La nave scuola - parte 3

Scritto da , il 2013-02-26, genere prime esperienze

Essendo febbraio, quella sera faceva discretamente freddo. La trovai in piedi nel posto convenuto, con i suoi occhiali dalla montatura pesante, nascosta da un piumino nero. Nulla di impressionante insomma. Lasciai scegliere a lei il bar dove poter prendere qualcosa da bere, dato che diceva di conoscere tutto il centro come le sue tasche, e ci incamminammo chiacchierando. Dichiaro’ subito di essere venuta li’ con i mezzi pubblici (nonostante possedesse un’auto); nella mia citta’ e’ gia’ difficile che una ragazza si metta da sola sui mezzi alle 8 di sera, praticamente impossibile a fine serata: capii subito, almeno questo, che l’avrei riaccompagnata a casa e intuii tutto cio’ come una mossa da parte sua. Dopo la serie di telefonate a casa, vere e proprie cariche di profondita’ per stanarmi e costringermi all’emersione, ecco che esercitava di nuovo pressione appena incontrati. Azione e pressione continua erano il suo gioco.

Quando ora mi capita di passare davanti a quel bar, attraverso la vetrina guardo con un po' di nostalgia e tenerezza quel tavolo e quel divanetto.
Ci togliemmo le giacche e io, povero pivello, sfoggiai tutto tronfio la mia cravatta. Lei, dal canto suo, era tutt'altro che casual: maglioncino chiaro, gonna in tessuto invernale color granata e canonici collant. La gonna non era certo una mini, arrivava quasi alle ginocchia, ma la vista delle gambe era più che sufficiente a rallegrarmi la serata. Si tolse poi gli occhiali, inforcandoli probabilmente sopra la fronte, e manifestando due occhi molto belli color nocciola incorniciati da un viso altrettanto carino.
Era di carnagione chiara, con i capelli lunghi e biondi. Di viso assomigliava contemporaneamente a due delle showgirl che più mi piacevano. Discretamente alta e in carne, ma non grassa, il mio fisico preferito. Quando ci eravamo presentati a casa un paio di settimane prima mi ero sbagliato sul suo conto clamorosamente. Per la prima volta in vita mia, sedevo a un appuntamento a due con una biondona. L'affare si stava ingrossando.

Cinzia diventava “un oggetto sempre meno misterioso” per me. Parlava lenta, sorniona, disillusa. Superficialmente si potrebbe pensare che se la tirava e basta, ma non era affatto cosi’. Le cose belle e brutte della vita le sentiva a volte con grande emozione, come tutti, ma sapeva poi rielaborarle e accoglierle con ironia e distacco. Si vedeva lontano un miglio che aveva gia’ vissuto molto, e non si lasciava impressionare facilmente.
La serata trascorse piacevole e quindi troppo veloce, senza particolari momenti salienti.
La riaccompagnai a casa in auto, non senza difficolta’, con lei che mi faceva da navigatore ad ogni incrocio: la zona della citta’ in cui abitava mi era completamente sconosciuta, e letteralmente odiavo guidare da quelle parti se penso alle rare volte in cui c’ero capitato per sbaglio.
Restammo seduti a motore spento sotto il suo portone, continuando a chiacchierare con lo sguardo oltre parabrezza. Sapevo che ora toccava a me agire, non parlare, ma stavo esitando. Questione di un attimo e apparirono i primi vuoti di parole, mentre la situazione stava precipitando velocemente verso lo stallo. Da un momento all’altro, per stemperare l’imbarazzo che si stava creando, avrebbe potuto dirmi con un bel sorriso “Beh, ora devo andare e grazie per la serata. Ciao!”. L’immagine del rigore tirato in curva rende l’idea.
Fu allora che mi vente in mente di iniziare a togliermi la cravatta, nel modo piu’ naturale e casuale che potevo: imitare uno spogliarello sarebbe stato patetico, mentre speravo che fosse lei ad aggiungere teatralita’ aiutandomi. In fondo c’erano gli impedimenti del volante e della giacca, per non parlare del piccolo specchietto. La immaginavo mentre mi sfilava la cravatta dal colletto molto lentamente. “Ti spiace se mi tolgo la cravatta?” - accentuai un po’ di difficolta’ a sciogliere il nodo mentre guardavo nello specchietto - “Fa’ pure, vuoi una mano?” – Si’. Grazie” - “La cravatta e’ un simbolo fallico, lo sapevi?” concluse.
Inutile dire che, come mossa finale, mi sfilo’ la cravatta molto lentamente. Passo’ ancora qualche minuto e qualche parola, o piu' probabilmente qualche secondo. Eravamo arrivati al punto in cui era piu’ difficile parlare che agire, e mi avvicinai alle sue labbra sentendo per la prima volta il profumo della sua pelle. Gol! Vidi la rete gonfiarsi, e non solo quella, emntre la mia testa era diventata uno stadio urlante di gioia.
Dopo la bocca passai al collo, ma mi interruppe dicendo che cosi’ la mandavo su di giri. Si sedette poi sopra di me e continuammo a baciarci abbracciati e a chiacchierare in liberta’. “Sei una gatta” – “i gatti sono cattivi” – “allora sei una stella” – “una supernova diciamo”. Non mi era piaciuto il suo commento sui gatti, ma almeno era spiritosa. Comunque non ci teneva ad addentrarsi nelle smancerie e lasciai perdere un po’ a malincuore. Una volta saziati dallo stare insieme ci congedammo. Fuori dal finestrino dell’auto mi dette ancora qualche indicazione stradale e ingranai la marcia.
Ora ero finalmente solo e potevo dare la stura a tutti i miei pensieri. Ci saremmo ancora rivisti? Avrebbe spifferato con mia madre? Ci saremmo innamorati l’uno dell’altro?
E adesso in quale cavolo di strada ero finito?

Continuai a manovrare ancora per un po’ alla cieca, mentre notavo che stavo addirittura uscendo dalla citta’. Mi ero perso di notte in una zona malfamata, con la spia del serbatoio che aveva iniziato ad accendersi. Accostai cercando di “fare il punto”, meno male che lo stradario non mancava. All’improvviso un dito picchio’ sul vetro del passeggero facendomi scattare: era una meretrice subsahariana sorridente, in cerca di clienti.
Ripresi poi a guidare senza farmi prendere dal panico: il serbatoio era in riserva, ma non ancora secco come un Martini. Se non sbagliavo troppe volte avevo buone chances. Accostai piu’ volte per orientarmi sulla mappa, senza fare drammi, e trovai finalmente un sentiero noto.
Ero gia’ sano e salvo in camera mia, tutta la serata era andata bene, pensai mentre mi spogliavo. Nel letto solo con me stesso e al buio, ero obbligato ad ascoltare i miei pensieri.

…continua…

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