Le stagioni di Sara - L’autunno. cap.3
di
Biblioteca di Macondo
genere
sentimentali
Di Sara Aras
Le stagioni di Sara – L’autunno. Cap.3
Ricordo la prima volta in cui osai metterti a conoscenza di questi impulsi di trasgressione. Lo feci ponendoti di fronte al fatto compiuto, piuttosto che spiegartelo a voce.
Quella mattina ero passata al brico in cerca di non so neanche cosa; i miei occhi furono invece attratti dal luccichio delle catene d’acciaio esposte. Le toccai, il freddo del metallo mi diede un brivido, le immaginai a contatto con la mia pelle e non potei resistere: ne scelsi una abbastanza grossa e pesante e ne acquistai un paio di metri, insieme a dei lucchetti.
Al tuo rientro mi feci trovare nuda, con la catena che partiva da un polso, chiusa da un lucchetto come un bracciale, girava intorno al collo, anche qui bloccata e finiva all’altro polso col medesimo aggancio.
Mi guardasti stupito.
«Sara! Ma che fai? Sembri una schiava dell’antica Roma da vendere al mercato.»
Sorrisi.
«Ahahah… è vero, ma non è quella l’idea. Mi porteresti in giro così? Magari a cena?»
«Uscire così? Non ti sembra fuori luogo? Vestita solo di catene?»
«Ma no… non fino a questo punto. Metterò qualcosa sopra; ma sotto sarò così.»
Presi la giacca che avevo già preparato sulla sedia e la infilai. Chiusi i bottoni. Senza pantaloni o gonna, la giacca, non troppo lunga, mi copriva come un vestito corto, un mini abito. Infilai le scarpe, un paio di décolleté con un bel tacco, e andai allo specchio grande.
«Che ne dici? Così non traspare niente. Un abito a mezza coscia, provocante ma neanche troppo, ma sotto sono nuda; nuda e incatenata. Ti stuzzica?»
«Stuzzica? Altro che. Ma come ti è venuta quest’idea? Sei mezza matta.»
«Così… forse anche più di mezza. Allora? Dove mi porti?»
E fu così che provando: o la va o la spacca, ti presentai le mie piccole manie. Soprattutto ti feci capire che quando mi venivano, non cercavo di resistere ma anzi cedevo arrendevole.
La tua reazione mi fece tirare un gran sospiro di sollievo; il mio timore era, memore delle precedenti esperienze, di ricevere l’ennesima patente di svitata (mi voglio bene e uso un termine leggero) e un bel vaffa, con l’invito a deliziarmi da sola con tali trasgressioni.
Mentre sono lì a rievocare il passato, mi hai raggiunta, mi abbracci da dietro e mi baci sotto l’orecchio.
«So che non aspetti il mio permesso, tantomeno l’incoraggiamento.»
«No, lo sai. Non sto esitando. Sto mettendo a tacere la stupida parte di me che vorrebbe farmi ragionare. Mando al diavolo il buon senso per soddisfare il capriccio. È sempre così; stavolta però non è solo un capriccio, c’è un motivo in più.»
«Ti aspetto, allora…»
«Non so. Potrei starci molto, non scherzo. Devo pensare, tanto… Ti conviene andare a letto.»
Mi volti e mi baci. Mi sfilo piano dal tuo abbraccio e vado verso la porta.
Sono fuori! Nuda! Sotto la pioggia sferzante, a godermi i brividi di freddo. Mi manca quasi il respiro. Alzo le braccia e giro un paio di volte su me stessa. Mi avvio lungo il vialetto, non mi basta il giardino; devo camminare, a lungo, senza meta, lasciandomi portare dal vento e dall’acqua. Arrivo fin sulla strada, a quest’ora e con questo tempo non passa nessuno.
Guardo il rivolo vorticoso che scorre lungo il marciapiede, ci metto i piedi dentro e calpesto l’acqua, come un bambino in una pozzanghera. Dove andrà l’acqua? Giù, lungo la strada, poi si unirà ad altri rivoli, di altre strade, e poi… poi al mare. Sì, è lì che mi vuole, mi sta chiamando. Cammino coi piedi immersi seguendo il fluire che mi porterà dove sono attesa. Un bagliore improvviso. No, non è un lampo. Un’auto ha svoltato e sta salendo verso di me. Accidenti! Mi rannicchio tra due macchine parcheggiate e aspetto il suo passaggio. Lo spruzzo d’acque sollevato dalle ruote mi investe. Mi rialzo e riprendo la marcia. Non sento più il freddo, o forse lo sento e lo confondo col brivido della paura, del proibito.
“Sally cammina per la strada senza nemmeno guardare per terra…”
Mi torna in mente qualche frammento di canzone. Mi torna in mente lei. Fu lei a darmi questo soprannome: Sally. Mai dimenticato, come mai l’ho dimenticata, anche nei tanti anni in cui non ci siamo più sentite né viste.
“Sono lontani quei momenti, quando uno sguardo provocava turbamenti…”
Sono arrivata: pochi gradini e sono sulla spiaggia. Pochi passi e sono fuori anche dal fioco alone dei lampioni. A guidarmi ora è solo il vago biancore delle creste delle onde e il loro potente ruggito. Mi spingo fin sulla battigia, dove i marosi si allungano e poi si ritraggono seguendo il loro misterioso ritmo irregolare.
“È tutto un equilibrio sopra la follia…”
L’acqua mi avvolge le caviglie, le gambe: prima mi schiaffeggia, poi tenta di tirarmi a sé. Immergo le mani nella sabbia smossa e bagnata. La raccolgo e me la passo sul corpo. Strofino forte, quasi a volermi graffiare via dalla pelle gli strati più esterni e far emergere ciò che ho dentro.
Eccomi mare!
Sono venuta qui per te.
No, non ti sfido.
Conosco la tua potenza e ti rispetto!
Mi offro a te.
Prendimi!
Sbattimi!
Sconvolgimi nel corpo e nell’anima!
Scuoti via le mie ansie.
Le mie insicurezze.
Fammi sentire la tua forza.
E dammene una parte.
Quasi come una risposta, un’onda più imponente mi sommerge fino alla vita. La risacca è potente, barcollo, resisto un po’ e poi mi lascio andare. Mi trascina fino al limite, dove le onde infrangono le loro creste rovesciandole sulla sabbia. Mi sospinge di nuovo lontana, rotolandomi nel miscuglio di acqua e sabbia. Più e più volte mi lascio sballottare avanti e indietro, come i detriti con cui il mare gioca a spingere e poi riprendere. E, come un pezzo di legno, alla fine mi sospinge più su e mi deposita.
Sfinita mi abbandono col viso sulla sabbia. Le onde sembrano ora non volermi più trascinare nel loro gioco, adesso si limitano a sfiorarmi i piedi, a smuoverli e deporli di nuovo.
“Forse qualcosa s’è salvato. Forse davvero non è stato poi tutto sbagliato…”
Sì, forse non è tutto sbagliato.
Mi rialzo e con la lentezza della sicurezza di sapere ormai cosa fare, di aver deciso, mi incammino verso casa.
“Forse davvero ci si deve sentire alla fine un po’ male…”
La pioggia continua a bagnarmi, per liberarmi un po’ dalla sabbia mi passo le mani addosso, tra i capelli, scrollo la testa. Ormai è notte fonda, non passa più nessuno.
“Sally cammina per la strada, leggera…”
Sono davanti a casa. L’ultimo esame prima di rientrare. Devo essere convinta. Sono convinta.
“Forse era giusto così. Forse, ma forse… ma sì.”
Mi hai lasciato la porta socchiusa e un asciugamano subito lì, a portata di mano. Mi avvolgo nel suo morbido tepore e richiudo piano la porta.
“Senti che fuori piove, senti che bel rumore…”
La doccia calda lava via il sale, la sabbia, il freddo ma non la determinazione che mi sono costruita con il tempo trascorso fuori. Morbida e calda scivolo nel letto a ricevere il tuo abbraccio.
«Appagata?»
«Sì, ho soddisfatto la parte di me che ogni tanto mi chiede di osare e che l’altra parte mi lascia libera di accontentare. In più, stavolta, ho incanalato l’adrenalina, l’ho controllata e gestita nel lasciarmi andare, cercando di trarne la determinazione che mi occorre.»
Mi avvicino ancora di più a te, facendomi piccola nelle tue braccia.
«Di nuovo gattina?»
«mmmmmhhhh…» mugolo «a dire il vero ora vorrei essere un geco.»
«Un geco? Per arrampicarti sul muro?»
«No, non per quello. Un geco rosa; hai presente quelli piccoli, con la pelle così trasparente che lascia vedere gli organi interni?»
«Sì, però è strano questo tuo desiderio.»
«Ecco. Vorrei che la mia pelle fosse diafana, che tu potessi vedere dentro di me, come sono fatta: le ossa, il sangue, il cuore, la mente…»
«Un po’ come avere la vista a raggi X di Superman.»
«Così leggeresti cosa c’è nella mia mente, senza che io debba trovare il modo, tramutare i pensieri in frasi, cercando le parole giuste e col rischio che un pizzico di vergogna mi faccia omettere qualcosa.»
Le stagioni di Sara – L’autunno. Cap.3
Ricordo la prima volta in cui osai metterti a conoscenza di questi impulsi di trasgressione. Lo feci ponendoti di fronte al fatto compiuto, piuttosto che spiegartelo a voce.
Quella mattina ero passata al brico in cerca di non so neanche cosa; i miei occhi furono invece attratti dal luccichio delle catene d’acciaio esposte. Le toccai, il freddo del metallo mi diede un brivido, le immaginai a contatto con la mia pelle e non potei resistere: ne scelsi una abbastanza grossa e pesante e ne acquistai un paio di metri, insieme a dei lucchetti.
Al tuo rientro mi feci trovare nuda, con la catena che partiva da un polso, chiusa da un lucchetto come un bracciale, girava intorno al collo, anche qui bloccata e finiva all’altro polso col medesimo aggancio.
Mi guardasti stupito.
«Sara! Ma che fai? Sembri una schiava dell’antica Roma da vendere al mercato.»
Sorrisi.
«Ahahah… è vero, ma non è quella l’idea. Mi porteresti in giro così? Magari a cena?»
«Uscire così? Non ti sembra fuori luogo? Vestita solo di catene?»
«Ma no… non fino a questo punto. Metterò qualcosa sopra; ma sotto sarò così.»
Presi la giacca che avevo già preparato sulla sedia e la infilai. Chiusi i bottoni. Senza pantaloni o gonna, la giacca, non troppo lunga, mi copriva come un vestito corto, un mini abito. Infilai le scarpe, un paio di décolleté con un bel tacco, e andai allo specchio grande.
«Che ne dici? Così non traspare niente. Un abito a mezza coscia, provocante ma neanche troppo, ma sotto sono nuda; nuda e incatenata. Ti stuzzica?»
«Stuzzica? Altro che. Ma come ti è venuta quest’idea? Sei mezza matta.»
«Così… forse anche più di mezza. Allora? Dove mi porti?»
E fu così che provando: o la va o la spacca, ti presentai le mie piccole manie. Soprattutto ti feci capire che quando mi venivano, non cercavo di resistere ma anzi cedevo arrendevole.
La tua reazione mi fece tirare un gran sospiro di sollievo; il mio timore era, memore delle precedenti esperienze, di ricevere l’ennesima patente di svitata (mi voglio bene e uso un termine leggero) e un bel vaffa, con l’invito a deliziarmi da sola con tali trasgressioni.
Mentre sono lì a rievocare il passato, mi hai raggiunta, mi abbracci da dietro e mi baci sotto l’orecchio.
«So che non aspetti il mio permesso, tantomeno l’incoraggiamento.»
«No, lo sai. Non sto esitando. Sto mettendo a tacere la stupida parte di me che vorrebbe farmi ragionare. Mando al diavolo il buon senso per soddisfare il capriccio. È sempre così; stavolta però non è solo un capriccio, c’è un motivo in più.»
«Ti aspetto, allora…»
«Non so. Potrei starci molto, non scherzo. Devo pensare, tanto… Ti conviene andare a letto.»
Mi volti e mi baci. Mi sfilo piano dal tuo abbraccio e vado verso la porta.
Sono fuori! Nuda! Sotto la pioggia sferzante, a godermi i brividi di freddo. Mi manca quasi il respiro. Alzo le braccia e giro un paio di volte su me stessa. Mi avvio lungo il vialetto, non mi basta il giardino; devo camminare, a lungo, senza meta, lasciandomi portare dal vento e dall’acqua. Arrivo fin sulla strada, a quest’ora e con questo tempo non passa nessuno.
Guardo il rivolo vorticoso che scorre lungo il marciapiede, ci metto i piedi dentro e calpesto l’acqua, come un bambino in una pozzanghera. Dove andrà l’acqua? Giù, lungo la strada, poi si unirà ad altri rivoli, di altre strade, e poi… poi al mare. Sì, è lì che mi vuole, mi sta chiamando. Cammino coi piedi immersi seguendo il fluire che mi porterà dove sono attesa. Un bagliore improvviso. No, non è un lampo. Un’auto ha svoltato e sta salendo verso di me. Accidenti! Mi rannicchio tra due macchine parcheggiate e aspetto il suo passaggio. Lo spruzzo d’acque sollevato dalle ruote mi investe. Mi rialzo e riprendo la marcia. Non sento più il freddo, o forse lo sento e lo confondo col brivido della paura, del proibito.
“Sally cammina per la strada senza nemmeno guardare per terra…”
Mi torna in mente qualche frammento di canzone. Mi torna in mente lei. Fu lei a darmi questo soprannome: Sally. Mai dimenticato, come mai l’ho dimenticata, anche nei tanti anni in cui non ci siamo più sentite né viste.
“Sono lontani quei momenti, quando uno sguardo provocava turbamenti…”
Sono arrivata: pochi gradini e sono sulla spiaggia. Pochi passi e sono fuori anche dal fioco alone dei lampioni. A guidarmi ora è solo il vago biancore delle creste delle onde e il loro potente ruggito. Mi spingo fin sulla battigia, dove i marosi si allungano e poi si ritraggono seguendo il loro misterioso ritmo irregolare.
“È tutto un equilibrio sopra la follia…”
L’acqua mi avvolge le caviglie, le gambe: prima mi schiaffeggia, poi tenta di tirarmi a sé. Immergo le mani nella sabbia smossa e bagnata. La raccolgo e me la passo sul corpo. Strofino forte, quasi a volermi graffiare via dalla pelle gli strati più esterni e far emergere ciò che ho dentro.
Eccomi mare!
Sono venuta qui per te.
No, non ti sfido.
Conosco la tua potenza e ti rispetto!
Mi offro a te.
Prendimi!
Sbattimi!
Sconvolgimi nel corpo e nell’anima!
Scuoti via le mie ansie.
Le mie insicurezze.
Fammi sentire la tua forza.
E dammene una parte.
Quasi come una risposta, un’onda più imponente mi sommerge fino alla vita. La risacca è potente, barcollo, resisto un po’ e poi mi lascio andare. Mi trascina fino al limite, dove le onde infrangono le loro creste rovesciandole sulla sabbia. Mi sospinge di nuovo lontana, rotolandomi nel miscuglio di acqua e sabbia. Più e più volte mi lascio sballottare avanti e indietro, come i detriti con cui il mare gioca a spingere e poi riprendere. E, come un pezzo di legno, alla fine mi sospinge più su e mi deposita.
Sfinita mi abbandono col viso sulla sabbia. Le onde sembrano ora non volermi più trascinare nel loro gioco, adesso si limitano a sfiorarmi i piedi, a smuoverli e deporli di nuovo.
“Forse qualcosa s’è salvato. Forse davvero non è stato poi tutto sbagliato…”
Sì, forse non è tutto sbagliato.
Mi rialzo e con la lentezza della sicurezza di sapere ormai cosa fare, di aver deciso, mi incammino verso casa.
“Forse davvero ci si deve sentire alla fine un po’ male…”
La pioggia continua a bagnarmi, per liberarmi un po’ dalla sabbia mi passo le mani addosso, tra i capelli, scrollo la testa. Ormai è notte fonda, non passa più nessuno.
“Sally cammina per la strada, leggera…”
Sono davanti a casa. L’ultimo esame prima di rientrare. Devo essere convinta. Sono convinta.
“Forse era giusto così. Forse, ma forse… ma sì.”
Mi hai lasciato la porta socchiusa e un asciugamano subito lì, a portata di mano. Mi avvolgo nel suo morbido tepore e richiudo piano la porta.
“Senti che fuori piove, senti che bel rumore…”
La doccia calda lava via il sale, la sabbia, il freddo ma non la determinazione che mi sono costruita con il tempo trascorso fuori. Morbida e calda scivolo nel letto a ricevere il tuo abbraccio.
«Appagata?»
«Sì, ho soddisfatto la parte di me che ogni tanto mi chiede di osare e che l’altra parte mi lascia libera di accontentare. In più, stavolta, ho incanalato l’adrenalina, l’ho controllata e gestita nel lasciarmi andare, cercando di trarne la determinazione che mi occorre.»
Mi avvicino ancora di più a te, facendomi piccola nelle tue braccia.
«Di nuovo gattina?»
«mmmmmhhhh…» mugolo «a dire il vero ora vorrei essere un geco.»
«Un geco? Per arrampicarti sul muro?»
«No, non per quello. Un geco rosa; hai presente quelli piccoli, con la pelle così trasparente che lascia vedere gli organi interni?»
«Sì, però è strano questo tuo desiderio.»
«Ecco. Vorrei che la mia pelle fosse diafana, che tu potessi vedere dentro di me, come sono fatta: le ossa, il sangue, il cuore, la mente…»
«Un po’ come avere la vista a raggi X di Superman.»
«Così leggeresti cosa c’è nella mia mente, senza che io debba trovare il modo, tramutare i pensieri in frasi, cercando le parole giuste e col rischio che un pizzico di vergogna mi faccia omettere qualcosa.»
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