L’harem - Introduzione

di
genere
dominazione

Primo capitolo introduttivo di quella che diventerà una serie ambientata in un mondo distopico. Ogni cosa che leggerete è frutto di fantasia.

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Guardavo attraverso il vetro blindato ma non vedevo realmente quello che c’era oltre.
Ogni tanto pensavo a come ero arrivato fin lì, e non erano sempre ricordi piacevoli. Il partito, la guerra, il nuovo ordine…non era stato facile, il prezzo era stato davvero alto. Però, come sempre, la storia la scrive chi vince, e noi avevamo vinto. I riconoscimenti in guerra mi avevano fatto fare carriera in fretta, ma il giorno in cui mi assegnarono la gestione di un centro fu una sorpresa, non credevo di essere l’uomo giusto, ma in quel momento non credevo ad un sacco di cose su cui oggi non ho alcun dubbio. Per esempio sul fatto che mandare avanti un centro mi piacesse. Del resto i centri di redenzione erano di vitale importanza, non si poteva lasciar prosperare l’eresia o la devianza, e chi si smarriva doveva essere recuperato, per il suo bene e di chi gli stava intorno, anche contro la sua volontà, che in quel momento era viziata e distorta.
Dall’alto della finestra del mio ufficio vedevo i dormitori, le sale di illuminazione, i nuclei di penitenza. Io qui ero onnipotente, qualsiasi mio ordine era eseguito immediatamente. Dai soldati di guardia per giusto senso del dovere, rispetto e disciplina, agli internati per paura, tutti mi obbedivano. Perché si, l’unico modo per avere a che fare con gli eretici era piegarli, e per farlo il modo migliore era la paura. Chi veniva portato qui su mezzi blindati neri e anonimi non arrivava mai solo, ma sempre con la propria famiglia. L’eresia è un’erbaccia infestante, e attecchisce sempre prima nel terreno più vicino, per cui tutti i familiari più stretti dell’eretico dovevano a loro volta essere sottoposti all’espiazione e alla redenzione.
Tra i direttori ero forse uno di quelli che si toglieva meno sfizi, ma uno era diventato una piacevole abitudine, ed ogni volta che arrivava un nuovo carico andavo di persona ad esercitarlo. Quella mattina non fu diversa. Vidi i soldati far scendere gli eretici dai blindati e farli mettere in riga, sapendo che avrebbero dovuto aspettarmi. Finii il caffè nero e mi avviai, uscendo dall’edificio a cui pensavo come al mio palazzo e salendo sulla jeep, nell’aria fredda di fine novembre, fino a dove avevano fatto schierare gli eretico uno di fianco all’altro. Scesi dalla vettura e camminai lentamente davanti a loro, guardandoli attentamente, cercando di capirli. Il viaggio era stato terribile, come quasi sempre, e la maggior parte di loro era già spezzata dalla stanchezza e dalla paura, il che era un bene, una mente debole può essere riportata più facilmente alla retta via. Ma non mi interessa quello, almeno non in quel momento. Parlavo con voce calma, misurata, spiegando perché fossero lì e come li avrei aiutati. Ad ogni sguardo leggevo la paura, la rassegnazione. Poi la vidi, un metro e sessanta, bionda, lunghi capelli chiari ormai sporchi e appassiti, pelle d’avorio. Sotto i vestiti pesanti intravedevo forme molto interessanti. Feci un cenno ad un soldato che senza troppe cerimonie la prese e la portò via, lei terrorizzata pianse e urlò, chi evidentemente era lì con lei fece lo stesso, ma in un attimo lei non era più lì e gli altri erano stati zittiti dal mio manganello. Finita la mia ispezione diedi istruzioni perché venissero portati ai dormitori e me ne andai. Quasi mezz’ora dopo ero seduto alla mia scrivania, lei di fronte a me, tremante, sull’orlo della lacrime.
“Come ti chiami eretica?”
“Nausica signore” un sussurro disperato ma dolce come la carezza di un’amante.
“Quanti anni hai?”
“Ventidue signore”
“Sai perché sei qui, in questa stanza, in questo momento?”
“No signore”
“Bene Nausica, te lo spiego subito. Ascolta attentamente perché non ripeterò e alla fine dovrai prendere una decisione molto importante. Io dirigo questo posto, e io qui decido qualsiasi cosa, compreso chi vive e chi muore. Mi piace dare a qualcuno però una possibilità in più, e questa possibilità ora è in mano tua. Se vuoi puoi unirti al mio piccolo harem privato, e questo comporterebbe non pochi benefici per te. Vivrai qui, al caldo, nutrita e curata, senza preoccupazioni. La tua famiglia sarà trasferita dai dormitori ad una vera casetta in muratura, avranno garantiti riscaldamento, due pasti al giorno e saranno assegnati a lavori più leggeri. In breve, un’enorme possibilità di sopravvivere in questo posto. Naturalmente tu sarai qui, quindi non li rivedrai se non in casi particolari e su mia concessione. In cambio di tutto ciò dovrai soggiacere ad ogni mia richiesta di natura sessuale e non solo. Non importata cosa ti ordini di fare, per quanto perversa, malata, disgustosa e terribile, accetterai qualsiasi mi richiesta con un sorriso ed un si. E considera che io sono davvero un pervertito, e mi piace esserlo, senza alcuna reticenza. Se dovessi deludermi tu e la tua famiglia perderete subito ogni privilegio. Accetti la mia offerta?”


Erano arrivati a casa mia alle prima luci dell’alba, avevano semplicemente fatto irruzione mentre dormivamo tutti, sfondando la porta. Nel giro di pochissimi minuti eravamo ammanettati e caricati a forza su un blindato molto affollato. Faceva un caldo infernale, non c’era spazio per muoversi, nessuno parlava, solo qualche singhiozzo. Sapevamo benissimo di cosa si trattava. Eravamo stati accusati di eresia da qualcuno e ci stavano portando in un centro di redenzione, che in breve era un posto in cui molto probabilmente saremmo morti di fame, fatica e malattia, ma se anche fossimo sopravvissuti ne saremmo usciti lobotomizzati. Eppure nessuno della mia famiglia ha mai neppure pensato a nulla di eretico. Ma comunque, eravamo lì. Il viaggio durò parecchie ore, fu terribile, buio completo, puzza tremenda, pochissimo riciclo d’aria, terrore, stanchezza, ansia. Quando il blindato finalmente si fermò e il portellone fu aperto la luce entrò violenta, crudele. Non sapevo neppure cosa pensare, uscire di lì voleva dire sopravvivere, ma scendere voleva dire morire.
Ma tanto non era una scelta. Fummo messi in riga ad aspettare il direttore. Il freddo invernale mi sferzava il viso, tagliente, crudele come tutto quello che era lì. Nessuno muoveva un muscolo, sapevamo che i militari avrebbero sparato senza neppure doverci pensare. Dopo una mezz’ora, ma che sembrava infinita, il direttore arrivò. Alto circa un metro e ottanta, ma in divisa sembrava un gigante, capelli rasati, barba corta, occhi verdi penetranti come lame. Lo guardavo muoversi mentre parlava, tono basso e fermo, meticoloso. Sapeva che per esercitare potere non serviva urlare, e che eravamo talmente spaventati che non avremmo mai fatto nulla di sconsiderato. Arrivò davanti a me, si fermò, mi osservò come si guarda un cavallo al mercato del bestiame, fece un cenno e un soldato mi portò via di peso. Mio padre protestò, cercò di fermarli, ma la resistenza durò poco e si infranse contro un manganello. Fui messa sul retro di una jeep e portata verso quello che doveva essere il centro di comando di questo inferno. Passando vedevo solo spettri, sguardi spenti, pelle morta appesa ad ossa spezzate. La cosa peggiore però furono quelli che sorridevano, sguardo vacuo ed euforico, sapevo che erano coloro che erano stati sottoposti alle macchine penitenti. Mettevano i brividi, letteralmente, avrei dovuto fare di tutto per evitarlo. Meglio morire.
Fui portata fino ad un’ufficio grande e sfarzoso, una stanza decorata con quadri e medaglie, una ingombrante scrivania di legno pesante e una sedia antica su cui fui fatta “accomodare” senza troppe cerimonie.
Mi guardai intorno, era certamente la stanza di qualcuno di importante, elegante ma austera, niente di superfluo, di frivolo, tutto diceva disciplina e autorità. Quanta gente era stata mandata a morire con una firma su quella scrivania?io ero nata dopo la guerra e non ho mai conosciuto niente di diverso da questo, ma si mormora che non fosse sempre stato così.
Restai lì per circa un quarto d’ora, non mi alzai perché sicuramente ero osservata. Poi la porta si aprì con un suono minaccioso, e i passi pesanti si fecero strada verso di me. Era il direttore, girò attorno alla scrivania e si sedette dall’altra parte.
Fece un discorso particolare, ma onestamente potevo aspettarmi di peggio. Aveva sempre quel tono calmo, freddo e padrone della situazione, gli occhi verde penetranti, autoritari ma non crudeli, avevo visto sguardi peggiori tra i soldati.
Alla fine ero davanti ad un bivio, ma era una falsa scelta. Diventare una schiava sensuale avrebbe salvato la mia famiglia, quindi sapeva benissimo cosa avrei deciso. Anche quella era una forma di potere e di tortura, forzare una decisione per poi rendermene schiava. Il “si” che mi uscì dalle labbra fu basso, forse un po incerto.


Non avevo dubbi che avrebbe accettato. Una sola ha rifiutato, e poi se ne è pentita amaramente.
Non dissi nulla, sollevai il telefono e feci un numero. Dall’altra parte una voce femminile che conoscevo bene rispose semplicemente “arrivo”
La porta si apri e la figura elegante di Sara si stagliò contro la luce proveniente dall’ampia finestra. “Prego avvicinati, ti presento Nausica, la tua nuova allieva”.
La ragazza guardò Sara timidamente, senza sapere cosa aspettarsi.
“Bene Nausica, vieni con me, ti mostro la tua nuova vita e cosa ci si aspetta da te”.
Mi limitai ad annuire con un cenno della testa e le due donne sparirono dietro la porta che si chiudeva alle loro spalle.
scritto il
2025-10-16
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