Tra Vecchio e Nuovo - Zia e Nipote - Capitolo VIII

Scritto da , il 2019-03-22, genere incesti

Il cielo sopra Milano cominciava a tingersi di nuovi colori, non ancora di luce calda, ma qualche raggio si avventurava fino a là partendo dall’altra parte del globo e percorrendo la linea dell’orizzonte fino a sconfinare nel tetro e freddo cielo di Milano. E’ un momento sospeso tra la vita e la morte, quello tra mattino e notte. Spole diverse dello stesso rocchetto, opposti che s’incontrano e si mescolano nei cieli delle città e spennellano sopra le poche teste sveglie, le uniche fortunate ad assistere al passaggio di testimone tra la placida notte e il pigro mattino.

Matteo, all’interno del bar, era uno di quei fortunati.

Quando l’ultimo cliente era uscito, circa mezz’ora prima, Antonio aveva cominciato la propria funzione religiosa. Gli piaceva parlare di Dio e di cattolicesimo perché Matteo era l’unica persona che ascoltava sommesso le sue prediche, i suoi sproloqui, le sue considerazioni.

Matteo d’altra parte, lasciava parlare Antonio con la speranza che le sue parole potessero in qualche modo assolverlo dai suoi peccati incestuosi, dalla colpa che si portava dentro, come se dopo una nottata con Antonio potesse sentirsi più leggero perché purificato da delle parole che per quanto vane e prive di significato potessero sembrare, avevano comunque la funzione di sturargli l’anima dalle imperfezioni con cui lui stesso si sporcava per debolezza.

“Sodoma e Gomorra, le due antiche città dove gli uomini praticavano la nota sodomia, vennero distrutte da Dio! Perché nessun atto sessuale è puro e accettato se prescinde dalla procreazione! Siano maledetti gli invertiti e tutti questi giovani che oggi se ne vanno in giro con questa rivoluzione sessuale!” Inveiva Antonio con il suo tono determinato.

“Cosa successe ai suoi abitanti?” Chiese Matteo curioso.

“Sterminati tutti, tranne Lot e le sue figlie! Loro si salvarono ma peccarono più avanti in maniera ancora peggiore!”

Matteo stava pulendo il pavimento nello stesso modo in cui puliva la sua coscienza. Inzuppava lo straccio nella bacinella d’acqua, strizzava e passava per terra con foga. Ogni volta che immergeva il panno nell’acqua, scagliava la sua coscienza nelle parole di Antonio e la tirava fuori strizzandola e rimettendola al suo posto. Il nuovo era all’orizzonte, ma lui attingeva ancora al vecchio per riappacificarsi l’anima.

“E che fine fecero Lot e le figlie?” Chiese il ragazzo.

“Fuggiti dalla città distrutta, Lot e le ragazze furono salvate da Dio perché il padre non era un sodomita. Ma sulle montagne successe qualcosa di ancora peggio!” Antonio si affannò e alzò la voce come in una vera omelia. Aveva le movenze e i ritmi di un attore di tragedie e ciò rendeva le sue parole ancora più risonanti.

“Cosa?” Incalzò Matteo, smettendo di lavare per terra, rapito dal modo di fare di Antonio.

L’uomo si schiarì la voce con un colpo di tosse. “Le figlie di Lot, credendo di essere rimaste sole al mondo con loro padre, lo ubriacarono con l’inganno e durante la notte, ebbero una relazione incestuosa con lui! Da questa relazione nacquero addirittura due figli da cui discendono i popoli dei Moabiti e degli Ammoniti! Dal peccato non si può fuggire, come ha fatto Lot da Sodoma. Siamo uomini deboli Mattè, prima o poi peccheremo.”

Matteo rimase senza parole, si sentiva in qualche modo un moderno doppio di Lot, una sorta di erede speculare, peccatore nello stesso modo, vittima anch’egli di un inganno, succube degli eventi ripetutamente, condotto all’errore da un macchinoso soggiogamento, incapace di cambiare il corso degli eventi.

“E poi? Dio che ha fatto? Come ha punito loro?” Matteo doveva sapere quale sarebbe stata la sua punizione spirituale, anche se lui in Dio non ci credeva.

Antonio cambiò improvvisamente tono, lasciandosi cadere su uno dei divanetti del bar stiracchiandosi le gambe. Poi dopo un lungo sbadiglio, parlò. “Eh, questo proprio non me lo ricordo, mi dispiace. Ma dovrei informarmi in effetti! D’altronde prete non ci sono più diventato. Ce lo facciamo un caffè? Muoio di sonno!”

Matteo imprecò e schernì il collega in una di quelle improvvise cadenze dialettali che tradiscono la spontaneità e schiettezza del carattere. Poi si accinse a fare il caffè, con la speranza che il forte odore della bevanda scacciasse i suoi funesti pensieri.


Il sole aveva finalmente fatto capolino dal fondo dell’orizzonte e con inesorabile lentezza, aveva scalato il cielo per piazzarsi il più in alto possibile. Con i suoi raggi scaldava il creato e in qualche modo, Matteo si sentiva più allegro e protetto dalla presenza di quella gigantesca palla di fuoco sulla sua testa, mentre camminava per le vie della città che si destava solo in quel momento. Quella mattina aveva più sonno del solito e non vedeva l’ora di fiondarsi a letto per recuperare le ore di sonno che il lavoro gli aveva sottratto. Nel momento in cui stava per aprire la porta del condominio, una voce proveniente dalle sue spalle lo chiamò.

“Ciao, scusa, è tuo questo?”

Il giovane si girò, ritrovandosi di davanti ad una ragazza riccia, dai capelli rossi, con un libro in mano. Aveva dei lineamenti fini e delicatissimi, tanto che Matteo credette di trovarsi di fronte ad una bambola di porcellana. Le sue guance erano puntellate di lentiggini, sembravano piuttosto una costellazione. Matteo si sentì rapito da quell’apparizione angelica di fronte a lui e non seppe rispondere alla domanda, intontito dalla carenza di sonno e da quel viso genuino e candido.

“Tu sei Matteo Scaruzzi, no? C’è scritto anche sul citofono. E’ tuo?” Chiese nuovamente la ragazza, con un cenno d’imbarazzo.

Matteo si risvegliò dalla visione. “Sì, sì. Sono io, dove lo hai trovato?”

“Ti è cascato l’altro giorno, poi hai preso l’autobus e non sono riuscita a ridartelo. Abito qui di fronte, in quell’appartamento là. Ti ho visto dalla finestra e sono scesa per ridartelo.” La ragazza sorrise, porse il libro e dopo aver salutato, se ne andò con la stessa leggerezza con la quale era arrivata. Matteo era rimasto incantato e rapito da quell’incontro. Lo chiamano colpo di fulmine ma è più simile ad una vampata di fuoco che incendia il corpo, per molti.

Salì gli scalini due a due, fino a quando non fu di nuovo dentro casa con la testa piena di pensieri e il cuore a mille per quella ragazza. Che stupido che era, pensò tra sé e sé, provare quelle emozioni per trenta secondi di conversazione con una vicina di casa.
Si tolse le scarpe e si affacciò alla finestra per vedere se quella ragazza era ancora nei paraggi, ma in strada ormai non c’era più nessuno. Alzò lo sguardo deluso e lo fissò sulla finestra che quell’angelo gli aveva indicato e in un attimo capì: era la stessa dalla quale gli era sembrato di scorgere un movimento mentre stava copulando con sua zia, qualche giorno prima.

Si accasciò sul divano nella vergogna più lancinante, con le mani tra i capelli. Era stato visto con Rita? Gli stava venendo un’inutile paranoia oppure era più che legittima? Si sentiva schiacciato dalla pressione, con un magone allo stomaco e un improvviso malessere generale che attribuì solo all’eccessiva stanchezza e alla mente affollata di pensieri, positivi e negativi insieme.

“Buongiorno!” Esclamò Rita ancora in vestaglia da notte, uscendo dal bagno, con tono baldanzoso. “Che hai fatto? Sembri sconvolto.”

Matteo dissimulò, dicendo di essere solo stanco e di aver bisogno di dormire.

“Va bene, va bene. Poi mi dirai che cos’hai veramente. Intanto guarda qua che ho disegnato questa mattina presto. L’ho sognato e mi sono dovuta alzarla con la fretta di volerlo riprodurre. Ti piace?” Rita porse un disegno la cui figura era ben poco riconoscibile a causa dell’eccessivo uso del colore che arrivava a coprire quasi del tutto le figure umanoidi sullo sfondo. Sua zia aveva la passione per il disegno, ma Matteo non la riteneva veramente portata. I suoi tratti erano goffi e pesanti, i colori utilizzati spesso inappropriati e le figure troppo astratte per assomigliare a qualcosa di conosciuto. Non aveva mai avuto il coraggio di dirgli quel che veramente pensava, quindi di volta in volta mentiva per non offenderla.

“Ma… questa è una pozza rossa? Sembra un corpo immerso nel sangue. Cruento!” Matteo si sforzò di trovare altre parole, ma non gli venne in mente null’altro.

“Sì. Ho sognato questo corpo in un cerchio rosso. Non ti so dire se era un cadavere o qualcos’altro, ma era identico a come l’ho raffigurato qui!” Dicendo ciò, Rita tornò in bagno per truccarsi, mentre Matteo continuava a guardare il disegno. Ripensò alle sue ultime ore. Al racconto tratto dalla Bibbia che Antonio gli aveva narrato, alla ragazza dai riccioli rossi che poteva essere a conoscenza del loro terribile segreto e infine, a quel banale disegno.

Nella sua mente i pensieri litigavano per rivendicare la completa attenzione delle sinapsi del ragazzo, si mescolavano tra loro in un turbine di eventi, parole, immagini e suoni diversi. La sagoma del disegno diventava improvvisamente Lot, il patriarca biblico. Sua zia Rita assumeva la voce tragica di Antonio, le lentiggini della ragazza riccioluta si confondevano con le stelle di quella pigra notte che aveva sconfinato nella placida mattinata in uno scambio e ricambio di ruoli disorientante, immenso mosaico delle sue ultime ventiquattro ore. In quel nebuloso quadro la mente di Matteo galleggiava sospesa tra il sogno e la realtà, tra passato e presente tra giorno e notte. Mentre la coscienza del ragazzo scivolava lentamente nella dimensione onirica, Rita uscì dal bagno, pronta per andare al lavoro. Voleva insistere nel chiedere cosa turbasse tanto suo nipote, ma si rese conto che quest’ultimo si era ormai abbandonato al sonno sul divano. Gli sfilò di mano il disegno e dopo avergli dato un’ultima occhiata compiaciuta, lo lasciò sul tavolino accanto a dove Matteo era assopito.

In tutto silenzio, lasciò l’appartamento e si diresse al lavoro. L’aver esternato tramite il disegno la strana sensazione provata insieme a quell’ineffabile sogno, non le aveva dato la sensazione di sollievo che invece si aspettava.

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