Il concerto

di
genere
etero

L’assolo di tastiera di Money Mark getta sulla platea assiepata una risacca di accordi da far perdere il contatto con la realtà. Chiudo gli occhi e potrei essere ovunque. Da solo. Il volume alto mi frastorna spingendomi altrove.
Riapro gli occhi e vedo le sagome delle persone intorno e davanti. Ondeggianti. Volute di fumi bluastri si infrangono negli scandagli delle luci sparate ad alzo zero. Riprende il basso di Adam disegnando una melodia ancora più ipnotica e psicotropa. Ho fumato un po’, ma non troppo.
Riconosco le note di The Rat Cage, guardo a ventaglio le facce intorno e, è un attimo, incrocio i suoi.
L’ho già notata prima, al bar. Mi ha sorriso mentre attendevo il mio tonic, lei con i mano un cocktail dalle vaghe note rossastre.
Un caschetto scuro, non so dire il colore esatto per via delle luci, mascara, labbra strette. Gli occhi sono invece chiarissimi. Ha le braccia scoperte, una minigonna e calze nere. Mi piace e ricambio il sorriso. Certo che rimanga una cosa così, giusto un attimo di empatia.
Invece eccola qui. Saranno una decina di metri quelli che ci separano. Ci guardiamo, sorridiamo. È chiaro che ci piacciamo. Non serve essere dei maghi per capirlo.
Faccio spazio tra la gente per raggiungerla. Le nostre mani si toccano mentre i ragazzi riprendono il microfono. È Triple Trouble, ma la mia attenzione è distolta. Mi importa poco di quello che avviene sul palco, le nostre bocche incollate sono un valido tritacarne per il cervello. Una scossa, la mia mano sulla sua nuca la tiene premuta su di me. L’assedio degli ormoni esplode contro ogni resistenza al ritmo incalzante delle drum machine. Sono certo che abbiamo una sfera intorno di luci colorate, un campo di forza che allontana gli altri.
Mi stacco, le prendo con forza la mano e la porto con me nelle retrovie.
La spingo contro il muro tappezzato di moquette nera. Lingue intrecciate e le mani: le sue mi hanno alzato la maglietta e mi torturano la schiena con le unghie affilate. Non perdo tempo nemmeno io. Sotto la gonna mi accorgo che le calze sono delle lunghe autoreggenti. Infilo la mano superando la minima resistenza degli slip. È bagnatissima. Le martorio la fica con indice e medio, il pollice sul clitoride. Mi morde un orecchio. Mi avvinghia con la gamba destra per agevolarmi il compito. Aumento il ritmo. I pezzi dal palco si susseguono veloci. L’odore è solo quello del sesso che esplode senza ritegno. Come il suo orgasmo rapido nel crescere e netto nell’urlarmi un BASTARDO scandito come se volesse regolarne per certo la sillabazione. Sono certo che sulle sue calze scorrono rivoli di umori.
“Andiamo” le sussurro.
Le prendo nuovamente le mani, ma è solo una formalità. Mi segue docile.
Scendiamo le scale, le prime scale che trovo. Scale metalliche che risuonano al ritmo dei nostri passi frenetici. La musica arriva ormai ovattata. Un corridoio di luci neon, alcune lampeggianti. Superiamo i due bagni maleodoranti e rigonfi di varia umanità. Odore di piscio, di erba e vomito.
In fondo al corridoio. Una porta con la scritta privato. È chiusa a chiave. Do un calcio secco e deciso. Dettato solo dalla voglia di sesso. La serratura cede. Mi volto, nessuno ci ha sentito o seguito. Incrocio solo il suo sguardo: è quello serio della pantera affamata. Entriamo, accendo la luce. È un magazzino di materiale vario, sedie, tavoli pieghevoli, scaffali. Persino un paio di divanetti. Piuttosto malmessi, ma non stiamo nemmeno a pensarci. “Stai vestita. Voglio prenderti così.”
Non mi ascolta. Toglie il top. Sotto non ha un reggiseno. Le tette piccole, i capezzoli appuntiti, irti. Mi tolgo la maglia, slaccio i pantaloni. L’attrezzo si sgancia immediato dalla costrizione degli slip.
Il suo tanga è già a terra.
Voglio scoparla. Ma voglio ancora giocare con lei, prolungare al massimo questo istante di sesso puro e perfetta armonia. Tra i nostri desideri al calore bianco che si fondono con avidità.
Mentre dal piano superiore provengono, attutite, le vigorose e riverberanti linee di basso, lei mi prende l’asta io le strizzo i capezzoli leccandole il collo.
Continua a masturbarmi con maestria. Non so di preciso dove mi trovo, in quale locale, in quale città, in quale anno. In quale universo.
Si inginocchia. Mi guarda, gli occhi carichi di voglia e bramosia. Continua a segarmi, lenta. Poi sputa sul glande scoperto. Gonfio, violaceo e al massimo del gonfiore.
Apre le labbra. Il rossetto è rosso scuro, lo noto in un attimo infinitesimale di lucidità, mentre le labbra prendono possesso imboccandolo. Rimango in piedi, ma sento i tendini delle ginocchia vacillare.
Succhia con inusitata ingordigia, una mano che scorre sull’asta, l’altra bollente sui testicoli.
Le spingo la testa, ma sento che è lei a condurre il ritmo. Vorrei esploderle in bocca nella frenesia del piacere, ma non può essere questo il momento.
Continua con il pompino per attimi che paiono dilatati. La sua lingua che scorre.
La prendo da sotto le ascelle. La sollevo e la sposto sul divano. Si lascia trasportare e gettare. Divarica le gambe. Il sesso lucido di desiderio sfrenato è gonfio, sfrontato, brama l’affondarsi del mio cazzo. Voglio leccare quella splendida fica pulsante e desiderosa. Mi inginocchio, il profumo mi inebria. Lingua e dita sono su di lei. Mugola parole che non percepisco. Mi spinge a sè. Ho tre dita che la penetrano. La mia lingua non dimentica nessun lembo. Lecco, succhio, bacio. Le pianto il pollice nel culo che sparisce veloce grazie alla poderosa colata del suo godimento. Urla, sconnessa.
Alterno le dita tra fica e ano. Non devo insistere troppo: un minuto che pare lunghissimo e viene in uno schianto di nervi e contrazioni. Non cedo e proseguo. I suoi umori sgorgano copiosi. Ansimante, mi spinge via. Mi alzo, appoggio il glande alle labbra. Lei sussurra “Scopami, stronzo!”, con un filo di voce.
Eseguo, ma senza irruenza. Lento. Voglio esasperarla, ma finisco con la mia esasperazione: la voglia e il piacere hanno presto il sopravvento. La pistono senza cedimenti. Continuiamo così, le sue gambe che mi avvolgono. Le succhio i capezzoli, il collo, la bocca. “Da dietro, prendimi da dietro”. Mi legge nel pensiero. La volto, le sollevo l’ormai inutile gonna. Le afferro i fianchi e la penetro fino in fondo. Cinque, dieci colpi, viene di nuovo inarcando la schiena. Le metto una mano in bocca che mi morde, uno schiaffo sulla natica che arrossa all’istante.
Il culo è davvero splendido, da qui la vista è fantastica. Mentre la scopo febbrile, le infilo un dito nell’ano, sento il mio cazzo scorrere e lei che urla.
Estraggo il cazzo. Umido e gocciolante e paonazzo. Lo appoggio sulla rosa dell’ano. “Spaccami, fallo, per dio!”. Non me lo faccio ripetere. Il cazzo sparisce piano. È strettissimo. Mi fermo. Indugio. Le massaggio le tette e le bacio la nuca. Poi glielo ficco fino in fondo, le palle che le sbattono sulla fica madida. Aumento il ritmo. Rumori di sudore, di pelle che si schianta, di affanni sconnessi. Forse ha un altro orgasmo, le sue gambe tremano. Voglio arrivare in fondo anche io. Aumento il ritmo. “SPACCAMI, SFONDAMI, GODO, GODO” urla come indemoniata.
Manca poco anche a me. “Dio, ti vengo nel culo, troia”. “SÌ, VIENI, VIENI, BASTARDO, VIENIMI NEL CULO.”
L’onda sale dalla spina dorsale, fino al cervello. Chiudo gli occhi e vedo una supernova esplodere da qualche parte.
“VENGO, TI RIEMPIO IL CULO”. Schizzo nelle sue viscere conficcando le unghie nei suoi fianchi. “SÌ, SÌ, GODO, GODO ANCHE IO”

La abbraccio. Continuo a stantuffarle il culo, il cazzo resta duro. Lo tiro fuori, assieme esce una quantità di sperma. Si gira e mi abbraccia. Restiamo così, abbracciati, sudati, impiastricciati di seme e umori. Nella stanza c’è solo quello. Noi e il sesso.

Non so quanto tempo è passato. mi sono addormentato. Il concerto è forse finito. Ho freddo. Mi guardo intorno, lei è sparita.
Mi vesto.
Sento qualcosa in tasca. Un biglietto, un numero di telefono e il nome “T”
di
scritto il
2020-04-13
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