La rugiada
di
Tomtom1
genere
incesti
Sabato e domenica Eleonora sarebbe stata da me. È arrivata alle quattro, finita la scuola; ho sentito che salutava la madre, è salita a casa facendo i gradini a due a due. È entrata e si è tolta la cravatta e il golf bleu della divisa, le scarpe, poi ha fatto merenda.
Ho lavorato al pc, lei faceva i compiti, ogni tanto mi chiedeva qualcosa, ogni tanto si distraeva poggiando la testa sulle braccia sul tavolo, annoiandosi.
Quando ho finito, si è messa sulle mie gambe, voleva farmi vedere qualcosa al computer. Ridendo mi mostrava le pagine facebook sue e delle amiche — “Guarda, papà, le
qua eravamo a Norcia nel ristorante con tutti i salumi appesi”. Intanto si dondolava, sentivo le gambe che, chiuse chiuse, mentre il bacino si muoveva, si aprivano — lei cercava di sentire, contro la sua pelle, la mia. Io già premevo sul suo solco, dietro, e affondavo un po’ il naso nei suoi capelli.
Mentre cercava col mouse, le accarezzavo le braccia, con le mani scendevo sul ginocchio e poi salivo. Facevo piccoli cerchi con le dita, le spostavo dal ginocchio fino alla coscia, cercando di capire se potevo salire più in alto. A un certo punto ho smesso, e lei ha fatto una piccola mossa con le gambe, come a dire “continua”.
Ho ripreso a carezzare. Stavolta ero sulla sedia un po’ più ritto, lei sopra di me, aveva divaricato le gambe, leggermente, ma l’avevo sentita. Con la mano mi muovevo non più sull’esterno della coscia, ma verso l’interno. Ho continuato così, senza osare andare oltre, per cinque minuti. Poi, lei ha accostato il viso al mio, e io sono salito con le dita fino in fondo, sfiorando le mutandine.
La sera abbiamo mangiato una pizza — Eleonora rideva raccontando la settimana, quel che faceva coi fratelli.
Ci siamo messi sul divano a guardare un film, lei accostata a me, che ero sdraiato su un fianco.
Ho ripreso a carezzarla di nuovo, stavolta subito verso le mutandine, e con calma sono andato in fondo, dove ho cominciato a fare dei cerchi con le dita. Sono sceso dal ventre fino alla zona della fessura, con delicatezza le mie dita, il pollice e il medio, hanno dato una spinta alle cosce, invitandole ad aprirsi. Sono sceso sulla fessura, e ho sentito il tessuto delle mutandine che si era inumidito. Ho continuato a carezzarla lì e poi intorno, mentre le davo un bacio sulla guancia. La mia piccina faceva la rugiada — e stava facendo la rugiadina per il suo papà.
L’ho carezzata allora da fuori, nella zona dove sentivo che si inumidiva, e mentre la mano destra continuava, ho sentito il suo respiro accorciarsi — anche se faceva finta di niente. A quel punto con l’aiuto del pollice ho sollevato l’elastico della mutandina, e col medio l’ho alzata, per sentire la rugiadina, per toccare la pelle del suo solco. Mi sono spinto fin sotto, ho carezzato la fessura, tutta liscia, piccina, e con delicatezza ho spinto un dito, non senza difficoltà. Come il polpastrello è entrato, Eleonora ha sussultato. Sono stato un attimo, poi ho tolto tutto, forse intimorito. Poco dopo ci siamo dati la buonanotte, come se non fosse successo niente.
Il dito aveva un odore acre e pregno di umore, l’avrei carezzata anche la mattina dopo — anche lei voleva, sebbene non sapesse.
Ho lavorato al pc, lei faceva i compiti, ogni tanto mi chiedeva qualcosa, ogni tanto si distraeva poggiando la testa sulle braccia sul tavolo, annoiandosi.
Quando ho finito, si è messa sulle mie gambe, voleva farmi vedere qualcosa al computer. Ridendo mi mostrava le pagine facebook sue e delle amiche — “Guarda, papà, le
qua eravamo a Norcia nel ristorante con tutti i salumi appesi”. Intanto si dondolava, sentivo le gambe che, chiuse chiuse, mentre il bacino si muoveva, si aprivano — lei cercava di sentire, contro la sua pelle, la mia. Io già premevo sul suo solco, dietro, e affondavo un po’ il naso nei suoi capelli.
Mentre cercava col mouse, le accarezzavo le braccia, con le mani scendevo sul ginocchio e poi salivo. Facevo piccoli cerchi con le dita, le spostavo dal ginocchio fino alla coscia, cercando di capire se potevo salire più in alto. A un certo punto ho smesso, e lei ha fatto una piccola mossa con le gambe, come a dire “continua”.
Ho ripreso a carezzare. Stavolta ero sulla sedia un po’ più ritto, lei sopra di me, aveva divaricato le gambe, leggermente, ma l’avevo sentita. Con la mano mi muovevo non più sull’esterno della coscia, ma verso l’interno. Ho continuato così, senza osare andare oltre, per cinque minuti. Poi, lei ha accostato il viso al mio, e io sono salito con le dita fino in fondo, sfiorando le mutandine.
La sera abbiamo mangiato una pizza — Eleonora rideva raccontando la settimana, quel che faceva coi fratelli.
Ci siamo messi sul divano a guardare un film, lei accostata a me, che ero sdraiato su un fianco.
Ho ripreso a carezzarla di nuovo, stavolta subito verso le mutandine, e con calma sono andato in fondo, dove ho cominciato a fare dei cerchi con le dita. Sono sceso dal ventre fino alla zona della fessura, con delicatezza le mie dita, il pollice e il medio, hanno dato una spinta alle cosce, invitandole ad aprirsi. Sono sceso sulla fessura, e ho sentito il tessuto delle mutandine che si era inumidito. Ho continuato a carezzarla lì e poi intorno, mentre le davo un bacio sulla guancia. La mia piccina faceva la rugiada — e stava facendo la rugiadina per il suo papà.
L’ho carezzata allora da fuori, nella zona dove sentivo che si inumidiva, e mentre la mano destra continuava, ho sentito il suo respiro accorciarsi — anche se faceva finta di niente. A quel punto con l’aiuto del pollice ho sollevato l’elastico della mutandina, e col medio l’ho alzata, per sentire la rugiadina, per toccare la pelle del suo solco. Mi sono spinto fin sotto, ho carezzato la fessura, tutta liscia, piccina, e con delicatezza ho spinto un dito, non senza difficoltà. Come il polpastrello è entrato, Eleonora ha sussultato. Sono stato un attimo, poi ho tolto tutto, forse intimorito. Poco dopo ci siamo dati la buonanotte, come se non fosse successo niente.
Il dito aveva un odore acre e pregno di umore, l’avrei carezzata anche la mattina dopo — anche lei voleva, sebbene non sapesse.
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