Spaccato in due - Prima parte

di
genere
gay

Quando finalmente mi decisi a partire per Torino era il maggio del lontano 1996, ed io avevo 23 anni. I miei zii avevano acconsentito ad ospitarmi e io avevo promesso ai miei genitori che mi sarei trovato un lavoro serio. Ma in realtà avevo in mente una cosa sola.
Nel mio piccolo paese del Sudditalia non riuscivo a dare sfogo alle mie pulsioni, per paura che qualcuno mi scoprisse: non volevo esser etichettato, come era capitato a qualche mio paesano che aveva ceduto agli impulsi. Io ero molto prudente ma anche molto poco audace, ahimè.
Dovevo masturbarmi quotidianamente ma questo non bastava a placare la mia fame di sesso. Per compensare la smodata voglia di cazzo iniziai, con molta cautela, a inserirmi oggetti oblunghi dietro, sperimentando quanto l’ano fosse di gran lunga la zona erogena che mi dava più soddisfazione.
La città di Torino era affascinante e sentivo nell’aria una certa tensione sessuale. Andavo in giro guardando a viso scoperto tutti i maschi che incontravo senza pudore.
In una delle tante edicole agli angoli delle enormi vie che tessevano la città, comprai una rivista di incontri per soli uomini, ricordo che si chiamasse “Marco” e in copertina troneggiava un gran bel maschio carico di muscoli che ammiccava verso di me. Sfogliando quelle pagine piene di annunci, mi resi conto che si stava aprendo un campo sterminato di possibilità davanti a me, di fare sesso sfrenato senza inibizioni. La sola idea mi inebriava.
Le mattine le passavo consegnando curriculum dove mi aveva indicato mio zio, mentre il resto delle giornate belle e assolate, le passavo al parco del Valentino, tra la vegetazione e quella sterminata massa d’acqua verde e brillante che era il fiume Po.
Mi sedevo in una panchina e, oltre a sfogliare di soppiatto la rivista, osservavo i vari movimenti degli uomini.
Era all’incirca l’ora di pranzo, ed io avevo già mangiato il mio panino quotidiano, quando un uomo che poteva avere tra i trentacinque e i quarant’anni, alto e fisicamente ben messo, che indossava un vestito di scarsa fattura, mi diede un’occhiata fugace ma intensa prima di sparire dentro la vegetazione.
Non potei fare a meno di seguirlo.
Trovai l’uomo con la patta aperta che stava facendo finta di pisciare. E quando si girò verso di me e mi mostrò cosa avesse tra le mani rimasi sbalordito. Era il cazzo di un uomo adulto, e non quei cazzetti con cui avevo fatto le primissime esperienze giù.
Ne fui talmente attratto che mi portai al suo cospetto e glielo toccai e provai un profondo piacere, era caldo e pulsante. Fu il primo gesto audace che mi concessi a Torino.
Avevo tra le mani il suo arnese di forma conoidale dove si ergeva una cappella rossa a punta mentre l’asta lunga e ampia si allargava alla base, ricoperta da una fitta peluria e si espandeva su tutto il pube, arrampicandosi fino all’ombelico per diramarsi in quel petto ampio che presto avrei avuto modo di apprezzare.
L’uomo capì benissimo che ero un ingenuo ragazzo di campagna tanto da permettersi di infilarmi la mano dentro i jeans concedendosi di esplorare il mio didietro.
Sussultai, sentendomi in suo potere e gemetti a lungo dal profondo piacere che quello stimolo mi procurava. Carico di emozioni, persi il controllo del mio corpo e venni subito. Mi svuotai nelle mutande, dentro i miei jeans ancora allacciati.
L’eiaculazione spense il mio ardore, catapultandomi nella realtà. Ritrovarmi davanti quell’uomo sconosciuto che ravanava nel mio didietro mi fece sentire a disagio tanto da volermi sfilare con urgenza dal suo abbraccio invasivo.
Lo guardai con un sorriso imbarazzato e infantile, confessandogli di essere venuto.
«Scusami, la prima è così. Però tra un po’ possiamo ritornare a farlo» mi apprestai a dirgli.
Lui non proferì parola. Dopo aver guardato l’orologio infilò a fatica la sua erezione dentro i pantaloni e chiuse la lampo, privandomi dalla vista di quella meraviglia.
«Ho da fare. Devo andare» disse.
«Peccato» gli risposi deluso per come era andata. «Mi sarebbe piaciuto farti venire anche a te» aggiunsi.
Quella frase riaccese il suo interesse, lo notai da un lampo che attraversò il suo sguardo lussurioso.
«Vieni stasera a casa mia, che stiamo più al lungo assieme» disse.
La proposta mi sconvolse. «Ma io non…»
«Comunque, io finirò verso le sette e mezzo, se vuoi venire fatti trovare davanti al cancello dell’ospedale» disse sbrigativo notando la mia perplessità. Poi sparì.
Erano appena le tre il pomeriggio, la città era al massimo della sua isteria, invadendo anche quell’angolo di pace che mi ero ricercato, quando decisi di andare a casa dei miei zii.
M’incamminai, sperando che loro non fossero già tornati dal lavoro per avere la possibilità di cambiarmi e cavarmi quelle mutande sporche del mio sperma e buttarle nella spazzatura.
Quando rincasando, mi trovarono seduto e annoiato a guardare una replica di una puntata di “A-team” sbracato sul divano. Tergiversai per qualche altra puntata e poi li raggiunsi in cucina.
Erano lì parlavano di questioni riguardanti il loro genero. Vedendomi si tacquero subito.
Io andai dritto al punto. Dissi che quella notte l’avrei passata da un amico, figlio di genitori del nostro paesello, che mi aveva invitato. Non era una richiesta di un loro permesso ma un mio modo di informarli che quella notte l’avrei trascorsa fuori.
Mia zia iniziò a tartassarmi di domande.
Fortunatamente intervenne mio zio. «E lascialo stare, Concè. Si è capito che s’è trovato già qualche picciuttedda torinese e stasera vuole abbagnare il biscotto…beata gioventù» disse lanciandomi uno sguardo complice.
Quando erano quasi le sette presi il mio zaino e ci infilai l’occorrente per passare la notte e volai via sotto lo sguardo contrariato di mia zia e ammiccante di mio zio. Una volta immersomi nel traffico estremo di quell’ora mi sentii addosso tanta paura, ma nello stesso tempo tanta era voglia di fare quell’esperienza. Prevalse la parte audace.
Alle sette e un quarto ero lì davanti dove l’uomo sconosciuto mi aveva ordinato di farmi trovare. Il cuore iniziò a pulsare a mille quando lo vidi di lì a poco.
Lui mi salutò con un cenno della mano un po’ distratto e m’indicò la fermata di un autobus.
«Abito a Moncalieri. Dobbiamo prendere quella corriera» disse senza neanche soffermarsi a guardarmi.
L’autobus arrivò dopo neanche cinque minuti e ci sedemmo uno difronte all’altro.
«Hai i pantaloni strappati!» mi fece notare lo sconosciuto con tono di scherno, che lì per lì non gradii.
«Sono grunge» risposi convinto.
L’uomo mi guardò perplesso. «Sei cosa?»
«Kurt Cobain, i Nirvana!?».
Lui scosse la testa, guardandomi come se parlassi arabo. Subito dopo si mise a fissare il paesaggio che ci scorreva affianco distogliendo lo sguardo su di me.
«Io lo faccio con il preservativo» dissi per mettere una barriera. Una parte di me si era già pentita.
Lui puntò gli occhi su di me con un’aria di sufficienza. «Allora puoi scendere alla prossima fermata, io non uso il preservativo» mi rispose secco.
Quando si aprirono le porte dell’autobus sulla fermata che lui mi aveva indicato rimasi seduto. O almeno una parte di me rimase seduta trascinandosi l’altra parte.
Le porte si richiusero e quell’autobus proseguì verso l’abisso ed io fui consapevole che quella sera avrei del tutto perso la mia innocenza.
«Hai fame?» mi chiese quando entrammo nel suo appartamento angusto di un palazzone squallido.
Si mise subito ai fornelli e preparò una cena sbrigativa, una bistecca di carne di vitello con contorno d’insalata. Dopo qualche boccone si alzò dalla tavola, si abbassò i pantaloni e mi presentò il suo cazzo, che mi sembrò ancora più grosso alla luce artificiale di una lampada impiccata al soffitto.
Senza esitare lo presi in bocca. Sapore di carne di vitello e sapore di carne di uomo si mischiarono nella mia bocca.
Poi mi guidò nella camera da letto, mi fece distendere di schiena e divaricò le gambe, senza mai dire una parola.
Sentii quel suo dito ruvido nella parte tenera e pulsante del mio buco. Poi le dita diventarono due ma stavolta erano umide, che entravano e tentavano di allargarmi.
Sfilò le dita e subito dopo percepii che avesse infilato il cazzo, era qualcosa di molto duro che cercava di farsi strada. Lui si ancorò ai miei fianchi e con forza si spinse dentro di me procurando un dolore lancinante. Sfinito da quella fitta mi ritrassi subito. Cercai di sottrarmi a una seconda ma lui mi afferrò di nuovo per i fianchi impedendomelo. Con ulteriore foga diede altre spinge per farlo entrare.
Urlai dal dolore e notai un suo grugnito di disapprovazione.
Affondai la testa nel cuscino e strinsi i denti e iniziai a tremare mentre tentava di penetrarmi.
Era infastidito dalla fatica ma nello stesso tempo di dava da fare come se avesse tra le mani un giocattolo nuovo e complicato.
«Cazzo! Non sei stato rotto bene» disse con un tono eccitato, mentre mi esplorava il retto, reinserendo di nuovo le dita per farsi strada dopo aver sfilato quell’enorme cazzo e alleviato il mio dolore.
«Fai un po’ piano, ti prego» lo implorai. Quasi piangendo.
Tolse le dita e dopo aver inumidito il mio buco sputandoci, riprese a cercare di entrarmi dentro. Sentii ancora una fitta lancinante ma stavolta non mi ritrassi.
Accolsi tutto il dolore. Ero quasi allo svenimento. Volli trasformare quel dolore in piacere. E mentre lui mi affondava dentro con impeto mi concentrai sul piacere che gli stavo dando tanto da iniziare a rilassarmi e di conseguenza dilatarmi.
Minore resistenza ponevo meno dolore percepivo. Così il piacere affiorò sempre più con maggiore intensità, espandendosi in cerchi concentrici che attraversavano tutto il mio corpo fino a giungere al cervello.
Ero ormai aperto e in balia del suo cazzo quando in una vertigine di goduria venni senza neanche toccarmi. Come se lo avesse percepito, lui aumentò il ritmo delle spinte in maniera sempre più incessante, fino a quando non lo sentii emettere un urlo gutturale. Un attimo dopo percepii un calore liquido nelle mie viscere, quasi in pancia e capii che mi era venuto dentro.
Il suo seme dentro di me mi diede una sensazione strana. Mi sentivo come se fossi una troia.
Esausta si accasciò al mio fianco mentre io mi rannicchiai per ritrovare la mia unità.
Sentivo il retto in fiamme e raggiunsi il bagno a piedi nudi mentre sentivo colarmi quel liquido denso tra le cosce.
Estrassi della carta igienica e mi pulii e con orrore notai che c’era del sangue. Mi terrorizzai.
Tornai, a malincuore. Svuotato e scarico.
Andai alla ricerca del letto per riposarmi. Volevo solo dormire.
Lui era sdraiato sul divano illuminato dalla luce del televisore. Era nudo con il membro a riposo, enorme anche in quella condizione. Una parte di me provò piacere nell’averlo soddisfatto, l’altra parte era devastata. Non saprei dire quale parte di me percepivo più estranea.
Mi aveva spaccato a metà: il corpo e l’anima.
Avevo da poco chiuso gli occhi quando lui venne a trovarmi nel letto. Senza chiedermelo, aiutandosi con la mano tornò dentro di me affondandomi tra le natiche, con colpi sempre più decisi. Questa volta fece meno fatica a fottermi e io provai meno dolore. E più piacere, anche se a partecipare era una sola parte di me mentre l’altra parte era scesa dalla corriera ed era tornata casa dai miei zii.
Più mi rilassavo più mi aprivo permettendogli di entrare sempre in profondità più godevo. Quella sensazione di essere divaricato, era qualcosa di inaccettabile ed allo stesso tempo elettrizzante, mi spingeva ad entrare sempre più nel ruolo di “troia”. Ero proprio nel mio ruolo e lui quella lunga notte mi stava mettendo davanti alla verità.
Dopo che mi venne dentro per la seconda volta ritornati in quel bagno lercio e già ero più esperiente. Non mi curai del sangue che comunque era meno ma soltanto di alleviare il bruciore.
Ero ancora seduto sulla tazza per forzarmi di fare uscire del tutto il seme che mi aveva inoculato quando la porta si aprì di colpo e lui mi si pose davanti tutto nudo con il cazzo semieretto.
«Puliscimi» mi ordinò indicando con gli occhi il suo cazzo. Presi della carta igienica e glielo pulii. Non contento lo presi tra le mani e lo pulii con la lingua, assaporando tutti gli umori di cui era ancora carico. Lui torreggiando mi guardò con uno sguardo di apprezzamento per quel gesto. E mi fece anche una carezza sulla testa, che mi procurò un’erezione.
«Vai a letto» mi ordinò.
Tornai a letto e lo attesi fino a quando non mi addormentai.
Non era ancora giorno quando venne a trovarmi di nuovo nel mio letto, per la terza volta, per tornare a fottermi. Mi sollevò una gamba per aprirsi un varco mentre io dormivo. Affondò con un impeto il suo cazzo inumidito soltanto con della saliva e fu subito dentro. Io gli agevolai l’entrata divaricandomi.
Ancora una volta mi stava usando come un oggetto, completamente disinteressato al mio di piacere. Il mio povero cazzetto abbandonato tornò a sborrare da solo senza essere mai stato toccato né da lui e neanche da me. Era come se non ce lo avessi.
Le prime luci dell’alba percossero i miei occhi quando lui venne a svegliarmi per dirmi che me ne dovevo andare. Infilai i vestiti del giorno prima e guadagnai l’uscita.
In strada, nel traffico mattutino, mi con lo zaino in spalla ripercossi la strada che avevo fatto con la sensazione di avere una voragine dentro.
Una parte di me stentava ad accettare quello che era successo, mentre l’altra parte sarebbe voluta rimanere, forse per sempre a farsi fare tutto quello che lo lui desiderava. Per sempre.
scritto il
2025-04-29
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