, con gesto risoluto, le tolse la maglia del pigiama. Le braccia della donna erano molli come quelle di una bambola di pezza; non indossava il reggiseno e le tette ballonzolavano su e giù. Francesca si sporse per arrivare al telefonino di Enza, lo scollegò dalla presa elettrica e, gongolando, prese a scattare foto da diverse prospettive. Il seno nudo sempre in primo piano. Poi, approfittando dell'assoluta inerzia di quel corpo mezzo svestito, artigliò l'inforcatura dei pantaloni del pigiama e li tirò via con un paio di strattoni decisi. Riprese a scattare foto, avendo cura di far cambiare spesso posizione alla sua modella, rigirandola come un manichino. Lo faceva con solerzia, mettendoci un autentico zelo professionale. Infilò l'indice nell'elastico dello slip di Enza e scoprì parte del pube, ma in quel mentre la donna sbatté le palpebre e gemette in modo appena percettibile. «Ehi, dormigliona», disse Francesca ritirando la mano, «spero che tu ti sia riposata abbastanza». Senza aggiungere altro e burlandosi della poveretta che, comicamente, manifestava un certo sconforto nel ritrovarsi quasi nuda, tornò all'azione, che fu veloce e devastante.
La stanza cominciò a roteare e a Enza ci volle qualche attimo per capire che la ragazza l'aveva afferrata per i capelli e la stava trascinando da un lato all'altro, costringendola a partecipare a un folle girotondo. Tentò di opporsi, ma Francesca le passò un braccio intorno al collo e iniziò a strangolarla. Lei provò a liberarsi, sgomitando e graffiando la carne dell'avambraccio della sua assalitrice, che però non mollava la presa e, anzi, stringeva sempre più la morsa, serrandole la gola. A un tratto le parve di perdere la sensibilità, ebbe la vista offuscata, non seppe come resistere e si abbandonò al deliquio. Riemerse tossendo da quella nube di incoscienza e vide, attraverso le lacrime, il battiscopa che correva lungo la parete. Era stesa a terra, sul ventre, lo zigomo premuto contro le piastrelle. Recuperò un minimo di lucidità e fece per muoversi, ma si accorse di avere le mani legate dietro la schiena. Cercò allora di volgere il capo arcuando il dorso. Francesca le fece un cenno. Era seduta sulla poltrona e giocherellava con una calza di seta, probabilmente la compagna di quella con la quale le aveva immobilizzato i polsi. «Sono qui, non preoccuparti!», disse alzandosi e dirigendosi verso la donna che si dibatteva disperata. Le sedette sulle natiche e le attorcigliò la calza al collo. «Francesca... ti prego...». «Che ne dici se la facciamo finita adesso?». Tirò con forza, esercitando una pressione tale da impedire a Enza di deglutire, di parlare e, per qualche momento, anche di respirare. Quando allentò la stretta, la vittima era ormai stremata. «Francesca... ascoltami...». «Basta con le chiacchiere! Devo ucciderti. Lo sai che non ho altra scelta!». «Aspetta... io non... non racconterò mai niente... a nessuno... te lo giuro...». «Mi dispiace. Ci siamo spinte troppo oltre. Devo eliminarti. Non posso correre rischi». «Ti supplico... farò tutto quello che vuoi...». La ragazza ridacchiava accarezzando i capelli di Enza.
La festa, intanto, andava avanti; dalle tapparelle filtrava una luce intermittente, forse prodotta da un faretto stroboscopico montato giù in giardino. «Ti prego... non voglio morire...». «Dovevi pensarci prima. Io non vorrei farlo. Davvero, non lo faccio volentieri. Ma non dipende da me. Sei stata tu a cacciarti nei guai». Il dito di Francesca scivolò lungo la schiena di Enza, disegnando ghirigori su quella pelle punteggiata di nei. «Okay... Okay... farò come vuoi... tutto quello che vuoi...», continuava a ripetere la donna piangendo apertamente. «Uh! Sì, ti prego. Grazie... grazie...» disse in modo confuso, ma con rinnovata speranza, quando la calza che le avvolgeva la gola si srotolò, liberandola da quell'insopportabile senso di minaccia. «Ho imparato la lezione... davvero...», piagnucolò ancora. «Sta' zitta!», sibilò Francesca imbavagliandola con la medesima calza, «e stammi bene a sentire». Si chinò fino a sfiorarle l'orecchio con le labbra. «Visto che ci tieni così tanto alla tua patetica vita, ho deciso di accontentarti. Non ti ucciderò, dopotutto. Hai capito?». Enza annuì energicamente. «Già, immagino che tu mi sia riconoscente per questo, vero?». Altri cenni di assenso. «Bene! Adesso, però, mi devi un favore. Te ne rendi conto?». La donna si affrettò a confermare. «Quindi, posso chiederti di fare qualunque cosa? Giusto?». Enza cercava di esprimere la propria totale disponibilità anche a voce, emettendo una serie di suoni indistinti. «Per questa volta», disse la ragazza sollevandosi e sciogliendo il nodo che teneva legati i polsi di Enza, «voglio essere generosa, ma non farmi pentire di averti concesso di vivere, d'accordo?». La donna si tolse la calza dalla bocca e fece per alzarsi, ma Francesca la bloccò schioccando le dita. «Che fai? non mi ringrazi?». Enza si asciugò quelle calde lacrime che continuavano a rigarle le guance e, concentrandosi sulla domanda che le era stata rivolta, puntò gli occhi un po' assenti sulla sua aguzzina. Aspettandosi, forse, da questa un cenno di approvazione, era rimasta in ginocchio, i seni ciondolanti, a tirare su col naso mentre alcune gocce di sudore le s'impigliavano nei capelli disordinati. «Faresti meglio a mostrarmi la tua gratitudine», consigliò asciutta Francesca. «Oh... ma certo... ti ringrazio... ti ringrazio tantissimo...». «Tutto qui? e ti sembra sufficiente? Cazzo, io ti sto risparmiando la vita, dovresti essere entusiasta e invece...». «Ma... hai ragione... scusa... scusa... non so proprio come sdebitarmi...». «Usa la fantasia». «Non... non capisco...». «Intanto, togliti le mutandine». Enza impallidì, ma non esitò. Si fece scivolare lo slip lungo le gambe e, armeggiando più del necessario perché si erano attorcigliati a una caviglia, se ne liberò. Poi, completamente nuda, accucciata a terra come un cane addestrato, attese nuovi ordini. «Brava», disse Francesca raccattando il telefonino e attivando la fotocamera, «Adesso mettiti in posa e sorridi».

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