2 Il bagno servile

di
genere
dominazione

si potrebbe cancellare il precedente racconto con lo stesso titolo? c'erano davvero troppi errori.


Questo racconto è il seguito di un altro racconto. Il bagno padronale.
Lo avevo già pubblicato ma c’erano degli errori. Lui li ha notati, poi forse racconterò questa anche questa storia li ho corretti e lo ripubblico sperando di non averne dimenticato altri. Lo spero anche perché ogni errore è un colpo di "cane".

Seguendo il suo ordine andai a pulire l’altro bagno, quello del garage. Era un bugigattolo grigio e deprimente, al centro un water giallastro all’esterno e marroncino all’interno. Non veniva pulito da anni: lo avevano usato operai, inquilini di passaggio, c’erano anche segni di animali randagi. Già solo svuotare lì il secchio era complicat: mancava l’illuminazione, se non quella flebile proveniente da una finestrella in alto. Di sera, solo i riflessi delle scale soprastanti gettavano un’ombra fioca.
Pulire quel bagno, immerso nel fetore e nella penombra, fu una vera impresa ma affrontai il compito con impegno. Non vi trovai alcuna emozione se non il generico piacere che mi da eseguire un compito che mi viene dato da Lui. I risultati furono infatti modesti: nessuno splendore, solo un lieve miglioramento, ma almeno non mi sarei preso infezioni. Tornai al piano di sopra stanco, affranto, e trovai la porta chiusa a chiave. Sul pianerottolo, un sacchetto con una bottiglietta d’acqua, un biglietto dell’autobus, quattro monete da due euro e un foglietto:
«Ti ho lasciato la mancia. Ci vediamo dopodomani.»
Ero furioso. Iniziai a ripensare alla sua cattiveria gratuita, al nostro rapporto, ma quel gesto mi parve crudele. Lo avevo esaltato e lui era andato via senza un saluto e lasciandomi una mancia derisoria. Ero esausto, umiliato. Decisi che per vendetta avrei usato il suo bagno padronale, lo avrei profanato utilizzandolo per una cagata imponente, e lo avrei lasciato così senza tirare l’acqua. Sarebbe stato a lui poi forse a richiamarmi. Sono certo che avrebbe compreso di aver esagerato. Una piccola rivalsa, simbolica e bastarda. Me lo stavo già immaginando. Tornando verso casa, controllavo il cellulare in continuazione. Non saprei dire cosa sperassi di trovarci. Forse una sua parola di conforto. Ero furioso e confuso.
Due giorni dopo tornai da lui, come previsto. Mi vestii con cura, ma dentro ero agitato. Volevo parlargli, forse anche chiudere tutto, e intanto la mia mente tornava con insistenza a quella vendetta immaginaria. Non avevo evacuato quella mattina: volevo trattenerla fino al momento giusto. E la sera avevo pure preso uno sciroppo volevo fosse una cagata memorabile. “Che se lo pulisse lui, per una volta”, pensai.
Di solito, quando arrivavo, non era in casa: lasciava le chiavi sotto una pianta. Io comunque ero sempre puntualissimo. Alle 8 in punto la porta si apri, e lui era li con un sorriso enigmatico. «Com’è elegante, il mio dalit», scherzò. Pochi giorni prima mi aveva raccontato delle caste indiane e dei dalit, gli intoccabili, il livello più infimo delle società indiana, cui sono riservati i lavori più umili, tra cui la pulizia dei bagni.
Volevo rispondere con freddezza. Il cuore mi batteva all’impazzata. Ma proprio in quel momento sentii l’intestino agitarsi. Trattenere la cacca si stava rivelando una pessima idea. Cercai di parlare, ma la tensione addominale offuscava i pensieri. Un crampo mi fece sussultare. Una scorreggia sfuggì e l’odore si diffuse nell’aria.
Arrossii. «scusami», dissi.
Mi guardò con uno sguardo sornione. «Ho deciso di cambiare le regole. Tu farai i tuoi bisogni e ti laverai nel bagno in garage. Quello che hai pulito l’altro ieri. Il secchio lo userai solo per la pipì. »
Restai muto. Non sapevo se protestare o andarmene. Ma prima che potessi decidere, proseguì: «Ora apri le finestre. Fai cambiare l’aria,manda via questo puzzo pestilenziale. Poi pulisci il mio bagno: devo fare la doccia e mi piace l’odore di pulito. Dopo, solo dopo, andrai nel garage a fare ciò che devi.»
«Ma io... devo andare subito», tentai di obiettare.
Il suo sguardo si fece più severo. «Te l’ho detto. Prima il bagno.»
«Davvero, non mi trattengo più», implorai.
Un po’ infastidito, mi ordinò di aprire la camicia e di mettere le mani dietro la nuca. Obbedii. Mi afferrò lo stomaco stringendo sotto l’ombelico. Fu doloroso, ma mi procurò un fugace sollievo. «Ce la puoi fare», disse. Non ho idea cosa avesse toccato e cosa avesse capito ma era molto sicuro di sé.
«Ma che ne sai tu di ciò che provo?», pensai. Avrei voluto protestare, dirgli tutto, confessare i miei pensieri. Ma non ne ebbi la forza. Immaginai scenari in cui lo mandavo al diavolo… e nel frattempo, mestamente, mi avviai verso il bagno.
Mi veniva da ridere e da piangere: la mia ribellione si era ridotta a una scorreggia.
Tutta la mia collera, il rancore, l’orgoglio ferito… sgonfiati in quell’emissione mal contenuta. Come diavolo aveva fatto a capire esattamente cosa provavo? Ammesso che lo avesse davvero capito. Aveva intuito che meditavo una piccola vendetta? Non lo so. Ma capii una cosa: ora dovevo solo concentrarmi sul compito. Pulire il suo bagno. E farlo bene.
Una cosa mi turbava profondamente: il Padrone non mi aveva dato la mano da baciare. Di solito lo fa per rassicurarmi. Possibile che non si fosse accorto del mio turbamento? O forse era in collera? Forse mi era sfuggito il gesto nel trambusto intestinale? Questo pensiero mi tormentava quasi più dei crampi.
Mi immersi nel lavoro. Per uno come me, non c’è niente di più calmante di eseguire un compito e i lavori domestici sono perfetti. Tutto doveva essere impeccabile e io avrei chiarito dopo… lo avrei fatti ricredere con il mio impegno. Alla fine ero paonazzo, madido di sudore, con lo stomaco in subbuglio, ma ce l’avevo fatta. E aveva avuto ragione lui: potevo resistere ben più di quanto pensassi. Lo andai a chiamare perché controllasse.
Entrò, osservò il bagno in silenzio, poi sorrise. La sua mano si alzò, roteò nell’aria e si distese davanti a me, fiera e impudica. Era lì, pronta per essere baciata. Esitai un istante: forse avrei dovuto confessare. Ma lui, come sempre, intuì tutto. E mi incoraggiò:
«Tranquillo. Adesso bacia la mano del tuo Padrone. E poi vai pure in bagno.»
Non me lo feci ripetere. Mi chinai con gratitudine e baciai avidamente quella mano che per me era più di un simbolo. Poi corsi verso il garage. Che liberazione!
Il bacio della sua mano mi pacifica sempre. Ma quella volta lo fece più a fondo. L’espulsione fisica, la sottomissione rituale, il suo perdono: tutto mi riportava alla verità del nostro legame. E ai miei bisogni profondi. Compresi che inconsapevolmente ero stato io a mettermi nei guai: Avevo usato la safeword alla terza frustata. Era stata una forma di ribellione mascherata. Non l’avevo riconosciuta, ma lui sì. E aveva saputo contenerla, domarla, redimerla.
La safeword è importante. Ma va usata con parsimonia. Non può diventare una via di fuga. È una risorsa estrema, non un trucco per sottrarsi alla punizione. Usarla per evitare il dolore è vile, come spesso siamo noi schiavi.
Il Padrone conosce i miei limiti meglio di me. Sa fin dove può spingersi. E soprattutto, sa quando è il momento di usare la frusta. L’uso della frusta è un suo diritto. E’ un suo diritto e lo esercita come vuole. Il mio primo dovere è invece obbedire e seguire la strada che lui m’indica.
E allora la lezione per me è stata chiara, e la offro a tutti: uno schiavo deve accogliere i voleri del proprio Padrone senza infingimenti. Deve offrirsi alla punizione con fiducia e gratitudine.
Ricorderò a lungo la mia "ribellione della scorreggia". E sono certo che, la prossima volta che userà il cane, mi comporterò diversamente.
Inutile fare troppe riflessioni



scritto il
2025-07-05
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