Effetti Collaterali: Capitolo 3
di
RoomiesMA
genere
prime esperienze
Febbraio arrivò con un cielo bianco e temperature che ghiacciavano i vetri dell'appartamento, ma a me non era mai sembrato così caldo.
Erano passati due mesi e mezzo da quella mattina in cui mia madre aveva scoperto il nostro segreto (o meglio, il nostro disordine). Due mesi in cui io e Asia avevamo smesso di essere due coinquilini clandestini per diventare, semplicemente, noi.
Eravamo usciti allo scoperto quasi subito, stanchi di fingere. All'università eravamo diventati inseparabili: arrivavamo a lezione mano nella mano, dividevamo il banco e il pranzo. I miei amici adoravano il suo sarcasmo tagliente, le sue amiche ridevano delle mie battute pessime.
Passavamo molte sere fuori a cena, passeggiate infinite in centro e di domeniche invernali pigre, passate interamente a letto a guardare serie TV, ordinare cibo cinese e fare l'amore con la lentezza di chi sa di avere tutto il tempo del mondo.
C'era una complicità tra noi che mi faceva sentire invincibile. Lei era la mia migliore amica e la mia amante. Eravamo felici.
Poi, un episodio ruppe l'incantesimo.
Successe un martedì pomeriggio. Asia rientrò dopo aver passato la mattinata da sua madre e rimase a fissare il vuoto per cinque minuti.
" Che hai? " domandai intuendo che c'era qualcosa che non andava.
"Papà ha perso il lavoro," disse, con una calma che mi spaventò più delle lacrime.
La crisi si infiltrò nella nostra vita non con un'esplosione, ma come una perdita d'acqua lenta e costante. I soldi in casa sua, già pochi, erano finiti.
Asia, orgogliosa e testarda come sempre, decise di non chiedere aiuto a nessuno. Trovò lavoro in un pub del centro: serviva ai tavoli tre sere a settimana e nel weekend, fino alle due di notte.
All'inizio sembrò gestibile. "È solo temporaneo, Mike," mi diceva, dandomi un bacio veloce prima di uscire col grembiule in borsa.
Ma il tempo passava e la fatica iniziò ad accumularsi.
La nostra routine perfetta si sgretolò. Io studiavo la sera da solo, aspettando il rumore della chiave nella toppa a notte fonda. Lei rientrava esausta, con l'odore di birra e fritto addosso, troppo stanca per parlare, troppo stanca per l'intimità, troppo stanca persino per sorridere.
Iniziai a vederla sempre meno, anche quando eravamo nella stessa stanza. I suoi voti calarono leggermente, nulla di disastroso, ma per lei che puntava all'eccellenza fu un colpo durissimo. La vedevo assottigliarsi, diventare un'ombra nervosa che si muoveva per casa cercando di tenere insieme i pezzi di una vita che le stava sfuggendo di mano. E io, dal divano, guardavo la donna che amavo consumarsi, sentendomi impotente.
Un venerdì sera decisi che avevo bisogno di aria.
L'appartamento era vuoto. Asia era di turno al pub, irraggiungibile dietro una barriera di birre alla spina e clienti ubriachi. Il silenzio in casa, solitamente il mio alleato per lo studio, quella sera mi stava schiacciando. Sapeva di bollette non pagate e di preoccupazioni che non erano le mie, ma che mi sentivo cucite addosso.
Accettai l'invito di Lorenzo. C'erano anche Giordano ed Evelyn, i superstiti della mia vita pre-Medicina. Ci ritrovammo "da Schizzo", il nostro vecchio covo: un locale che puzzava di fritto stantio e adolescenza mai finita.
Fu una bella serata, leggera. Per un paio d'ore dimenticai gli esami e il viso stanco di Asia.
Poi arrivò lei.
Francesca.
La sorella minore di Lorenzo aveva diciannove anni ed era sbocciata in un modo che definire pericoloso era un eufemismo. Era alta, almeno un metro e settanta, e camminava tra i tavoli con una sicurezza arrogante che faceva girare la testa a metà del locale.
Era castana, con una cascata di capelli lucidi e mossi che le scendevano sulle spalle. Aveva un viso d'angelo dominato da due occhi da cerbiatta, grandi e scuri, ingannevolmente innocenti. Ma era il resto a togliere il fiato: aveva un fisico snello, slanciato, che però esplodeva in curve piene e morbide nei punti giusti, fasciate da un vestito che lasciava poco all'immaginazione. E poi c’erano quelle labbra: carnose, disegnate, perennemente piegate in un sorrisetto di chi sa di poter ottenere qualsiasi cosa. Salutò tutti con un cenno, poi guardò subito verso di me.
"Ciao, Michael," disse. Si appoggiò al mio lato del tavolo, sporgendosi quel tanto che bastava perché la scollatura della sua maglietta diventasse il centro dell'attenzione di tutto il tavolo. "È una vita che non ti fai vedere. L'università ti tiene occupato...."
Mi guardò dall'alto in basso. Non chiese come stavo. Non chiese di Asia. Per lei, Asia non era nemmeno un dettaglio fastidioso, era un fantasma che aveva deciso di non vedere.
"Ciao, Franci. Sei cresciuta," risposi, bevendo un sorso di birra per coprire l'imbarazzo.
"Già," rispose lei, con un sorriso che era una trappola per topi. "E tu sei diventato molto meno noioso del solito."
La serata finì tardi. Lorenzo, fedele alla sua fama di testa tra le nuvole, dimenticò il suo giubbotto sul sedile posteriore della mia Audi.
Qualche giorno dopo, una Domenica pomeriggio di metà febbraio, fuori si gelava. Il cielo era una lastra di metallo grigio e l'aria tagliava la faccia.
Parcheggiai l'Audi davanti a casa di Lorenzo. Ero passato solo per restituirgli il giubbotto che aveva dimenticato nella mia auto venerdì sera. Volevo fare una toccata e fuga: mollare il giubbotto, inventare una scusa per non fermarmi e tornare a casa mia, dove probabilmente avrei trovato Asia addormentata sui libri o, peggio, assente per l'ennesimo turno extra.
Suonai il campanello, stringendomi nel mio cappotto.
Mi aspettavo Lorenzo, o magari sua madre.
Invece aprì Francesca.
L'impatto fu immediato. Casa loro era sempre riscaldata a temperature tropicali, e lei ne approfittava.
Indossava un maxi-pull di lana grigia, morbido, con lo scollo ampio che le scivolava su una spalla lasciandola nuda. Il maglione era abbastanza lungo da coprirle il sedere, ma appena sufficiente da lasciare scoperte le gambe. Niente pantaloni. Indossava solo un paio di parigine nere, quei calzettoni che arrivano sopra il ginocchio, lasciando quella fascia di pelle nuda sulla coscia che, non so perché, è più erotica di qualsiasi nudità completa.
Mi fissò, e nel suo sguardo non c'era sorpresa. C'era calcolo.
"Ciao," dissi, la gola improvvisamente secca. Il contrasto tra il gelo alle mie spalle e il calore che emanava lei era stordente. "C'è Lorenzo? Ha lasciato questo."
Francesca si appoggiò allo stipite, bloccando l'ingresso ma lasciando ampio spazio per farmi guardare. Sorrise, un sorriso da gatta pigra e pericolosa.
"Lorenzo è uscito con Saverio, ma dovrebbe rientrare a breve," mentì. Lo capii subito, ma lei era brava.
" Entra, dai. O vuoi congelare lì fuori?"
Esitai. L'istinto mi diceva di lanciare il giubbotto e correre via. Ma il freddo mi mordeva le ossa.
"Entro solo un attimo."
"Bravo," sussurrò lei, prendendomi per la manica del cappotto e tirandomi dentro.
La casa era silenziosa e calda, avvolta in un profumo di vaniglia e legno. Mi fece togliere il cappotto e mi guidò in salotto.
"Ti porto qualcosa di caldo?" chiese.
Non aspettò la risposta. Andò in cucina. Il maglione le copriva appena le natiche mentre camminava. Ogni passo era studiato.
Tornò non con un tè, ma con due bicchieri di brandy. "Per scaldarci," disse, con un luccichio negli occhi.
Si sedette accanto a me. Troppo a mio parere. Ritirò le gambe sotto il maglione, e il tessuto di lana grigia si tese, scoprendo ancora di più le cosce.
Non parlò di Asia. Non parlò dell'università. Non parlò di nulla.
Mi guardò e basta. Mi guardò come se fossi l'unica cosa solida in un mondo che stava crollando.
"L'altra sera ti ho visto un po' teso, Michael," sussurrò, posando il bicchiere.
Allungò una mano e mi toccò il viso. Le sue dita erano calde, profumate di crema. Tracciò la linea della mia mascella, poi scese sul collo.
"Francesca..." provai a dire, ma la voce mi morì in gola quando lei si mosse.
Con un movimento fluido, si mise a cavalcioni su di me. Mi mise un dito sulle labbra per zittirmi.
" Non dire niente "
Le sue ginocchia premevano contro i miei fianchi, intrappolandomi contro lo schienale del divano. Sentivo il calore umido del suo corpo attraverso i miei jeans, il peso morbido delle sue cosce.
Non disse una parola. Sapeva che nominare Asia avrebbe rotto l'incantesimo. Lei voleva che io dimenticassi chi ero.
Mi prese le mani e se le portò sui fianchi, sotto il maglione. La sua pelle era bollente, liscia come seta. Un brivido violento mi percorse la schiena.
Ero stanco. Ero affamato di contatto, di adorazione, di qualcosa che fosse facile. E lei era lì, bellissima, che mi offriva tutto questo su un piatto d'argento.
Lei si chinò su di me, i capelli che ci chiudevano in una tenda privata. Le sue mani scesero sul mio petto, poi più giù.
Sentii il clic della mia cintura.
Il mio respiro si spezzò. Non la fermai.
La zip scese.
La mano di Francesca, piccola e imprudente, scivolò dentro i miei boxer.
Il contatto diretto fu uno shock. Inarcai la schiena, un gemito soffocato mi scappò dalle labbra. Lei mi strinse, muovendo la mano con una lentezza esperta, torturante. Il mio corpo rispose immediatamente, tradendomi, indurendosi contro il suo palmo.
Ero perso. Ero a un millimetro dal cedere completamente, dal prenderla lì, su quel divano, dimenticando ogni promessa, ogni dovere, ogni amore.
Lei vide che ero al limite. Sorrise, un sorriso di trionfo puro.
Si avvicinò al mio viso poi mi morse leggermente sul collo per non lasciare segni. Sentivo il suo respiro e le sue labbra risalire la parte laterale del mio collo fino a quando le sue labbra arrivarono a un soffio dalle mie.
Ma non mi baciò.
Aprì la bocca e tirò fuori la lingua, passandola lentamente, oscenamente, sul mio labbro inferiore, mordendolo subito dopo. Una scia umida, calda, che prometteva tutto lo sporco che volevo.
Quel gesto. Quella sensazione bagnata.
Fu come un interruttore.
Non era il bacio di Asia. Asia non mi avrebbe mai leccato con quella freddezza calcolata. Asia mi baciava per respirare, Francesca voleva solo sesso.
Improvvisamente, mi passarono per la mente tutti i momenti passati con Asia, erano pochi si, ma erano stati veri e sinceri.
Il disgusto verso me stesso mi colpì come un pugno.
Fermai la mano di Francesca, bloccandola dentro i miei boxer. La strinsi forte, forse troppo.
"No," ansimai.
Lei si bloccò, gli occhi sgranati. " Rilassati, non pensarci. Sappiamo entrambi che lo vuoi."
"Spostati," ringhiai.
La spinsi via con forza, facendola sedere sul divano. Mi alzai di scatto, tremando, le mani che cercavano freneticamente di chiudere la zip e la cintura, coprendo la prova del mio tradimento quasi consumato.
Francesca rimase lì, il maglione sollevato, le labbra ancora lucide di saliva, a guardarmi con un misto di shock e rabbia.
"Sei un idiota" sibilò. "Potevamo divertirci."
Non risposi. Non potevo guardarla. Non potevo guardare me stesso.
Presi il cappotto e scappai fuori, nell'aria gelida di febbraio, con il suo profumo che si era attaccato su di me e il cuore che batteva di terrore per quello che avevo quasi fatto.
Non andai subito a casa. Non potevo. Mi sentivo addosso l'odore di quella casa troppo calda, il sapore dolciastro del profumo di Francesca e, peggio ancora, la sensazione fantasma della sua mano su di me. Mi sentivo sporco, anche se mi ero fermato in tempo.
Guidai fino al primo Burger King sulla statale. Mangiai un panino che sapeva di cartone e grasso seduto ad un tavolo.
Mi lavai le mani nel bagno del locale tre volte, sfregando finché la pelle non divenne rossa, come a voler cancellare ogni traccia di quel pomeriggio. Mi guardai allo specchio per vedere se Francesca avesse lasciano i segni dei suoi denti sul mio collo.
Rientrai a casa verso le nove.
Mi aspettavo il buio e il silenzio. Asia avrebbe dovuto essere al pub a spillare birre fino alle due.
Invece, vidi una lama di luce provenire dalla cucina.
Entrai piano, togliendomi le scarpe per non fare rumore.
La scena che mi trovai davanti mi tolse il fiato, ma in un modo completamente diverso da quello di poche ore prima.
Asia era addormentata al tavolo della cucina.
Aveva la testa appoggiata sulle braccia incrociate sopra il librone di Fisiopatologia. Indossava una mia vecchia felpa grigia, di quelle sformate che lei adorava usare per studiare.
Accanto al suo braccio, un bicchiere d'acqua si era rovesciato.
Il liquido si era allargato sul tavolo, inzuppando i fogli degli appunti e, soprattutto, i suoi capelli. Una lunga ciocca rossa era completamente bagnata, scura, incollata alla guancia pallida e al legno del tavolo.
Dormiva con la bocca leggermente aperta, e nel silenzio della stanza sentivo il suo respiro pesante, irregolare, tipico di chi è crollato per sfinimento puro.
Rimasi a guardarla per un minuto intero.
Poco prima avevo avuto tra le mani un corpo perfetto, disponibile, che non chiedeva nulla se non piacere.
Ora guardavo Asia. Spettinata, stanca morta, circondata dai debiti e dai libri, con i capelli bagnati dall'acqua rovesciata.
E in quel momento, sentii un'ondata di amore così potente da farmi quasi male fisicamente. Francesca era un miraggio. Asia era la mia realtà. La mia bellissima, incasinata, faticosa realtà.
Mi avvicinai.
"Asia..." sussurrai, ma lei non si mosse.
Allungai una mano e le scostai delicatamente la ciocca di capelli bagnata dal viso. Era gelida.
Non potevo lasciarla lì. Si sarebbe svegliata con il collo bloccato e infreddolita.
Mi chinai e le passai un braccio sotto le gambe e l'altro dietro la schiena.
La sollevai.
Era leggera. Troppo leggera. Il lavoro e lo stress la stavano consumando, e sentii una fitta di senso di colpa per aver anche solo pensato di tradirla mentre lei cercava di trovare un equilibrio tra relazione, studio e lavoro.
Lei mugugnò qualcosa nel sonno, aggrottando la fronte, e d'istinto nascose il viso nel mio collo.
"Shhh, sono io," mormorai, baciandole la tempia. "Ti porto a letto."
La portai in camera nostra, camminando al buio, guidato solo dalla memoria.
La adagiai sul materasso con una cautela infinita, come se fosse di cristallo incrinato.
Il contatto con il cuscino fresco la fece reagire. Asia aprì gli occhi di scatto, disorientata, colta da quel panico improvviso di chi sa di essersi addormentato nel momento sbagliato.
"No... no, che ore sono?" annaspò, cercando di tirarsi su sui gomiti, la voce impastata e debole. "Il libro... ho rovesciato l'acqua. Devo asciugare... devo finire il capitolo sulla necrosi..."
Provò a mettere le gambe giù dal letto, ma era un movimento scoordinato, privo di forza. Tremava.
Mi sedetti sul bordo e le misi una mano sul petto, spingendola delicatamente indietro, verso i cuscini.
"Ehi, ehi. Ferma," sussurrai. "È tutto a posto. Ho asciugato io. I libri sono salvi."
"Ma devo studiare, Michael," insistette lei, e i suoi occhi si riempirono di lacrime di frustrazione. "Non so niente. Se non passo questo esame, perdo la borsa di studio, e se perdo la borsa..."
"Shhh."
Le presi il viso tra le mani. Le sue guance erano fredde, solcate dai segni lasciati dalle pagine su cui aveva dormito.
"Non devi fare niente adesso. Solo dormire. Sei esausta, Asia. Guardati."
Lei smise di lottare. La forza nervosa la abbandonò di colpo, lasciandola ricadere sul materasso come una bambola di pezza.
"Non ce la faccio più," ammise, un sussurro così flebile che mi spezzò il cuore. "Mi sento come se stessi crollando."
Non risposi a parole. Mi tolsi le scarpe e i jeans, restando in boxer e maglietta, e mi infilai sotto le coperte accanto a lei.
Non c'era malizia. Non c'era lussuria. C'era solo un disperato bisogno di contatto.
La tirai verso di me. Lei si rannicchiò immediatamente contro il mio petto, incastrando la testa sotto il mio mento, le sue mani fredde che cercavano calore sotto la mia maglietta, appoggiandosi sulla mia pelle.
Iniziai ad accarezzarle i capelli, districando i nodi con le dita, passando più e più volte sulla ciocca che era ancora umida.
"È normale, stai passando un momento delicato." le dissi piano, baciandole la sommità della testa. "Ci sono io. Ne usciamo insieme."
Lei alzò il viso verso il mio nel buio. I nostri nasi si sfiorarono.
"Sei lunico che ha capito la mia situazione fin'ora" mi disse, e sentii la paura nella sua voce. "Non è facile stare con me, Mike. Sono sempre nervosa a causa dei miei e questo si ripercuote nelle mie relazioni."
Il pensiero di Francesca – perfetta, disponibile, facile – mi attraversò la mente per un millisecondo, solo per essere spazzato.
Guardai Asia. Guardai le sue occhiaie, le sue labbra screpolate, la sua anima nuda.
"A me piaci cosi come sei" risposi, guardandola negli occhi. "Voglio te. Voglio i tuoi disastri. Voglio le tue sfuriate."
Le diedi un bacio leggero sulla fronte. Poi lei si addormentò sul con la testa sul mio petto
Rimasi sveglio a lungo, ad ascoltare il suo respiro che si faceva regolare, tenendola stretta come se fosse la cosa più preziosa del mondo. Fuori faceva freddo, ma lì, sotto quel piumone, avevo tutto il calore di cui avrei mai avuto bisogno.
Tre giorni dopo. Mercoledì sera.
Ero spaparanzato sul divano. In TV c'era Inter-Liverpool, Ottavi di champions. Una partita che aspettavo da settimane. L'Inter stava soffrendo, e io con loro, urlando contro lo schermo.
Erano le 21:40.
La porta d'ingresso si spalancò come se fosse stata calciata.
Asia entrò. Era pallida, gli occhi cerchiati di rosso, i capelli in disordine. Non mi guardò nemmeno.
Lanciò la borsa di anatomia sul pavimento con una violenza inaudita. I libri si sparsero sul parquet con un tonfo sordo. Poi lanciò le chiavi contro il muro.
"Asia?" chiesi, abbassando il volume col telecomando.
Nessuna risposta. Corse verso il bagno, entrò e chiuse la porta.
Rimasi lì, col telecomando in mano, mentre l'Inter subiva un contropiede.
Dalla camera arrivò un suono che non sentivo da mesi. Un pianto. Non un pianto silenzioso, ma singhiozzi, disperati, di chi non ce la fa più a tenere tutto dentro.
Spensi la TV. Al diavolo il Liverpool.
Mi avvicinai alla porta del bagno.
"Asia," chiamai, la voce calma. "Apri."
"Vattene!" urlò lei, la voce strozzata. "Lasciami sola! Voglio stare sola!"
"Almeno dimmi cosa è successo. Avanti, apri la porta" dissi, appoggiando la fronte al legno della porta. "Tanto non me ne vado. Prima o poi dovrai uscire da li dentro."
"La mia famiglia, Michael. Sono sempre loro la causa dei miei problemi... lasciami stare adesso dai!"
"E pensi che startene seduta sul cesso a piangere migliori le cose? Te lo dico io NO."
Silenzio. Solo il suo respiro affannoso.
Poi, lentamente, il rumore della chiave che girava.
La porta si aprì.
Asia era in piedi davanti a me. Tremava. Aveva il mascara colato sulle guance e le mani strette a pugno lungo i fianchi. Sembrava un animale ferito pronto ad attaccare per difesa.
Non dissi nulla.
"È successo di nuovo," singhiozzò lei, cedendo di colpo. "Mia madre... ha chiamato i carabinieri perché diceva che papà la minacciava. Sono andata lì. Stavano urlando per i soldi. Di nuovo. Davanti a tutti i vicini. Mi vergogno, Michael. Mi vergogno da morire."
Mi avvicinai e la presi tra le braccia. Lei cercò di divincolarsi debolmente, colpendomi il petto con i pugni, ma io la strinsi più forte.
"Basta," le sussurrai tra i capelli. "Non pensarci. Ti fa solo più male. Lo so che ci tieni, è la tua famiglia ma non puoi caricarti tutto sulle spalle"
Lei smise di lottare e si aggrappò a me, affondando il viso nella mia maglietta, bagnandola di lacrime. Continuò a piangere per minuti interminabili, svuotandosi di tutto il veleno accumulato in settimane di silenzio.
Poi, accadde qualcosa. Il pianto cambiò.
Alzò il viso verso il mio. I suoi occhi erano lucidi, disperati, ma non più di tristezza. Era un bisogno viscerale di sentire qualcosa di diverso dal dolore. Un bisogno di vita.
"Fammi smettere di pensarci," mi pregò, la voce roca. "Non voglio pensare a niente"
Mi baciò. Sapeva di sale e di disperazione.
Non fu un bacio dolce. Fu uno scontro. C'era rabbia, c'era la paura di perdermi, c'era la frustrazione per quella stronza di Francesca che non sapeva neanche cosa cosa fosse l'amore.
La sollevai di peso. Lei avvolse le gambe intorno alla mia vita, stringendomi con una forza sorprendente. La portai verso il mobile del bagno, senza mai staccare la bocca dalla sua.
La misi seduta sul mobile, i vestiti deventarono ostacoli da strappare via.
"Sei mia," le dissi, guardandola negli occhi, mentre le toglievo la maglietta bagnata di lacrime. "Mia e di nessun altro. Capito?"
"Solo noi," ansimò lei, tirandomi verso di sé, le unghie che graffiavano la mia schiena.
Mi staccai un secondo da lei, ma giusto il tempo di toglierci tutto. Il mio cazzo era già pronto per penetrarla.
" Lo facciamo senza? "
" Non mi va di andare di la a prenderlo. Non ti vengo dentro, tranquilla "
" Stai attento però "
Aprii le sue cosce e cominciai a penetrarla, lentamente, poi con più decisione quando la vidi più tranquilla. Le afferrai i seni pieni, li strinsi tra le mie mani e assaporai i suoi capezzoli con la lingua. Le sua mani invece afferrarono i miei glutei e le sue gambe divennero una gabbia aggrappate alle mie.
" Oddio sii, spingi ti prego "
Continuavo senza fermarmi, guidando ogni movimento con moderazione per gestire la mia resistenza. Lei gemette, cercò le mie labbra.
" Non fermarti ti prego, voglio sentirti " diceva ansimando
Continuai ancora per un po' poi mi fermai
" Andiamo in camera "
La sollevai di nuovo e ci spostammo nella mia camera.
La buttai sul letto, io mi misi seduto con la schiena poggiata sulla testiera. Asia gattonò verso di me. Le sue labbra incontrarono la mia cappella. Aprì la bocca cominciando a succhiarmi la punta. Gemetti. Misi una mano sulla sua testa e la spinsi più affondo. Sentivo il mio cazzo pulsare dentro la sua bocca calda. Si staccò riprendendo fiato con un respiro profondo. Era bellissimo, sentivo la sua lingua assaporare tutta la mia cappella. Ogni tanto sentivo anche i suoi denti strusciare sul cazzo, ma no fa niente, la perdonai.
" Scopami, voglio che mi scopi "
Non me lo feci ripetere. Presi un preservativo e la misi a quattro zampe. Entrai dentro con un colpo secco, riempiendola fino in fondo. Urlò, affondando il viso sulle lenzuola. La scopavo con forza crescente, il suo culo che sbatteva contro il mio ventre ad ogni colpo mi eccotava sempre di più. Strillò di piacere, ebbe un orgasmo con scosse rapide, mentre la penetravo. Il ritmo diventò martellante, sentivo il mio cazzo pulsare dentro di lei, pronto a esplodere.
Un urlo di piacere mi scappò dalla bocca. Uscii dalla sua figa, completamente zuppa e gocciolante, la feci sdraiare, strappai via il profilattico e venni sulle sue tette fino all'ultimo getto, ansimando.
Eravamo sudati, esausti. Nessuna parola. Solo il rumore del respiro e l'odore di sesso che impregnava la stanza. Mi sdraiai accanto a lei, ansimante.
In quella stanza, mentre fuori il mondo continuava a girare e l'Inter probabilmente perdeva, noi stavamo vincendo la nostra battaglia personale. Facevamo l'amore non solo per piacere, ma per guarire. Per dimostrarci che eravamo più forti del casino che ci circondava.
(...Continua...)
Erano passati due mesi e mezzo da quella mattina in cui mia madre aveva scoperto il nostro segreto (o meglio, il nostro disordine). Due mesi in cui io e Asia avevamo smesso di essere due coinquilini clandestini per diventare, semplicemente, noi.
Eravamo usciti allo scoperto quasi subito, stanchi di fingere. All'università eravamo diventati inseparabili: arrivavamo a lezione mano nella mano, dividevamo il banco e il pranzo. I miei amici adoravano il suo sarcasmo tagliente, le sue amiche ridevano delle mie battute pessime.
Passavamo molte sere fuori a cena, passeggiate infinite in centro e di domeniche invernali pigre, passate interamente a letto a guardare serie TV, ordinare cibo cinese e fare l'amore con la lentezza di chi sa di avere tutto il tempo del mondo.
C'era una complicità tra noi che mi faceva sentire invincibile. Lei era la mia migliore amica e la mia amante. Eravamo felici.
Poi, un episodio ruppe l'incantesimo.
Successe un martedì pomeriggio. Asia rientrò dopo aver passato la mattinata da sua madre e rimase a fissare il vuoto per cinque minuti.
" Che hai? " domandai intuendo che c'era qualcosa che non andava.
"Papà ha perso il lavoro," disse, con una calma che mi spaventò più delle lacrime.
La crisi si infiltrò nella nostra vita non con un'esplosione, ma come una perdita d'acqua lenta e costante. I soldi in casa sua, già pochi, erano finiti.
Asia, orgogliosa e testarda come sempre, decise di non chiedere aiuto a nessuno. Trovò lavoro in un pub del centro: serviva ai tavoli tre sere a settimana e nel weekend, fino alle due di notte.
All'inizio sembrò gestibile. "È solo temporaneo, Mike," mi diceva, dandomi un bacio veloce prima di uscire col grembiule in borsa.
Ma il tempo passava e la fatica iniziò ad accumularsi.
La nostra routine perfetta si sgretolò. Io studiavo la sera da solo, aspettando il rumore della chiave nella toppa a notte fonda. Lei rientrava esausta, con l'odore di birra e fritto addosso, troppo stanca per parlare, troppo stanca per l'intimità, troppo stanca persino per sorridere.
Iniziai a vederla sempre meno, anche quando eravamo nella stessa stanza. I suoi voti calarono leggermente, nulla di disastroso, ma per lei che puntava all'eccellenza fu un colpo durissimo. La vedevo assottigliarsi, diventare un'ombra nervosa che si muoveva per casa cercando di tenere insieme i pezzi di una vita che le stava sfuggendo di mano. E io, dal divano, guardavo la donna che amavo consumarsi, sentendomi impotente.
Un venerdì sera decisi che avevo bisogno di aria.
L'appartamento era vuoto. Asia era di turno al pub, irraggiungibile dietro una barriera di birre alla spina e clienti ubriachi. Il silenzio in casa, solitamente il mio alleato per lo studio, quella sera mi stava schiacciando. Sapeva di bollette non pagate e di preoccupazioni che non erano le mie, ma che mi sentivo cucite addosso.
Accettai l'invito di Lorenzo. C'erano anche Giordano ed Evelyn, i superstiti della mia vita pre-Medicina. Ci ritrovammo "da Schizzo", il nostro vecchio covo: un locale che puzzava di fritto stantio e adolescenza mai finita.
Fu una bella serata, leggera. Per un paio d'ore dimenticai gli esami e il viso stanco di Asia.
Poi arrivò lei.
Francesca.
La sorella minore di Lorenzo aveva diciannove anni ed era sbocciata in un modo che definire pericoloso era un eufemismo. Era alta, almeno un metro e settanta, e camminava tra i tavoli con una sicurezza arrogante che faceva girare la testa a metà del locale.
Era castana, con una cascata di capelli lucidi e mossi che le scendevano sulle spalle. Aveva un viso d'angelo dominato da due occhi da cerbiatta, grandi e scuri, ingannevolmente innocenti. Ma era il resto a togliere il fiato: aveva un fisico snello, slanciato, che però esplodeva in curve piene e morbide nei punti giusti, fasciate da un vestito che lasciava poco all'immaginazione. E poi c’erano quelle labbra: carnose, disegnate, perennemente piegate in un sorrisetto di chi sa di poter ottenere qualsiasi cosa. Salutò tutti con un cenno, poi guardò subito verso di me.
"Ciao, Michael," disse. Si appoggiò al mio lato del tavolo, sporgendosi quel tanto che bastava perché la scollatura della sua maglietta diventasse il centro dell'attenzione di tutto il tavolo. "È una vita che non ti fai vedere. L'università ti tiene occupato...."
Mi guardò dall'alto in basso. Non chiese come stavo. Non chiese di Asia. Per lei, Asia non era nemmeno un dettaglio fastidioso, era un fantasma che aveva deciso di non vedere.
"Ciao, Franci. Sei cresciuta," risposi, bevendo un sorso di birra per coprire l'imbarazzo.
"Già," rispose lei, con un sorriso che era una trappola per topi. "E tu sei diventato molto meno noioso del solito."
La serata finì tardi. Lorenzo, fedele alla sua fama di testa tra le nuvole, dimenticò il suo giubbotto sul sedile posteriore della mia Audi.
Qualche giorno dopo, una Domenica pomeriggio di metà febbraio, fuori si gelava. Il cielo era una lastra di metallo grigio e l'aria tagliava la faccia.
Parcheggiai l'Audi davanti a casa di Lorenzo. Ero passato solo per restituirgli il giubbotto che aveva dimenticato nella mia auto venerdì sera. Volevo fare una toccata e fuga: mollare il giubbotto, inventare una scusa per non fermarmi e tornare a casa mia, dove probabilmente avrei trovato Asia addormentata sui libri o, peggio, assente per l'ennesimo turno extra.
Suonai il campanello, stringendomi nel mio cappotto.
Mi aspettavo Lorenzo, o magari sua madre.
Invece aprì Francesca.
L'impatto fu immediato. Casa loro era sempre riscaldata a temperature tropicali, e lei ne approfittava.
Indossava un maxi-pull di lana grigia, morbido, con lo scollo ampio che le scivolava su una spalla lasciandola nuda. Il maglione era abbastanza lungo da coprirle il sedere, ma appena sufficiente da lasciare scoperte le gambe. Niente pantaloni. Indossava solo un paio di parigine nere, quei calzettoni che arrivano sopra il ginocchio, lasciando quella fascia di pelle nuda sulla coscia che, non so perché, è più erotica di qualsiasi nudità completa.
Mi fissò, e nel suo sguardo non c'era sorpresa. C'era calcolo.
"Ciao," dissi, la gola improvvisamente secca. Il contrasto tra il gelo alle mie spalle e il calore che emanava lei era stordente. "C'è Lorenzo? Ha lasciato questo."
Francesca si appoggiò allo stipite, bloccando l'ingresso ma lasciando ampio spazio per farmi guardare. Sorrise, un sorriso da gatta pigra e pericolosa.
"Lorenzo è uscito con Saverio, ma dovrebbe rientrare a breve," mentì. Lo capii subito, ma lei era brava.
" Entra, dai. O vuoi congelare lì fuori?"
Esitai. L'istinto mi diceva di lanciare il giubbotto e correre via. Ma il freddo mi mordeva le ossa.
"Entro solo un attimo."
"Bravo," sussurrò lei, prendendomi per la manica del cappotto e tirandomi dentro.
La casa era silenziosa e calda, avvolta in un profumo di vaniglia e legno. Mi fece togliere il cappotto e mi guidò in salotto.
"Ti porto qualcosa di caldo?" chiese.
Non aspettò la risposta. Andò in cucina. Il maglione le copriva appena le natiche mentre camminava. Ogni passo era studiato.
Tornò non con un tè, ma con due bicchieri di brandy. "Per scaldarci," disse, con un luccichio negli occhi.
Si sedette accanto a me. Troppo a mio parere. Ritirò le gambe sotto il maglione, e il tessuto di lana grigia si tese, scoprendo ancora di più le cosce.
Non parlò di Asia. Non parlò dell'università. Non parlò di nulla.
Mi guardò e basta. Mi guardò come se fossi l'unica cosa solida in un mondo che stava crollando.
"L'altra sera ti ho visto un po' teso, Michael," sussurrò, posando il bicchiere.
Allungò una mano e mi toccò il viso. Le sue dita erano calde, profumate di crema. Tracciò la linea della mia mascella, poi scese sul collo.
"Francesca..." provai a dire, ma la voce mi morì in gola quando lei si mosse.
Con un movimento fluido, si mise a cavalcioni su di me. Mi mise un dito sulle labbra per zittirmi.
" Non dire niente "
Le sue ginocchia premevano contro i miei fianchi, intrappolandomi contro lo schienale del divano. Sentivo il calore umido del suo corpo attraverso i miei jeans, il peso morbido delle sue cosce.
Non disse una parola. Sapeva che nominare Asia avrebbe rotto l'incantesimo. Lei voleva che io dimenticassi chi ero.
Mi prese le mani e se le portò sui fianchi, sotto il maglione. La sua pelle era bollente, liscia come seta. Un brivido violento mi percorse la schiena.
Ero stanco. Ero affamato di contatto, di adorazione, di qualcosa che fosse facile. E lei era lì, bellissima, che mi offriva tutto questo su un piatto d'argento.
Lei si chinò su di me, i capelli che ci chiudevano in una tenda privata. Le sue mani scesero sul mio petto, poi più giù.
Sentii il clic della mia cintura.
Il mio respiro si spezzò. Non la fermai.
La zip scese.
La mano di Francesca, piccola e imprudente, scivolò dentro i miei boxer.
Il contatto diretto fu uno shock. Inarcai la schiena, un gemito soffocato mi scappò dalle labbra. Lei mi strinse, muovendo la mano con una lentezza esperta, torturante. Il mio corpo rispose immediatamente, tradendomi, indurendosi contro il suo palmo.
Ero perso. Ero a un millimetro dal cedere completamente, dal prenderla lì, su quel divano, dimenticando ogni promessa, ogni dovere, ogni amore.
Lei vide che ero al limite. Sorrise, un sorriso di trionfo puro.
Si avvicinò al mio viso poi mi morse leggermente sul collo per non lasciare segni. Sentivo il suo respiro e le sue labbra risalire la parte laterale del mio collo fino a quando le sue labbra arrivarono a un soffio dalle mie.
Ma non mi baciò.
Aprì la bocca e tirò fuori la lingua, passandola lentamente, oscenamente, sul mio labbro inferiore, mordendolo subito dopo. Una scia umida, calda, che prometteva tutto lo sporco che volevo.
Quel gesto. Quella sensazione bagnata.
Fu come un interruttore.
Non era il bacio di Asia. Asia non mi avrebbe mai leccato con quella freddezza calcolata. Asia mi baciava per respirare, Francesca voleva solo sesso.
Improvvisamente, mi passarono per la mente tutti i momenti passati con Asia, erano pochi si, ma erano stati veri e sinceri.
Il disgusto verso me stesso mi colpì come un pugno.
Fermai la mano di Francesca, bloccandola dentro i miei boxer. La strinsi forte, forse troppo.
"No," ansimai.
Lei si bloccò, gli occhi sgranati. " Rilassati, non pensarci. Sappiamo entrambi che lo vuoi."
"Spostati," ringhiai.
La spinsi via con forza, facendola sedere sul divano. Mi alzai di scatto, tremando, le mani che cercavano freneticamente di chiudere la zip e la cintura, coprendo la prova del mio tradimento quasi consumato.
Francesca rimase lì, il maglione sollevato, le labbra ancora lucide di saliva, a guardarmi con un misto di shock e rabbia.
"Sei un idiota" sibilò. "Potevamo divertirci."
Non risposi. Non potevo guardarla. Non potevo guardare me stesso.
Presi il cappotto e scappai fuori, nell'aria gelida di febbraio, con il suo profumo che si era attaccato su di me e il cuore che batteva di terrore per quello che avevo quasi fatto.
Non andai subito a casa. Non potevo. Mi sentivo addosso l'odore di quella casa troppo calda, il sapore dolciastro del profumo di Francesca e, peggio ancora, la sensazione fantasma della sua mano su di me. Mi sentivo sporco, anche se mi ero fermato in tempo.
Guidai fino al primo Burger King sulla statale. Mangiai un panino che sapeva di cartone e grasso seduto ad un tavolo.
Mi lavai le mani nel bagno del locale tre volte, sfregando finché la pelle non divenne rossa, come a voler cancellare ogni traccia di quel pomeriggio. Mi guardai allo specchio per vedere se Francesca avesse lasciano i segni dei suoi denti sul mio collo.
Rientrai a casa verso le nove.
Mi aspettavo il buio e il silenzio. Asia avrebbe dovuto essere al pub a spillare birre fino alle due.
Invece, vidi una lama di luce provenire dalla cucina.
Entrai piano, togliendomi le scarpe per non fare rumore.
La scena che mi trovai davanti mi tolse il fiato, ma in un modo completamente diverso da quello di poche ore prima.
Asia era addormentata al tavolo della cucina.
Aveva la testa appoggiata sulle braccia incrociate sopra il librone di Fisiopatologia. Indossava una mia vecchia felpa grigia, di quelle sformate che lei adorava usare per studiare.
Accanto al suo braccio, un bicchiere d'acqua si era rovesciato.
Il liquido si era allargato sul tavolo, inzuppando i fogli degli appunti e, soprattutto, i suoi capelli. Una lunga ciocca rossa era completamente bagnata, scura, incollata alla guancia pallida e al legno del tavolo.
Dormiva con la bocca leggermente aperta, e nel silenzio della stanza sentivo il suo respiro pesante, irregolare, tipico di chi è crollato per sfinimento puro.
Rimasi a guardarla per un minuto intero.
Poco prima avevo avuto tra le mani un corpo perfetto, disponibile, che non chiedeva nulla se non piacere.
Ora guardavo Asia. Spettinata, stanca morta, circondata dai debiti e dai libri, con i capelli bagnati dall'acqua rovesciata.
E in quel momento, sentii un'ondata di amore così potente da farmi quasi male fisicamente. Francesca era un miraggio. Asia era la mia realtà. La mia bellissima, incasinata, faticosa realtà.
Mi avvicinai.
"Asia..." sussurrai, ma lei non si mosse.
Allungai una mano e le scostai delicatamente la ciocca di capelli bagnata dal viso. Era gelida.
Non potevo lasciarla lì. Si sarebbe svegliata con il collo bloccato e infreddolita.
Mi chinai e le passai un braccio sotto le gambe e l'altro dietro la schiena.
La sollevai.
Era leggera. Troppo leggera. Il lavoro e lo stress la stavano consumando, e sentii una fitta di senso di colpa per aver anche solo pensato di tradirla mentre lei cercava di trovare un equilibrio tra relazione, studio e lavoro.
Lei mugugnò qualcosa nel sonno, aggrottando la fronte, e d'istinto nascose il viso nel mio collo.
"Shhh, sono io," mormorai, baciandole la tempia. "Ti porto a letto."
La portai in camera nostra, camminando al buio, guidato solo dalla memoria.
La adagiai sul materasso con una cautela infinita, come se fosse di cristallo incrinato.
Il contatto con il cuscino fresco la fece reagire. Asia aprì gli occhi di scatto, disorientata, colta da quel panico improvviso di chi sa di essersi addormentato nel momento sbagliato.
"No... no, che ore sono?" annaspò, cercando di tirarsi su sui gomiti, la voce impastata e debole. "Il libro... ho rovesciato l'acqua. Devo asciugare... devo finire il capitolo sulla necrosi..."
Provò a mettere le gambe giù dal letto, ma era un movimento scoordinato, privo di forza. Tremava.
Mi sedetti sul bordo e le misi una mano sul petto, spingendola delicatamente indietro, verso i cuscini.
"Ehi, ehi. Ferma," sussurrai. "È tutto a posto. Ho asciugato io. I libri sono salvi."
"Ma devo studiare, Michael," insistette lei, e i suoi occhi si riempirono di lacrime di frustrazione. "Non so niente. Se non passo questo esame, perdo la borsa di studio, e se perdo la borsa..."
"Shhh."
Le presi il viso tra le mani. Le sue guance erano fredde, solcate dai segni lasciati dalle pagine su cui aveva dormito.
"Non devi fare niente adesso. Solo dormire. Sei esausta, Asia. Guardati."
Lei smise di lottare. La forza nervosa la abbandonò di colpo, lasciandola ricadere sul materasso come una bambola di pezza.
"Non ce la faccio più," ammise, un sussurro così flebile che mi spezzò il cuore. "Mi sento come se stessi crollando."
Non risposi a parole. Mi tolsi le scarpe e i jeans, restando in boxer e maglietta, e mi infilai sotto le coperte accanto a lei.
Non c'era malizia. Non c'era lussuria. C'era solo un disperato bisogno di contatto.
La tirai verso di me. Lei si rannicchiò immediatamente contro il mio petto, incastrando la testa sotto il mio mento, le sue mani fredde che cercavano calore sotto la mia maglietta, appoggiandosi sulla mia pelle.
Iniziai ad accarezzarle i capelli, districando i nodi con le dita, passando più e più volte sulla ciocca che era ancora umida.
"È normale, stai passando un momento delicato." le dissi piano, baciandole la sommità della testa. "Ci sono io. Ne usciamo insieme."
Lei alzò il viso verso il mio nel buio. I nostri nasi si sfiorarono.
"Sei lunico che ha capito la mia situazione fin'ora" mi disse, e sentii la paura nella sua voce. "Non è facile stare con me, Mike. Sono sempre nervosa a causa dei miei e questo si ripercuote nelle mie relazioni."
Il pensiero di Francesca – perfetta, disponibile, facile – mi attraversò la mente per un millisecondo, solo per essere spazzato.
Guardai Asia. Guardai le sue occhiaie, le sue labbra screpolate, la sua anima nuda.
"A me piaci cosi come sei" risposi, guardandola negli occhi. "Voglio te. Voglio i tuoi disastri. Voglio le tue sfuriate."
Le diedi un bacio leggero sulla fronte. Poi lei si addormentò sul con la testa sul mio petto
Rimasi sveglio a lungo, ad ascoltare il suo respiro che si faceva regolare, tenendola stretta come se fosse la cosa più preziosa del mondo. Fuori faceva freddo, ma lì, sotto quel piumone, avevo tutto il calore di cui avrei mai avuto bisogno.
Tre giorni dopo. Mercoledì sera.
Ero spaparanzato sul divano. In TV c'era Inter-Liverpool, Ottavi di champions. Una partita che aspettavo da settimane. L'Inter stava soffrendo, e io con loro, urlando contro lo schermo.
Erano le 21:40.
La porta d'ingresso si spalancò come se fosse stata calciata.
Asia entrò. Era pallida, gli occhi cerchiati di rosso, i capelli in disordine. Non mi guardò nemmeno.
Lanciò la borsa di anatomia sul pavimento con una violenza inaudita. I libri si sparsero sul parquet con un tonfo sordo. Poi lanciò le chiavi contro il muro.
"Asia?" chiesi, abbassando il volume col telecomando.
Nessuna risposta. Corse verso il bagno, entrò e chiuse la porta.
Rimasi lì, col telecomando in mano, mentre l'Inter subiva un contropiede.
Dalla camera arrivò un suono che non sentivo da mesi. Un pianto. Non un pianto silenzioso, ma singhiozzi, disperati, di chi non ce la fa più a tenere tutto dentro.
Spensi la TV. Al diavolo il Liverpool.
Mi avvicinai alla porta del bagno.
"Asia," chiamai, la voce calma. "Apri."
"Vattene!" urlò lei, la voce strozzata. "Lasciami sola! Voglio stare sola!"
"Almeno dimmi cosa è successo. Avanti, apri la porta" dissi, appoggiando la fronte al legno della porta. "Tanto non me ne vado. Prima o poi dovrai uscire da li dentro."
"La mia famiglia, Michael. Sono sempre loro la causa dei miei problemi... lasciami stare adesso dai!"
"E pensi che startene seduta sul cesso a piangere migliori le cose? Te lo dico io NO."
Silenzio. Solo il suo respiro affannoso.
Poi, lentamente, il rumore della chiave che girava.
La porta si aprì.
Asia era in piedi davanti a me. Tremava. Aveva il mascara colato sulle guance e le mani strette a pugno lungo i fianchi. Sembrava un animale ferito pronto ad attaccare per difesa.
Non dissi nulla.
"È successo di nuovo," singhiozzò lei, cedendo di colpo. "Mia madre... ha chiamato i carabinieri perché diceva che papà la minacciava. Sono andata lì. Stavano urlando per i soldi. Di nuovo. Davanti a tutti i vicini. Mi vergogno, Michael. Mi vergogno da morire."
Mi avvicinai e la presi tra le braccia. Lei cercò di divincolarsi debolmente, colpendomi il petto con i pugni, ma io la strinsi più forte.
"Basta," le sussurrai tra i capelli. "Non pensarci. Ti fa solo più male. Lo so che ci tieni, è la tua famiglia ma non puoi caricarti tutto sulle spalle"
Lei smise di lottare e si aggrappò a me, affondando il viso nella mia maglietta, bagnandola di lacrime. Continuò a piangere per minuti interminabili, svuotandosi di tutto il veleno accumulato in settimane di silenzio.
Poi, accadde qualcosa. Il pianto cambiò.
Alzò il viso verso il mio. I suoi occhi erano lucidi, disperati, ma non più di tristezza. Era un bisogno viscerale di sentire qualcosa di diverso dal dolore. Un bisogno di vita.
"Fammi smettere di pensarci," mi pregò, la voce roca. "Non voglio pensare a niente"
Mi baciò. Sapeva di sale e di disperazione.
Non fu un bacio dolce. Fu uno scontro. C'era rabbia, c'era la paura di perdermi, c'era la frustrazione per quella stronza di Francesca che non sapeva neanche cosa cosa fosse l'amore.
La sollevai di peso. Lei avvolse le gambe intorno alla mia vita, stringendomi con una forza sorprendente. La portai verso il mobile del bagno, senza mai staccare la bocca dalla sua.
La misi seduta sul mobile, i vestiti deventarono ostacoli da strappare via.
"Sei mia," le dissi, guardandola negli occhi, mentre le toglievo la maglietta bagnata di lacrime. "Mia e di nessun altro. Capito?"
"Solo noi," ansimò lei, tirandomi verso di sé, le unghie che graffiavano la mia schiena.
Mi staccai un secondo da lei, ma giusto il tempo di toglierci tutto. Il mio cazzo era già pronto per penetrarla.
" Lo facciamo senza? "
" Non mi va di andare di la a prenderlo. Non ti vengo dentro, tranquilla "
" Stai attento però "
Aprii le sue cosce e cominciai a penetrarla, lentamente, poi con più decisione quando la vidi più tranquilla. Le afferrai i seni pieni, li strinsi tra le mie mani e assaporai i suoi capezzoli con la lingua. Le sua mani invece afferrarono i miei glutei e le sue gambe divennero una gabbia aggrappate alle mie.
" Oddio sii, spingi ti prego "
Continuavo senza fermarmi, guidando ogni movimento con moderazione per gestire la mia resistenza. Lei gemette, cercò le mie labbra.
" Non fermarti ti prego, voglio sentirti " diceva ansimando
Continuai ancora per un po' poi mi fermai
" Andiamo in camera "
La sollevai di nuovo e ci spostammo nella mia camera.
La buttai sul letto, io mi misi seduto con la schiena poggiata sulla testiera. Asia gattonò verso di me. Le sue labbra incontrarono la mia cappella. Aprì la bocca cominciando a succhiarmi la punta. Gemetti. Misi una mano sulla sua testa e la spinsi più affondo. Sentivo il mio cazzo pulsare dentro la sua bocca calda. Si staccò riprendendo fiato con un respiro profondo. Era bellissimo, sentivo la sua lingua assaporare tutta la mia cappella. Ogni tanto sentivo anche i suoi denti strusciare sul cazzo, ma no fa niente, la perdonai.
" Scopami, voglio che mi scopi "
Non me lo feci ripetere. Presi un preservativo e la misi a quattro zampe. Entrai dentro con un colpo secco, riempiendola fino in fondo. Urlò, affondando il viso sulle lenzuola. La scopavo con forza crescente, il suo culo che sbatteva contro il mio ventre ad ogni colpo mi eccotava sempre di più. Strillò di piacere, ebbe un orgasmo con scosse rapide, mentre la penetravo. Il ritmo diventò martellante, sentivo il mio cazzo pulsare dentro di lei, pronto a esplodere.
Un urlo di piacere mi scappò dalla bocca. Uscii dalla sua figa, completamente zuppa e gocciolante, la feci sdraiare, strappai via il profilattico e venni sulle sue tette fino all'ultimo getto, ansimando.
Eravamo sudati, esausti. Nessuna parola. Solo il rumore del respiro e l'odore di sesso che impregnava la stanza. Mi sdraiai accanto a lei, ansimante.
In quella stanza, mentre fuori il mondo continuava a girare e l'Inter probabilmente perdeva, noi stavamo vincendo la nostra battaglia personale. Facevamo l'amore non solo per piacere, ma per guarire. Per dimostrarci che eravamo più forti del casino che ci circondava.
(...Continua...)
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