Mio fratello e la Capsula del Tempo.
di
Grazia25
genere
incesti
Mi chiamo Grazia, ho 36 anni, sono sposata e vivo in una graziosa villetta immersa nella quiete della campagna, circondata da un vasto giardino che sembra quasi un angolo di paradiso.
I miei genitori, quando si sposarono, avevano un sogno ben preciso: costruire una famiglia composta da loro due e una coppia di figli, un maschio e una femmina, per completare il nucleo perfetto che avevano sempre immaginato. Nacqui io per prima, una bimba dalla carnagione chiarissima, quasi diafana, con occhi grandi e curiosi. Dopo di me, speravano con tutto il cuore che arrivasse un maschio, affidandosi alla benevolenza del Signore per esaudire il loro desiderio.
Ma fu proprio a questo punto che iniziarono le difficoltà. Mia madre affrontò una serie di gravidanze complicate, un susseguirsi di tentativi falliti e aborti spontanei dovuti a problemi di gestazione. Ogni perdita era un duro colpo per loro, un sogno infranto che pesava sul cuore di tutta la famiglia. Dopo anni di sofferenze e delusioni, giunsero alla conclusione che l’unica strada possibile fosse l’adozione.
Attraverso contatti con alcune associazioni, gli fu proposto un bambino dalla carnagione olivastra, un piccolo di appena due anni con occhi profondi e un sorriso timido. Lo accogliemmo a braccia aperte nel nostro nucleo familiare, dandogli il nome di Leonardo Ahmed, dove Ahmed era il suo nome originario. Da quel momento, però, decidemmo di chiamarlo semplicemente Ahmed, per rispettare le sue radici e farlo sentire a casa. Per me, che all’epoca avevo sette anni, quel fratellino più piccolo di cinque anni era quasi un giocattolo vivente, un tesoro da custodire e proteggere. Ero affascinata da lui, dal suo modo di guardarmi con fiducia assoluta, come se fossi la sua guida in un mondo nuovo e sconosciuto.
Crescemmo insieme, inseparabili. Ahmed mi vedeva come una seconda mamma, sempre pronto a corrermi dietro o a cercare il mio conforto. Per sette anni condividemmo la stessa stanza, un piccolo spazio pieno di risate, litigi banali e segreti sussurrati prima di dormire. Poi, per motivi di privacy, i nostri genitori decisero di cambiare casa, trasferendoci in un appartamento più grande dove finalmente Ahmed poté avere una camera tutta sua. Anche se all’inizio mi mancava averlo vicino, capii che era un passo necessario per entrambi.
Ahmed sviluppò un forte senso di protezione nei miei confronti, quasi possessivo. Ogni volta che un ragazzino cercava di avvicinarsi a me, magari per un innocente scambio di parole o un invito a giocare, lui si intrometteva con un fare quasi paterno, come se dovesse difendermi da un pericolo invisibile. Io cercavo di spiegargli, con pazienza, che a una certa età è normale avere i primi approcci, i primi batticuori, e che presto anche lui avrebbe provato le stesse emozioni. Ma lui, con la serietà di un adulto racchiusa nel corpo di un bambino, mi ripeteva spesso: “Un giorno sarò tuo marito”. Io ridevo, liquidando quelle parole come una dolce ingenuità, un gioco infantile che mi scaldava il cuore.
Ricordo vividamente un episodio accaduto un bel pò di anni fa. Una sera, mentre guardavo la televisione, mi imbattei in un documentario sulla "capsula del tempo", un’usanza molto diffusa nelle università americane. Consisteva nello scrivere su un foglio di carta i propri sogni, le speranze e gli obiettivi per il futuro, per poi sigillare tutto in una capsula o un contenitore e sotterrarlo. Dopo un certo numero di anni, si sarebbe dovuto dissotterrare il tutto e leggere il contenuto, verificando se quei desideri si fossero avverati. L’idea mi colpì profondamente: era come fare una promessa a me stessa, un patto con il futuro. Ne parlai subito con Ahmed, entusiasta di condividere quel progetto con lui. Ma lui, inizialmente, non sembrava minimamente interessato. “Sono tutte sciocchezze,” mi disse con tono scettico, “i desideri non si avverano solo perché li scrivi su un pezzo di carta.”
Non mi arresi. Con pazienza e determinazione iniziai a convincerlo, promettendogli che io stessa mi sarei impegnata, in prima persona, per aiutarlo a realizzare i suoi sogni, qualsiasi essi fossero. Alla fine, cedette, ma a una condizione: ognuno di noi avrebbe scritto il proprio messaggio senza mostrare all’altro il contenuto, e nessun altro, al di fuori di noi due, avrebbe dovuto sapere dove avremmo sepolto la capsula. Il luogo scelto fu il nostro giardino, un angolo sicuro e riservato che custodiva già tanti dei nostri ricordi condivisi. Scavammo una buca sotto un vecchio albero, sigillammo i nostri fogli in una scatola di latta e la sotterrammo insieme, promettendoci di tornare lì, un giorno, per riscoprire i nostri sogni di gioventù.
Gli anni scorrevano veloci, le nostre vite, inevitabilmente, presero strade diverse. Io, spinta dall’ambizione, mi trasferii a Roma per frequentare l’università. Dopo aver conseguito la laurea, un’offerta di lavoro irrinunciabile mi portò a Londra, dove conobbi e sposai un altro italiano, un collega che lavorava nella stessa azienda. Allontanarmi dall’Italia fu un passo sofferto, ma il legame con la mia terra rimase intatto, come un filo invisibile che non si spezza mai. Con i miei genitori e mio fratello Ahmed mantenevo contatti quotidiani: telefonate, messaggi sui social, videochiamate. Eppure, la loro assenza scavava un vuoto dentro di me, un silenzio che nessuna voce digitale poteva colmare.
Un giorno, mentre ero immersa nella routine londinese, Ahmed mi chiamò con un tono che non dimenticherò mai. “Grazia, abbiamo qualcosa in sospeso,” disse, con una serietà che mi fece gelare. “La capsula. È ora di dissotterrarla.” Quelle parole mi riportarono indietro di vent’anni, a un passato che credevo sepolto sotto strati di terra e ricordi. Io avevo 35 anni, lui 30. Due decenni erano trascorsi da quando avevamo sigillato i nostri sogni in quel giardino, facendoci una promessa che ora mi pesava come un macigno.
Presi una settimana di ferie e tornai in Italia da sola, lasciando mio marito a Londra con una scusa banale, inventata di fretta. Mi sentivo nervosa mentre preparavo il viaggio, un misto di eccitazione e apprensione. Cosa avevo scritto in quel foglio? E cosa aveva scritto lui?
Il giorno fatidico arrivò. Approfittammo di un momento in cui i nostri genitori erano fuori casa per una commissione che li avrebbe tenuti lontano tutta la mattina. Con il cuore che batteva all’impazzata, ci recammo nel nostro vecchio giardino, davanti a quell’albero che da bambini sembrava un gigante. Eravamo visibilmente emozionati, le mani tremanti mentre scavavamo con una piccola vanga. La capsula era lì, intatta, come se il tempo non l’avesse nemmeno sfiorata. La scatola di latta brillava sotto i raggi del sole, custodendo i nostri desideri più profondi, scritti con l’ingenuità di chi crede che il futuro sia tutto da plasmare.
Ci sedemmo sull’erba, uno di fronte all’altra, con la scatola tra di noi come un giudice silenzioso. Avevamo deciso che ciascuno avrebbe letto il foglio dell’altro, per rendere il momento ancora più intimo e sorprendente. Ahmed prese il mio plico per primo, aprendo il foglio con dita incerte. Un sorriso gli illuminò il volto mentre leggeva a voce alta le mie parole di allora: avevo quasi indovinato tutto. Gli studi, il lavoro, la vita coniugale. “Hai fatto centro, Grazia,” disse con una risata leggera, e per un istante mi sentii sollevata, orgogliosa di me stessa.
Poi toccò a me. Presi il suo foglio con un sorriso, pensando che sarebbe stato qualcosa di innocente, un sogno infantile come diventare un astronauta o viaggiare per il mondo. Iniziai a leggere a voce alta, ma dopo poche parole la mia voce si spezzò. Il mondo sembrò fermarsi. Le lettere scritte con una grafia incerta mi colpirono come un boomerang, lasciandomi senza fiato. “Ma sei pazzo?” sbottai, alzando lo sguardo su di lui, incredula.
Sul foglio c’era scritto, nero su bianco, con una semplicità disarmante: “Nella mia vita non chiedo troppo, solo poter fare sesso almeno una volta con mia sorella Grazia.”
“Ti rendi conto di quello che hai scritto?”, chiesi.
Ahmed mi fissò, gli occhi scuri e impenetrabili. “Lo so, sorellina. Ma questo era il mio sogno. E so che, se non si realizzerà, sarà colpa tua e la mia vita non avrà senso.”
Il cuore mi martellava nel petto. Sentivo il sangue pulsare nelle tempie.
Continuando Ahmed “Ti ricordi quando mi hai convinto a scrivere questo? Mi hai promesso che avresti fatto di tutto affinché i miei sogni si realizzassero.”
“Ma non puoi chiedermi questo, Ahmed,” ribattei, con la voce tremante. “Sono tua sorella!”
“Lo so, Grazia. Anche se sono solo tuo fratello, non puoi tirarti indietro. È come se avessi firmato un contratto con il sangue.”
Rimasi pietrificata. La mente era un vortice di pensieri confusi, incapace di elaborare quello che stava accadendo. Mai, nemmeno nei miei incubi più assurdi, avrei immaginato che quel gioco innocente di bambini potesse trasformarsi in qualcosa di così sconvolgente. “Grazia, metabolizza la richiesta,” aggiunse lui, con un tono che era quasi una supplica. “Abbiamo ancora pochi giorni a disposizione.”
Da quell’istante, l’aria tra noi cambiò. Non c’era più la complicità fraterna che ci aveva sempre uniti. Ogni suo sguardo sembrava un’attesa, un’aspettativa che mi opprimeva. Come potevo io, una donna sposata, colta, fedele ai miei valori morali, anche solo considerare una cosa del genere con mio fratello? Eppure, quella promessa fatta anni prima mi stava tornando contro come una lama affilata. Sapevo che non avrei potuto convivere con il rimorso di aver tradito la fiducia di Ahmed, di aver infranto la mia parola. La sua stima nei miei confronti, il nostro legame, tutto era in gioco. Mi sentivo intrappolata in una situazione impossibile, con un peso che mi schiacciava il cuore.
Restavano solo due giorni alla fine della mia permanenza in Italia. Due giorni per decidere se mantenere quella promessa o distruggere per sempre il nostro rapporto. Alla fine, con il fiato corto e una freddezza che non credevo di possedere, presi coraggio e accettai di pagare il prezzo di quella promessa. Dovevo mettere da parte i sentimenti, le emоzioni, la morale. Doveva essere un atto meccanico, distaccato, un modo per non coinvolgermi emotivamente. Ma mentre cercavo di convincermi, un pensiero mi tormentava: sarei davvero riuscita a dimenticare tutto, una volta tornata alla mia vita a Londra?
Prenotammo una stanza in un B&B a qualche chilometro da casa nostra, un luogo discreto e lontano da occhi indiscreti. Ci presentammo come una giovane coppia di fidanzati in cerca di un rifugio per rilassarsi, un segreto condiviso che già accendeva una scintilla di eccitazione. La stanza era piccola, intima, con un letto al centro che sembrava quasi un invito. Eravamo impacciati, in attesa che uno dei due rompesse il silenzio e facesse la prima mossa.
Ahmed, con un timido sorriso, iniziò a spogliarsi, facendosi strada con gesti lenti e incerti. Si fermò in slip, il tessuto teso a mostrare i contorni del suo desiderio. Io rimasi immobile, come pietrificata, il cuore che batteva forte, incapace di muovermi o parlare. Lui si avvicinò, il suo sguardo dolce ma intenso. “Lascia che ti aiuti, sorellina,” mormorò, la voce bassa, quasi un sussurro.
Si avvicinò, frontalmente, e mi avvolse in un abbraccio caldo, il suo corpo premuto contro il mio. Sentii le sue dita scivolare sulla mia schiena, sganciando il reggiseno con una delicatezza che contrastava con il fuoco che leggevo nei suoi occhi. Lo lasciò cadere a terra, e il suo sguardo si posò sui miei seni, lucido di desiderio, come se avesse aspettato quel momento per una vita intera. “Sei bellissima,” sussurrò, la voce roca, mentre le sue mani scivolavano sui miei fianchi, raggiungendo l’orlo delle mutandine. Le tirò giù lentamente, e io, incapace di resistere, alzai una gamba dopo l’altra per sfilarle del tutto. Ero nuda davanti a lui, vulnerabile, e i suoi occhi brillavano di una brama che mi fece tremare.
Con dolcezza, mi guidò verso il letto, facendomi sdraiare sulle lenzuola fresche. Con un ultimo gesto deciso, si tolse gli slip, e io ebbi un sussulto. Era la prima volta che vedevo mio fratello così, nudo e in piena erezione. Cercai di distogliere lo sguardo, ma la maestosità del suo attributo mi attirava come una calamita, creando un caos di emozioni nella mia mente. “Non aver paura,” disse, sdraiandosi accanto a me, su un fianco, il suo corpo vicino al mio. Le sue mani iniziarono ad accarezzarmi la pancia con movimenti circolari, sfiorando appena la base dei seni e facendomi rabbrividire. Accavallò una gamba sulla mia, e sentii il suo pene pulsante adagiarsi sulla mia coscia, un contatto che mi fece trattenere il respiro.
Le sue carezze si fecero più audaci. Le mani salirono ai miei seni, stringendoli piano, stuzzicando i capezzoli fino a farli inturgidire. Poi scesero, lente e sicure, verso il mio monte di Venere, e un gemito mi sfuggì quando iniziò ad accarezzarmi l’intimità, le sue dita esperte che esploravano con una dolcezza tormentosa. Mi prese la mano guidandola verso il basso. Le mie dita si chiusero attorno al suo membro, duro e caldo, e iniziai a masturbarlo con movimenti incerti, mentre le sue dita si insinuavano dentro di me, facendomi ansimare. Il mio fiato si fece corto, il cuore un tamburo nel petto.
“Voglio sentire il calore del tuo corpo,” disse con voce roca, sdraiandosi su di me, corpo contro corpo, viso contro viso. Lo guardai negli occhi: c’era ancora quella dolcezza, quella tenerezza di un tempo. Spontaneamente, gli diedi un bacio sulla guancia, un gesto che sembrava quasi un sigillo. Ero al punto di non ritorno. Metabolizzai la situazione, lasciandomi andare a un sentimento che volevo credere fosse amore fraterno, puro nella sua follia. “Prendimi con l’amore che hai,” gli mormorai, guardandolo dritto negli occhi.
Sentii il suo pene premere contro di me, bussare alla porta del mio desiderio, entrare lentamente, facendosi strada con una dolcezza che mi strappò un gemito. Mio fratello mi stava possedendo, e io chiusi gli occhi, concentrandomi sulle sensazioni. Era amore, piacere, un misto di emozioni che avevo provato altre volte, ma mai così intense, mai così proibite. Mi sentivo piena di lui, della sua carne che mi penetrava con una calma devastante, riempiendomi completamente. Superato il tabù, iniziai a essere più attiva. Gli presi il volto tra le mani, avvicinandolo al mio “Solo per oggi sono la tua donna, dammi il meglio che puoi” sussurrai.
Il ritmo si fece più intenso, i nostri gemiti si mescolarono nell’aria. Presi il controllo, spinta da un coraggio che non sapevo di avere. Lo feci sdraiare supino sul letto e mi misi a cavalcioni su di lui, calandomi sul suo membro con un movimento deciso. La penetrazione fu profonda, intensa, e io potevo comandare il ritmo, andare su e giù con una libertà che mi inebriava. Ahmed mi sorreggeva i seni, stringendoli mentre ondeggiavano ai miei movimenti, i suoi occhi pieni di desiderio. “Sei incredibile,” mugugnò, la voce spezzata dal piacere.
Eravamo liberi da ogni pregiudizio, la vergogna un ricordo lontano. A sua richiesta cambiammo posizione, passando a pecorina, una posizione che mi aveva sempre eccitato per il modo in cui mi permetteva di sentirlo tutto, di partecipare attivamente. Mi misi a quattro zampe, offrendomi a lui, e Ahmed non esitò. Mi afferrò i fianchi, penetrandomi con una forza che mi fece gemere più forte. I nostri corpi si muovevano in perfetta sincronia, come in una danza primordiale, mentre la stanza si riempiva dei nostri respiri affannosi e degli schiocchi della nostra carne.
Sentivamo l’orgasmo avvicinarsi, un’onda irrefrenabile che ci travolgeva, i nostri corpi avvinghiati in un ritmo disperato. Il calore della nostra unione, pelle contro pelle, era quasi insostenibile, ogni movimento ci portava più vicini al limite. Ero persa nel piacere, ma un lampo di razionalità mi attraversò la mente. “Non venire dentro, ti prego,” lo supplicai, il fiato corto, le mani aggrappate alle sue spalle mentre cercavo di mantenere un barlume di controllo.
Ahmed rallentò appena, i suoi occhi scuri che cercavano i miei, un’espressione tra il desiderio e la sfida. “Perché, Grazia? So che prendi la pillola anticoncezionale,” disse, con voce roca, il respiro pesante contro il mio collo. Si chinò a sfiorarmi l’orecchio con le labbra, il suo tono che si abbassava in un sussurro seducente. “Perché vuoi privarti di questa sensazione? È unica, sai, un modo per suggellare questo momento tra noi. Fidati di me, non te ne pentirai. Anzi, mi ringrazierai per avertelo fatto provare.”
Le sue parole mi colpirono come un’ondata di calore, facendomi tremare sotto di lui. Il mio corpo sembrava rispondere prima della mia testa, il desiderio che combatteva con l’ultima traccia di resistenza. Lo guardai, i nostri visi a un soffio l’uno dall’altro, il sudore che ci univa ancora di più. Lui sorrise, un sorriso lento e sicuro, mentre le sue mani stringevano i miei fianchi, tirandomi più vicina. “Voglio solo sentirti, almeno per una volta mia.”
Sospirai, il cuore che martellava, il piacere che montava dentro di me e cancellava ogni dubbio. “Va bene,” mormorai, quasi incredula di me stessa, le gambe che si stringevano attorno a lui per attirarlo più a fondo. “Fallo, allora. Ma ricordati cosa significa per me. È… è solo per questo istante.”
Ahmed annuì, i suoi occhi che brillavano di una brama che mi fece rabbrividire. “Solo per questo istante,” ripeté, come una promessa, mentre riprendeva il ritmo, ogni spinta più intensa, più profonda, come se volesse marchiare quel momento nella nostra memoria.
“Dimmi che lo vuoi anche tu, sorellina. Dimmi che lo vuoi.”
“Lo voglio,” gemetti, inarcandomi sotto di lui, le unghie che affondavano nella sua schiena. “Lo sento, Ahmed. Non fermarti… non ora.”
Pochi istanti dopo, raggiungemmo l’apice insieme, travolti da una serie di contrazioni che sembravano non finire mai, i nostri corpi scossi dal piacere puro. Esausti, ma ancora uniti, crollammo sulle lenzuola, il sudore che brillava sulla nostra pelle.
Ci guardammo negli occhi, appagati, con un’intimità che non avevo mai provato prima. Con dolcezza, avvicinai le mie labbra alle sue e lo baciai appassionatamente, un bacio profondo che sigillava quel momento. Con voce spezzata dall'emozione dissi "Ricordati di questo giorno in cui ti ho dimostrato l'amore che ho verso di te e conservalo nel cuore".
I miei genitori, quando si sposarono, avevano un sogno ben preciso: costruire una famiglia composta da loro due e una coppia di figli, un maschio e una femmina, per completare il nucleo perfetto che avevano sempre immaginato. Nacqui io per prima, una bimba dalla carnagione chiarissima, quasi diafana, con occhi grandi e curiosi. Dopo di me, speravano con tutto il cuore che arrivasse un maschio, affidandosi alla benevolenza del Signore per esaudire il loro desiderio.
Ma fu proprio a questo punto che iniziarono le difficoltà. Mia madre affrontò una serie di gravidanze complicate, un susseguirsi di tentativi falliti e aborti spontanei dovuti a problemi di gestazione. Ogni perdita era un duro colpo per loro, un sogno infranto che pesava sul cuore di tutta la famiglia. Dopo anni di sofferenze e delusioni, giunsero alla conclusione che l’unica strada possibile fosse l’adozione.
Attraverso contatti con alcune associazioni, gli fu proposto un bambino dalla carnagione olivastra, un piccolo di appena due anni con occhi profondi e un sorriso timido. Lo accogliemmo a braccia aperte nel nostro nucleo familiare, dandogli il nome di Leonardo Ahmed, dove Ahmed era il suo nome originario. Da quel momento, però, decidemmo di chiamarlo semplicemente Ahmed, per rispettare le sue radici e farlo sentire a casa. Per me, che all’epoca avevo sette anni, quel fratellino più piccolo di cinque anni era quasi un giocattolo vivente, un tesoro da custodire e proteggere. Ero affascinata da lui, dal suo modo di guardarmi con fiducia assoluta, come se fossi la sua guida in un mondo nuovo e sconosciuto.
Crescemmo insieme, inseparabili. Ahmed mi vedeva come una seconda mamma, sempre pronto a corrermi dietro o a cercare il mio conforto. Per sette anni condividemmo la stessa stanza, un piccolo spazio pieno di risate, litigi banali e segreti sussurrati prima di dormire. Poi, per motivi di privacy, i nostri genitori decisero di cambiare casa, trasferendoci in un appartamento più grande dove finalmente Ahmed poté avere una camera tutta sua. Anche se all’inizio mi mancava averlo vicino, capii che era un passo necessario per entrambi.
Ahmed sviluppò un forte senso di protezione nei miei confronti, quasi possessivo. Ogni volta che un ragazzino cercava di avvicinarsi a me, magari per un innocente scambio di parole o un invito a giocare, lui si intrometteva con un fare quasi paterno, come se dovesse difendermi da un pericolo invisibile. Io cercavo di spiegargli, con pazienza, che a una certa età è normale avere i primi approcci, i primi batticuori, e che presto anche lui avrebbe provato le stesse emozioni. Ma lui, con la serietà di un adulto racchiusa nel corpo di un bambino, mi ripeteva spesso: “Un giorno sarò tuo marito”. Io ridevo, liquidando quelle parole come una dolce ingenuità, un gioco infantile che mi scaldava il cuore.
Ricordo vividamente un episodio accaduto un bel pò di anni fa. Una sera, mentre guardavo la televisione, mi imbattei in un documentario sulla "capsula del tempo", un’usanza molto diffusa nelle università americane. Consisteva nello scrivere su un foglio di carta i propri sogni, le speranze e gli obiettivi per il futuro, per poi sigillare tutto in una capsula o un contenitore e sotterrarlo. Dopo un certo numero di anni, si sarebbe dovuto dissotterrare il tutto e leggere il contenuto, verificando se quei desideri si fossero avverati. L’idea mi colpì profondamente: era come fare una promessa a me stessa, un patto con il futuro. Ne parlai subito con Ahmed, entusiasta di condividere quel progetto con lui. Ma lui, inizialmente, non sembrava minimamente interessato. “Sono tutte sciocchezze,” mi disse con tono scettico, “i desideri non si avverano solo perché li scrivi su un pezzo di carta.”
Non mi arresi. Con pazienza e determinazione iniziai a convincerlo, promettendogli che io stessa mi sarei impegnata, in prima persona, per aiutarlo a realizzare i suoi sogni, qualsiasi essi fossero. Alla fine, cedette, ma a una condizione: ognuno di noi avrebbe scritto il proprio messaggio senza mostrare all’altro il contenuto, e nessun altro, al di fuori di noi due, avrebbe dovuto sapere dove avremmo sepolto la capsula. Il luogo scelto fu il nostro giardino, un angolo sicuro e riservato che custodiva già tanti dei nostri ricordi condivisi. Scavammo una buca sotto un vecchio albero, sigillammo i nostri fogli in una scatola di latta e la sotterrammo insieme, promettendoci di tornare lì, un giorno, per riscoprire i nostri sogni di gioventù.
Gli anni scorrevano veloci, le nostre vite, inevitabilmente, presero strade diverse. Io, spinta dall’ambizione, mi trasferii a Roma per frequentare l’università. Dopo aver conseguito la laurea, un’offerta di lavoro irrinunciabile mi portò a Londra, dove conobbi e sposai un altro italiano, un collega che lavorava nella stessa azienda. Allontanarmi dall’Italia fu un passo sofferto, ma il legame con la mia terra rimase intatto, come un filo invisibile che non si spezza mai. Con i miei genitori e mio fratello Ahmed mantenevo contatti quotidiani: telefonate, messaggi sui social, videochiamate. Eppure, la loro assenza scavava un vuoto dentro di me, un silenzio che nessuna voce digitale poteva colmare.
Un giorno, mentre ero immersa nella routine londinese, Ahmed mi chiamò con un tono che non dimenticherò mai. “Grazia, abbiamo qualcosa in sospeso,” disse, con una serietà che mi fece gelare. “La capsula. È ora di dissotterrarla.” Quelle parole mi riportarono indietro di vent’anni, a un passato che credevo sepolto sotto strati di terra e ricordi. Io avevo 35 anni, lui 30. Due decenni erano trascorsi da quando avevamo sigillato i nostri sogni in quel giardino, facendoci una promessa che ora mi pesava come un macigno.
Presi una settimana di ferie e tornai in Italia da sola, lasciando mio marito a Londra con una scusa banale, inventata di fretta. Mi sentivo nervosa mentre preparavo il viaggio, un misto di eccitazione e apprensione. Cosa avevo scritto in quel foglio? E cosa aveva scritto lui?
Il giorno fatidico arrivò. Approfittammo di un momento in cui i nostri genitori erano fuori casa per una commissione che li avrebbe tenuti lontano tutta la mattina. Con il cuore che batteva all’impazzata, ci recammo nel nostro vecchio giardino, davanti a quell’albero che da bambini sembrava un gigante. Eravamo visibilmente emozionati, le mani tremanti mentre scavavamo con una piccola vanga. La capsula era lì, intatta, come se il tempo non l’avesse nemmeno sfiorata. La scatola di latta brillava sotto i raggi del sole, custodendo i nostri desideri più profondi, scritti con l’ingenuità di chi crede che il futuro sia tutto da plasmare.
Ci sedemmo sull’erba, uno di fronte all’altra, con la scatola tra di noi come un giudice silenzioso. Avevamo deciso che ciascuno avrebbe letto il foglio dell’altro, per rendere il momento ancora più intimo e sorprendente. Ahmed prese il mio plico per primo, aprendo il foglio con dita incerte. Un sorriso gli illuminò il volto mentre leggeva a voce alta le mie parole di allora: avevo quasi indovinato tutto. Gli studi, il lavoro, la vita coniugale. “Hai fatto centro, Grazia,” disse con una risata leggera, e per un istante mi sentii sollevata, orgogliosa di me stessa.
Poi toccò a me. Presi il suo foglio con un sorriso, pensando che sarebbe stato qualcosa di innocente, un sogno infantile come diventare un astronauta o viaggiare per il mondo. Iniziai a leggere a voce alta, ma dopo poche parole la mia voce si spezzò. Il mondo sembrò fermarsi. Le lettere scritte con una grafia incerta mi colpirono come un boomerang, lasciandomi senza fiato. “Ma sei pazzo?” sbottai, alzando lo sguardo su di lui, incredula.
Sul foglio c’era scritto, nero su bianco, con una semplicità disarmante: “Nella mia vita non chiedo troppo, solo poter fare sesso almeno una volta con mia sorella Grazia.”
“Ti rendi conto di quello che hai scritto?”, chiesi.
Ahmed mi fissò, gli occhi scuri e impenetrabili. “Lo so, sorellina. Ma questo era il mio sogno. E so che, se non si realizzerà, sarà colpa tua e la mia vita non avrà senso.”
Il cuore mi martellava nel petto. Sentivo il sangue pulsare nelle tempie.
Continuando Ahmed “Ti ricordi quando mi hai convinto a scrivere questo? Mi hai promesso che avresti fatto di tutto affinché i miei sogni si realizzassero.”
“Ma non puoi chiedermi questo, Ahmed,” ribattei, con la voce tremante. “Sono tua sorella!”
“Lo so, Grazia. Anche se sono solo tuo fratello, non puoi tirarti indietro. È come se avessi firmato un contratto con il sangue.”
Rimasi pietrificata. La mente era un vortice di pensieri confusi, incapace di elaborare quello che stava accadendo. Mai, nemmeno nei miei incubi più assurdi, avrei immaginato che quel gioco innocente di bambini potesse trasformarsi in qualcosa di così sconvolgente. “Grazia, metabolizza la richiesta,” aggiunse lui, con un tono che era quasi una supplica. “Abbiamo ancora pochi giorni a disposizione.”
Da quell’istante, l’aria tra noi cambiò. Non c’era più la complicità fraterna che ci aveva sempre uniti. Ogni suo sguardo sembrava un’attesa, un’aspettativa che mi opprimeva. Come potevo io, una donna sposata, colta, fedele ai miei valori morali, anche solo considerare una cosa del genere con mio fratello? Eppure, quella promessa fatta anni prima mi stava tornando contro come una lama affilata. Sapevo che non avrei potuto convivere con il rimorso di aver tradito la fiducia di Ahmed, di aver infranto la mia parola. La sua stima nei miei confronti, il nostro legame, tutto era in gioco. Mi sentivo intrappolata in una situazione impossibile, con un peso che mi schiacciava il cuore.
Restavano solo due giorni alla fine della mia permanenza in Italia. Due giorni per decidere se mantenere quella promessa o distruggere per sempre il nostro rapporto. Alla fine, con il fiato corto e una freddezza che non credevo di possedere, presi coraggio e accettai di pagare il prezzo di quella promessa. Dovevo mettere da parte i sentimenti, le emоzioni, la morale. Doveva essere un atto meccanico, distaccato, un modo per non coinvolgermi emotivamente. Ma mentre cercavo di convincermi, un pensiero mi tormentava: sarei davvero riuscita a dimenticare tutto, una volta tornata alla mia vita a Londra?
Prenotammo una stanza in un B&B a qualche chilometro da casa nostra, un luogo discreto e lontano da occhi indiscreti. Ci presentammo come una giovane coppia di fidanzati in cerca di un rifugio per rilassarsi, un segreto condiviso che già accendeva una scintilla di eccitazione. La stanza era piccola, intima, con un letto al centro che sembrava quasi un invito. Eravamo impacciati, in attesa che uno dei due rompesse il silenzio e facesse la prima mossa.
Ahmed, con un timido sorriso, iniziò a spogliarsi, facendosi strada con gesti lenti e incerti. Si fermò in slip, il tessuto teso a mostrare i contorni del suo desiderio. Io rimasi immobile, come pietrificata, il cuore che batteva forte, incapace di muovermi o parlare. Lui si avvicinò, il suo sguardo dolce ma intenso. “Lascia che ti aiuti, sorellina,” mormorò, la voce bassa, quasi un sussurro.
Si avvicinò, frontalmente, e mi avvolse in un abbraccio caldo, il suo corpo premuto contro il mio. Sentii le sue dita scivolare sulla mia schiena, sganciando il reggiseno con una delicatezza che contrastava con il fuoco che leggevo nei suoi occhi. Lo lasciò cadere a terra, e il suo sguardo si posò sui miei seni, lucido di desiderio, come se avesse aspettato quel momento per una vita intera. “Sei bellissima,” sussurrò, la voce roca, mentre le sue mani scivolavano sui miei fianchi, raggiungendo l’orlo delle mutandine. Le tirò giù lentamente, e io, incapace di resistere, alzai una gamba dopo l’altra per sfilarle del tutto. Ero nuda davanti a lui, vulnerabile, e i suoi occhi brillavano di una brama che mi fece tremare.
Con dolcezza, mi guidò verso il letto, facendomi sdraiare sulle lenzuola fresche. Con un ultimo gesto deciso, si tolse gli slip, e io ebbi un sussulto. Era la prima volta che vedevo mio fratello così, nudo e in piena erezione. Cercai di distogliere lo sguardo, ma la maestosità del suo attributo mi attirava come una calamita, creando un caos di emozioni nella mia mente. “Non aver paura,” disse, sdraiandosi accanto a me, su un fianco, il suo corpo vicino al mio. Le sue mani iniziarono ad accarezzarmi la pancia con movimenti circolari, sfiorando appena la base dei seni e facendomi rabbrividire. Accavallò una gamba sulla mia, e sentii il suo pene pulsante adagiarsi sulla mia coscia, un contatto che mi fece trattenere il respiro.
Le sue carezze si fecero più audaci. Le mani salirono ai miei seni, stringendoli piano, stuzzicando i capezzoli fino a farli inturgidire. Poi scesero, lente e sicure, verso il mio monte di Venere, e un gemito mi sfuggì quando iniziò ad accarezzarmi l’intimità, le sue dita esperte che esploravano con una dolcezza tormentosa. Mi prese la mano guidandola verso il basso. Le mie dita si chiusero attorno al suo membro, duro e caldo, e iniziai a masturbarlo con movimenti incerti, mentre le sue dita si insinuavano dentro di me, facendomi ansimare. Il mio fiato si fece corto, il cuore un tamburo nel petto.
“Voglio sentire il calore del tuo corpo,” disse con voce roca, sdraiandosi su di me, corpo contro corpo, viso contro viso. Lo guardai negli occhi: c’era ancora quella dolcezza, quella tenerezza di un tempo. Spontaneamente, gli diedi un bacio sulla guancia, un gesto che sembrava quasi un sigillo. Ero al punto di non ritorno. Metabolizzai la situazione, lasciandomi andare a un sentimento che volevo credere fosse amore fraterno, puro nella sua follia. “Prendimi con l’amore che hai,” gli mormorai, guardandolo dritto negli occhi.
Sentii il suo pene premere contro di me, bussare alla porta del mio desiderio, entrare lentamente, facendosi strada con una dolcezza che mi strappò un gemito. Mio fratello mi stava possedendo, e io chiusi gli occhi, concentrandomi sulle sensazioni. Era amore, piacere, un misto di emozioni che avevo provato altre volte, ma mai così intense, mai così proibite. Mi sentivo piena di lui, della sua carne che mi penetrava con una calma devastante, riempiendomi completamente. Superato il tabù, iniziai a essere più attiva. Gli presi il volto tra le mani, avvicinandolo al mio “Solo per oggi sono la tua donna, dammi il meglio che puoi” sussurrai.
Il ritmo si fece più intenso, i nostri gemiti si mescolarono nell’aria. Presi il controllo, spinta da un coraggio che non sapevo di avere. Lo feci sdraiare supino sul letto e mi misi a cavalcioni su di lui, calandomi sul suo membro con un movimento deciso. La penetrazione fu profonda, intensa, e io potevo comandare il ritmo, andare su e giù con una libertà che mi inebriava. Ahmed mi sorreggeva i seni, stringendoli mentre ondeggiavano ai miei movimenti, i suoi occhi pieni di desiderio. “Sei incredibile,” mugugnò, la voce spezzata dal piacere.
Eravamo liberi da ogni pregiudizio, la vergogna un ricordo lontano. A sua richiesta cambiammo posizione, passando a pecorina, una posizione che mi aveva sempre eccitato per il modo in cui mi permetteva di sentirlo tutto, di partecipare attivamente. Mi misi a quattro zampe, offrendomi a lui, e Ahmed non esitò. Mi afferrò i fianchi, penetrandomi con una forza che mi fece gemere più forte. I nostri corpi si muovevano in perfetta sincronia, come in una danza primordiale, mentre la stanza si riempiva dei nostri respiri affannosi e degli schiocchi della nostra carne.
Sentivamo l’orgasmo avvicinarsi, un’onda irrefrenabile che ci travolgeva, i nostri corpi avvinghiati in un ritmo disperato. Il calore della nostra unione, pelle contro pelle, era quasi insostenibile, ogni movimento ci portava più vicini al limite. Ero persa nel piacere, ma un lampo di razionalità mi attraversò la mente. “Non venire dentro, ti prego,” lo supplicai, il fiato corto, le mani aggrappate alle sue spalle mentre cercavo di mantenere un barlume di controllo.
Ahmed rallentò appena, i suoi occhi scuri che cercavano i miei, un’espressione tra il desiderio e la sfida. “Perché, Grazia? So che prendi la pillola anticoncezionale,” disse, con voce roca, il respiro pesante contro il mio collo. Si chinò a sfiorarmi l’orecchio con le labbra, il suo tono che si abbassava in un sussurro seducente. “Perché vuoi privarti di questa sensazione? È unica, sai, un modo per suggellare questo momento tra noi. Fidati di me, non te ne pentirai. Anzi, mi ringrazierai per avertelo fatto provare.”
Le sue parole mi colpirono come un’ondata di calore, facendomi tremare sotto di lui. Il mio corpo sembrava rispondere prima della mia testa, il desiderio che combatteva con l’ultima traccia di resistenza. Lo guardai, i nostri visi a un soffio l’uno dall’altro, il sudore che ci univa ancora di più. Lui sorrise, un sorriso lento e sicuro, mentre le sue mani stringevano i miei fianchi, tirandomi più vicina. “Voglio solo sentirti, almeno per una volta mia.”
Sospirai, il cuore che martellava, il piacere che montava dentro di me e cancellava ogni dubbio. “Va bene,” mormorai, quasi incredula di me stessa, le gambe che si stringevano attorno a lui per attirarlo più a fondo. “Fallo, allora. Ma ricordati cosa significa per me. È… è solo per questo istante.”
Ahmed annuì, i suoi occhi che brillavano di una brama che mi fece rabbrividire. “Solo per questo istante,” ripeté, come una promessa, mentre riprendeva il ritmo, ogni spinta più intensa, più profonda, come se volesse marchiare quel momento nella nostra memoria.
“Dimmi che lo vuoi anche tu, sorellina. Dimmi che lo vuoi.”
“Lo voglio,” gemetti, inarcandomi sotto di lui, le unghie che affondavano nella sua schiena. “Lo sento, Ahmed. Non fermarti… non ora.”
Pochi istanti dopo, raggiungemmo l’apice insieme, travolti da una serie di contrazioni che sembravano non finire mai, i nostri corpi scossi dal piacere puro. Esausti, ma ancora uniti, crollammo sulle lenzuola, il sudore che brillava sulla nostra pelle.
Ci guardammo negli occhi, appagati, con un’intimità che non avevo mai provato prima. Con dolcezza, avvicinai le mie labbra alle sue e lo baciai appassionatamente, un bacio profondo che sigillava quel momento. Con voce spezzata dall'emozione dissi "Ricordati di questo giorno in cui ti ho dimostrato l'amore che ho verso di te e conservalo nel cuore".
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