Lo Psicopatico - capitolo 4

Scritto da , il 2018-04-23, genere dominazione

Il super era situato in un centro commerciale, uno dei migliori e più grandi della città e anche se era un giorno infrasettimanale come tanti, nel tardo pomeriggio, era affollatissimo. A Alessia piaceva andarci proprio quel giorno ed a quell’ora, le piaceva sfilare bella ed elegante per farsi ammirare da uomini e donne. E la presenza della sua schiava le serviva per attirare ulteriormente l’attenzione. Non era gelosa delle occhiate rivolte a Deborah, le attirava come una calamita, anzi ne era orgogliosa. Deborah era sua e lei l’esibiva, con discrezione, come un diamante. La Padrona camminava un passo avanti e la schiava la seguiva come un cagnolino, la Padrona era elegantissima e lei vestiva casual, per chi sapeva vedere non c’erano dubbi su chi era la dominante e chi era la sottomessa.
Ogni tanto fantasticava di portarla lì al guinzaglio, nuda ed incatenata, a quattro zampe. Purtroppo erano solo fantasie. lo sapeva, ma se quella era una fantasia, portarla di notte in un parco pubblico o farla sfilare in una via piena di puttane non lo era. L’aveva già fatto e Deborah quelle volte stava morendo di paura e di vergogna, ma bastava che la sua Padrona la toccasse ed anche in quelle situazioni estreme lei si bagnava.

Marina invece non aveva mai subito quella umiliazione, ma il suo Padrone ci pensava, anche lui aveva quell’irrefrenabile voglia di esibirla, ma, meditava, non è ancora pronta. Intanto che meditava mise nel carrello della spesa che Marina portava in giro seguendolo passo dopo passo, una buona bottiglia di barbaresco. Le scelte riguardanti il vino ed altre cosette sfiziose le faceva lui, tutto il resto era competenza della schiava. Marina era un’ottima cuoca e lui delegava volentieri.

Alessia invece non delegava, a casa sua si mangiava quello che voleva lei, aveva fatto un po’ di fatica per insegnare a Giusy a cucinare quello che le piaceva, ma c’era riuscita, anche se talvolta sbagliava ancora e doveva punirla.

Marco sapeva guardare e soprattutto vedere, quando incrociò lo sguardo delle due donne capì quale fosse il loro rapporto in una frazione di secondo, il tempo che le immagini arrivassero al suo cervello e che fossero elaborate. Una Padrona ed una schiava. Entrambe bellissime, anche se la giovane schiava era fantastica, non era paragonabile con nessuna, se non con quella che spingeva il carrello dietro di lui e per essere paragonate con Marina bisognava, a suo giudizio, essere davvero super. Marina era irraggiungibile per eleganza e postura, ma la giovane ragazza aveva tutti i mezzi per raggiungerla e forse un giorno superarla. La ragazza indossava dei semplici jeans che le cadevano perfettamente, poi un pellicciotto che su un’altra sarebbe apparso volgarotto, ma che lei indossava con molta disinvoltura, ai piedi delle scarpe scamosciate. Nonostante l’abbigliamento si muoveva come una principessina, trattenuta nell’esuberanza dallo sguardo fermo e severo della sua Padrona. Marina invece indossava un vestitino nero che lasciava intravedere tutte le sue forme, coperte a stento dal leggero soprabito e si muoveva sul suo tacco 12 come se non avesse fatto altro nella sua vita. Tutti gli sguardi dei clienti del super che prima stavano rimirando le due giovani donne si spostarono sulla fenomenale rossa. Poi qualcuno ritornò sulla giovane schiava, ma nel complesso non c’era partita, Marina aveva vinto quella gara.

Anche Alessia sapeva guardare e vedere, quando si rese conto che lei e la sua schiava non erano più al centro delle occhiate concupiscenti della clientela del supermercato si guardò intorno e scoprì perché. Stupenda la rossa si disse intuendo anche lei i ruoli, e per niente male il suo Padrone, perché, quelli erano i ruoli, Alessia ne era convinta. Poi sorrise all’uomo. – E’ buono quel vino? – chiese con disinvoltura.
- Ottimo – rispose lui prontamente, - glielo consiglio… poi dipende da quello che mette in tavola. Questo va bene, con carne rossa o con cacciagione o con formaggi stagionati. –
Si erano fermati e sembrava volessero intavolare una chiacchierata. Alessia era essenzialmente lesbica, ma non completamente ed ogni tanto apprezzava la compagnia di qualche uomo, soprattutto se aveva una schiava magnifica come quella rossa. Alessia, rossa a parte, trovava affascinante quell’uomo. Era alto, dinoccolato, con i capelli neri cortissimi e occhi grigi di ghiaccio, implacabili, il viso duro e scolpito, ma addolcito da un sorriso facile ed ironico. L’uomo si muoveva con eleganza, ma senza affettazione. Era in forma, rilassato, agile e prestante.
Le due schiave spiavano silenti i due Padroni mentre chiacchieravano sempre più coinvolti. Si osservavano di sottecchi, riconoscevano la bellezza dell’altra e sentivano una fitta di gelosia l’una verso l’altra, ma… anche di desiderio. Però non sapevano se verso l’altra o verso quei due Padroni che ora stavano spudoratamente flirtando l’uno con l’altra. L’uomo stava consigliando alla donna un bianco fermo e fruttato, adattissimo a quello che Alessia desiderava per cena quella sera. Per confermare le rispettive impressioni nessuno dei due aveva presentato la rispettiva accompagnatrice all’altro o all’altra. Come per dire, loro non sono importanti, sono solo le nostre schiave. Infatti le ignorarono. Quando i due si mossero Debby e Marina si accodarono dietro di loro senza neanche essere state interpellate, neanche con un cenno, ed a quel punto fu chiaro per tutti quale fosse il loro ruolo.

Il Padrone e la Padrona si accomodarono in un tavolino per due in un bar del centro commerciale, le due schiave senza che fosse stata ancora rivolta loro una parola si sedettero, spingendo i loro carrelli, in un tavolino vicino. Marina e Debby non avevano ancora osato scambiarsi una parola, ma una volta seduti una di fronte all’altra osarono guardarsi negli occhi e si sorrisero, Entrambe non osavano parlare, ma guardandosi si piacquero ed inevitabilmente guardarono verso i loro Padroni. Erano una bella coppia ed una fitta di gelosia, un po’ di preoccupazione e di timore, prese entrambe.
Incuranti dei sentimenti delle loro schiave, i due padroni stavano facendo conoscenza e pure loro guardarono alle loro schiave, In questo caso nei loro occhi non c’era nessuna preoccupazione, solo desiderio e lussuria, Entrambi erano irresistibilmente attratti dalla schiava dell’altro e dell’altra, non vedevano l’ora che quella conoscenza progredisse fino all’inevitabile. Alessia e Marco ordinarono dei caffè ed ancora una volta, senza interpellarle, dissero al cameriere di portare un tè al tavolo delle due signore.

- Come si chiama la tua – chiese Marco.
- Deborah, ma io la chiamo Debby, - rispose Alessia, - e la tua? –
- Marina, ce l’ho da quattro mesi, la sto ancora addestrando. E’ sposata, ma suo marito non è un problema. –
Alessia inarcò un sopracciglio. – Un cornuto contento? -
- Contentissimo, è felice che un altro uomo si prenda cura di sua moglie. –
Marco non disse altro, in verità Marina non gli aveva detto molto e lui non aveva insistito per sapere di più. L’unica cosa che gli aveva detto, ed era quello che interessava a Marco, era che a parte qualche impegno che il marito poteva richiederle e naturalmente il lavoro che l’impegna molto, lei era completamente a sua disposizione per tutto il tempo che la voleva. Lui la voleva sempre, notte e giorno.
Alessia sorrise. - Bene, allora vi invito a cena. Comunque Debby è con me da un anno, quindi è sicuramente più avanti della tua. – sorrise Alessia. – Dimenticavo, visto che andiamo a casa mia… lì ho un’altra schiava, la mia serva. Purtroppo è molto meno bella di Debby. –
Marco sorrise. – Non importa, Deborah è stupenda, può fare per due ed anche per tre visto che è anche molto alta. -
Le due schiave avevano scambiato solo qualche sorriso tra di loro, erano imbarazzate e quindi stavano zitte, ma sentivano che tra loro c’era già feeling.

Lui aveva osservato la scena ed anche lui aveva capito come stavano le cose. Le donne erano tutte molto belle, fuori dal suo target normale, ma la fragilità della giovanissima spilungona l’aveva attratto irresistibilmente. Gli era diventato duro immediatamente. Indossava dei jeans stretti e l’erezione si vedeva. Lui si guardò e sorrise senza nessun imbarazzo. Guardassero pure, maschi e femmine. L’erezione si afflosciò un po’ quando si mise a riflettere. Ea indeciso, era una situazione pericolosa. Aveva la capezzoluta ormai da un paio di mesi e se la stava spassando alla grande. Ormai era un burattino nelle sue mani, nessun segno di ribellione e sottomissione totale al suo volere, inoltre era bella calda e si era assuefatta alle sue perversioni incredibilmente bene. Lui pensava che la cagna si stava abituando a quella nuova vita e che incominciava a piacerle. Eppure la spilungona aveva ridestato in lui la voglia della caccia, la voleva, sapeva che era una cazzata, ma la voleva. Il cazzo era ridiventato duro ed i jeans lo trattenevano a fatica.
Poi quella comitiva si mosse e lui la seguì, era combattuto, pensava di non fare niente, ma seguirli non gli costava niente e non lo metteva in pericolo.
Con la tedesca era andato tutto benissimo. Stranamente non la cercava nessuno. L’aveva interrogata, era una sbandata, senza fissa dimora, senza lavoro e senza famiglia, solo qualche amico in Germania che sapeva che era in Italia. Aveva recuperato la sua macchina e l’aveva messa in garage, a casa sua. Da lui non veniva nessuno, dai clienti andava lui. La tedesca era scomparsa e nessuno la cercava. Se la poteva tenere a lungo, gli aveva dato già grandi soddisfazioni.

La cagna era nuda, rinchiusa nel retro del furgone e nelle condizioni di non nuocere, una catena ad una caviglia, le mani legate dietro la schiena ed imbavagliata. Lui seguì le due coppie fino ad un condominio abbastanza lussuoso. Quando li vide sparire in un portone parcheggiò, andò nel retro del furgone e prese la cagna con particolare foga e ferocia. La morse sui capezzoli e se la sbatté bestialmente. La cagna guaì e si dibatté, ma non c’era niente da fare, lui era forte, molto più di lei e lei non poté far altro che subire. Sapeva che protestando non avrebbe ottenuto nulla, anzi. L’ultima volta che l’aveva fatto se ne era pentita amaramente, Lui l’aveva schiaffeggiata con quelle mani di acciaio, dure ed implacabili. Però era perplessa e spaventata, ormai era molto tempo che non la trattava più in quel modo spietato, sembrava fosse tornato all’inizio. In più, nonostante la ferocia, sembrava che non pensasse a lei. Ormai lo conosceva, sembrava che pensasse ad altro anche se stava scopando lei ed era duro, molto duro. Poi la cagna, nonostante tutto, iniziò a godere gorgogliando e mormorando parole sconnesse in tedesco. Quando era eccitata ritornava alla lingua madre.
La cagna non si sbagliava, anche se non conosceva il motivo del turbamento del suo Padrone. Lui pensava alla spilungona ed era così feroce perché era molto combattuto, sapeva che rapire la spilungona era pericolosissimo, non lo doveva fare, era contro tutte le regole che si era dato. La prima diceva che dovevano essere sole e questa non lo era. La seconda diceva che dovevano avere uno stile di vita alternativo, definiamolo così, e questa invece sembrava perfettamente integrata, anche se sicuramente trasgressiva. Però, mentre così pensava, non riusciva ad andare via, ad allontanarsi da quel portone. Intanto si sfogava con la cagna capezzoluta, crudelmente.
Rimase lì fino al mattino, facendo la spola tra la cabina da cui osservava il portone ed il retro del furgone dove si sbatteva la cagna ripetutamente, ma senza riuscire a saziarsi. Verso le due vide uscire l’uomo con la rossa, erano vestiti come quando erano entrati, quindi non stavano lì. Attese fino alle otto, l’ora in cui la spilungona, vestita con sobria eleganza e con un tablet sotto braccio uscì per andare all’università. La seguì e quando vide dove andava se ne ritornò a casa. Era stanco ed era cosciente del pericolo, quindi non fece niente, ma ormai il tarlo gli era entrato in testa. Sapeva che non se ne sarebbe liberato. Voleva sbattere la testa da qualche parte, farsi male, per ritornare alla ragione, ma sapeva che anche quello non sarebbe servito a niente. Forse con il tempo l’avrebbe dimenticata, ci sperava, ma gli dispiaceva.

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