Amici di ieri

Scritto da , il 2022-03-02, genere sentimentali

Non so se potessi definirmi nervoso... nel senso, Davide lo conoscevo da quando avevo tre anni, e ora ne avevamo entrambi diciannove, in procinto per diplomarci. Non chiacchieravamo durante l’intervallo né ci vedevamo fuori scuola ma oh, comunque eravamo rimasti l’uno la costante dell’altro; dall’asilo alle elementari, poi dalle elementari alle superiori, sempre insieme, nella stessa classe, mentre qualche nostro buon vecchio amico purtroppo non proseguiva con noi, e poi dalle medie alle superiori, stesso indirizzo, stessa sezione, non cambiava NIENTE. E nello scalare le classi pure alle superiori nessuno dei due riusciva a liberasi dell’altro, veniva bocciato questo, poi l’anno dopo quell’altro, o entrava qualcuno di nuovo, e la classe si restringeva come s’allargava, tipo un elastico; ma io e Davide, poteva accaderne di ogni, non ci saremmo mai allontanati.
Neanche a dire che noi ci mettessimo del nostro eh, voglio dire, pure senza fare alcun tipo di richiesta per farci capitare nella stessa classe, o senza fare tutto pur di non farci bocciare: i miracoli avvenivano e venivamo promossi pure senza impegno, e voilà ciao Davide, ci rivediamo a settembre, ce l’abbiamo fatta anche ‘sta volta.
Va bene, devo ammetterlo: in realtà io non confidavo mica nel destino per farmi promuovere; anzi, nemmeno ci credevo a quelle cose. Mi impegnavo, e anche di brutto, ed è per questo che la madre di Davide, donna che faranno santa, ve lo dico io, m’aveva chiesto se potevo passare a casa loro quel giorno per studiare qualche argomento insieme a lui. Chiariamoci, alla cara signora Anna importava del rendimento del figlio più che a Davide, gli organizzava delle ripetizioni, tentava di coinvolgerlo nelle cose da studiare come se a scuola ci andasse lei. Però a lui non serviva niente di ciò che gli veniva procurato; ripetizioni, ripassi? Certo che non ne aveva bisogno. Un genio? Non proprio; per dirla in modo elegante: se ne sbatteva proprio il cazzo della scuola, ma Anna, gioia mia, aveva una perseveranza mai vista. Oh oppure aveva il salame sugli occhi, fate voi.
Fatto sta che con l’inizio delle superiori io e lui c’eravamo sempre più distinti, di anno in anno: io arrivai ad essere il più bravo mentre lui si trascinava di classe in classe una promozione risicata alla volta. E da come giocavamo insieme da piccoli eravamo diventati l’uno l’opposto dell’altro, le differenze tra di noi erano emerse come dell’olio nell’acqua; e non stento nemmeno a crederci, avevamo diciannove anni ormai. Se lui faceva quello che continua a parlare con gli amici durante le lezioni ed è già tanto che ricorda di portare con sé l’astuccio, io ero diventato... il secchioncello (però non così timido come il cliché, dai). Tuttavia c’era qualcuno, o meglio qualcuna, che a queste differenze non badava molto, ed era la mamma di Davide; voglio dire che a guardarci con i suoi occhi io e lui rimanevamo quei bambini che abitavano vicini e giocavano nel giardino dell’asilo tanti anni prima, mentre i nostri genitori chiacchieravano di noi quando s’incontravano per venirci a prendere. E in virtù di questa prospettiva, di questa realtà distorta, la signora Anna mi chiedeva spesso di venire a fare i compiti a casa di Davide, nel vano tentativo di fargli combinare qualcosa.

E così un giorno di quelli presi le gambe e mi incamminai verso casa sua fermandomi a qualche passo dal cancello. Ero nervoso, sì; o meglio, percepivo la sensazione e la consapevolezza che io e Davide avevamo smesso di essere intimi amici già da tempo ma per varie ragioni avrei passato il pomeriggio con lui. In più, ed era ciò a pesarmi maggiormente, sentivo che anche lui pensava lo stesso, cioè sapeva che io sarei andato a casa sua solo per far contenta sua madre. E magari avrebbe passato tutto il tempo a pensare tra sé e sé “Devo spendere tutto ‘sto tempo con lui che di cose in comune ne abbiamo zero solo per far smettere quella di rompere le palle”; dio solo sa quanto questo mi metteva a disagio. Tuttavia, confidavo nella sua comprensione da vecchio amico, cioè speravo che riconoscesse che io non avevo potuto dire di no a sua madre, povera, e che quindi mi trovavo lì anche io dietro una sorta di costrizione.
“Oh...! Ciao tesoro, vieni vieni, accosta pure lì il cancello... tutto bene?” e venni risucchiato dalle mani della signora Anna che mi trascinava amorevolmente dentro casa. Una donna di poche parole no eh; continuava a chiedermi se avevo fame, sete, come stavano i miei. D’altronde una donna minuta e animata come lei come poteva esserlo? Ma pensai che con il suo caldo e invadente approccio volesse indirettamente ringraziarmi di essere venuto a studiare con Davide nella speranza di “scuotere” suo figlio almeno stavolta, almeno prima dell’esame di maturità dopo gli insuccessi degli anni prima. “Davide è giù, vi lascio da soli e non vi rompo!”.

Presi le scale per la taverna, con attenzione perché ero stato tenuto a lasciare le scarpe all’ingresso, come tipico, e quindi mi scivolavano i piedi come ero scivolato io nella trappola della mamma di Davide che mi vedeva come l’ultimo valido mezzo per aiutare suo figlio (il quale di farsi aiutare non è che moriva dalla voglia).
Sbracato a gambe tese sul divano, immobile come un computer impallato, mosse le palle degli occhi solo appena lo salutai. Fece scivolare con un balzo il joystick dalle mani e mi lanciò un “Ehilà, grande Ale! Vie’ qua” e si compose ad un lato del divano. Un po’ di genuina timidezza mi impedì di precipitarmi accanto a lui e mentre posavo le mie cose sul tavolo alle sue spalle tentai di temperare la (mia) tensione. “Allora? Che racconti?” quasi balbettai. Staccò un istante lo sguardo dalla tele e mi fissò quasi confuso. “Ma se ci siamo visti neanche due ore fa a scuola” rise. “Vuoi far lo spiritoso?” - pensai - “E va bene”. “Oh cazzo ne so cos’altro combini nella tua vita” ribattei, e mi buttai con prepotenza sul divano. “Mo’ arrivo eh! Finisco la partita” disse senza staccare gli occhi dalla tele; se ne stava immobile con quel pezzo di lingua sopra al labbro, concentrato come me quando prendo gli appunti in classe, pizzicandosi più volte l’inguine quasi a grattarsi per qualche fastidio. “Tanto fai schifo... tanto vale aprire i libri” - lo sfottei, e lui - “Magari per te è vitale ma io sopravvivo pure senza!”. “Anna, qua ho già capito: ho tastato il terreno e me ne posso pure andare di già, tanto qui è tutto irremovibile!” - pensai ironicamente - “Cazzo io dovrei studiare seriamente però! Siamo a fine maggio, tempo dieci giorni e la scuola finisce... cos’è, di qui alla maturità io devo passare le giornate a cercare di aiutare gli svogliati?”.

Ebbene sì, avete fatto centro, fate bene ad esservelo immaginato. Che cosa? Il tempo, ovviamente; quell’atmosfera un poco frizzante, leggera, che sembra annunciare qualcosa di bello. Sì, c’era quella sensazione nell’aria, quella tipica di fine primavera, col sole ancora non ustionante e i profumi che giungono alle narici, e anche i pollini che girano dappertutto (similmente al giramento di coglioni che preludeva quel pomeriggio). Bastava un po’ di brezza estiva ed ecco che mi veniva la pelle d’oca e i peli mi si rizzavano sulle braccia; ma d’altronde era il costo da pagare per iniziare a indossare i vestiti corti, soprattutto quei bei pantaloncini corti e sportivi per stare in casa ma anche per uscire, perfetti sempre, sintetici, e guarda caso io e Davide c’avevamo avuto la stessa idea. Nel senso, non è che fosse ‘sta gran cosa, però questa sensazione di freschezza, di starsene comodi con qualcosa che bastava indossarla e ti evidenziava il cavallo senza far niente; questo sentore capii che ce l’aveva pure lui. E infatti se ne stava con quei capelli neri e lisci disordinati in testa, una maglietta di un colore che non si intonava manco con l’asfalto, e quei benedetti pantaloncini che a malapena gli coprivano mezza coscia; ma era casa sua, che stesse come voleva. “Anzi” - pensai - “fammi approfittare...” e gli mollai una manata a tradimento sulla gamba che quasi mi aspettai Anna scendere in taverna per la preoccupazione. “Cazzo, corta ’sta partita oh!” esclamai mentre mi malediceva in varie lingue.

“Cià, prendiamo ‘sti cazzo di libri” sospirò sorridendo mentre mi lanciò un’occhiata come a dire “Così tu e quella là vi zittite”. Intanto presi posto al tavolo compiaciuto, e pure sollevato che stette alla mia amichevole manata (che oh, con che confidenza gliela diedi io non lo so); fatto sta che seduto pure lui, di fronte a me, e preso in mano un libro, lo guardò rapidamente dalla copertina al retro per capire di che materia fosse, poi guardò sul tavolo davanti a me. “Cos’hai te?” - aguzzò la vista - “Storia, francese... eh minchia ma dimmelo! Che palle!... aspetta qua che quelli li ho in camera” e mi mollò un piccolo schiaffo sulla nuca andando verso le scale. Non fu però molto veloce e non riuscì così a sottrarsi ai miei riflessi incondizionati che mi portarono ad alzarmi di colpo; pensò che lo feci di proposito e fece uno scatto lontano da me. Rise nervosamente mettendosi tipo in posizione di difesa, e allora allargai le braccia facendo due passi verso di lui come per braccarlo; scappò per le scale di corsa urlandomi “Vaffanculooo!” e mi risedetti ad aspettarlo.
Tornò. “Stavo per mandare una squadra di ricerca” dissi. “Tranqui che la chiama tua mamma dopo che ti salto addosso io, se non la pianti” ribatté. “Fammi un favore la prossima volta” - continuò - “se mia mamma ti chiede ancora di venire qua a studiare dille di no per favore” e sorrise, perché era sarcastico. Lo era perché (ma io non potevo ancora saperlo) non voleva rischiare di sembrare serio; non voleva rischiare che io non tornassi davvero più a casa sua.
“Dai oh, andiamo all’indice del libro” - tentati di smuoverlo - “vediamo che collegamenti possiamo fare con storia e francese”. Abbassammo entrambi gli occhi, lui sospirò; una manciata di secondi e mosse le gambe che sentii urtare contro le mie. Sentivo la mia pelle toccare la sua, ma non si scostò, della serie “Come NON gestire l’imbarazzo”. Ero così immerso a leggere, anche per non pensare alle nostre gambe che continuavano a toccarsi, che non mi accorsi che si era staccato dal libro e s’era messo sbracato sulla sedia guardando verso di me con le mani conserte. “Guardati le mie foto su Instagram se mi devi fissare, che lì sono messo meglio” dissi sarcastico. “Daje Davideee, mettici pure tu però! Cazzo sembri morto” al che mi rispose “Dai ma cosa devo fare, non c’ho voglia...” - sbuffò guardandosi in giro - “Andrà come deve andare, non c’ho voglia di far nulla... e poi c’ho caldo!” esclamò scoprendosi per un istante l’addome quasi per farsi aria con la maglietta. Sospirai. “Ho capito ma tua madre magari s’incazza pure con me se non combiniamo nulla... e poi oh almeno io mi devo preparare” lo presi in giro; lui non disse nulla, accennò una smorfia e si perse guardando nel vuoto. Proseguii: “Dai oh, te fai quello che vuoi, rilassati, ma almeno finché tua madre non esce di casa io sto qua a far qualcosa, mica che scende di colpo e a combinare nulla trova entrambi”. Mi sembrò pensieroso in quel momento, come a elaborare bene qualcosa prima di dirla. Di colpo si rasserenò e si alzò sbuffando: “Oh Ale cosa vuoi per fare collegamenti tra le materie anche per me?” e si mise a ridere facendosi cadere malamente sul divano. “Niente... tanto mica ci vuole molto eh, sei te sfaticato” - “A posto allora, grande l’Ale” e si allungò a riaccendere la Playstation.
Non reagii; e non tornai nemmeno a leggere quel che stavo leggendo. Semplicemente mi fermai a fissarlo da dietro mentre si sdraiava sul divano sollevato di aver schivato il rischio di fare qualcosa di produttivo. Sembrava andare così fiero di riuscire a fregarsene pure delle cose importanti che quasi mi veniva da ammirare la sua capacità di vivere in modo tanto leggero, tanto spensierato e sereno, mentre invece io spendevo le giornate rimproverandomi di non stare abbastanza sui libri; pure mia madre era meno severa di me a tal punto dall’urlarmi, un giorno, mentre me ne salivo in camera appena tornato da scuola: “Dai Ale però! Rilassati un po’, ancora su a studiare vai!?”. Io ero così; non ero in grado di astenermi dal dare peso alle cose, così come non ero capace ad ascoltare fedelmente il mio istinto. Può darsi che dentro di me anche io volessi prendermi una pausa, fare una tregua lontano dal dovere; ma il problema era che non riuscivo ad ascoltarmi. Ne consegue che quando mi ritrovavo davanti ad uno come Davide, spontaneo e sicuro di sé, la mia ammirazione cresceva vertiginosamente; ed io ne rimanevo quasi affascinato.
Volevo essere contagiato, almeno un po’, da una simile indifferenza nei confronti delle cose. Eravamo lì come a scuola: io davanti a un libro e lui a cazzeggiare; ma non resistetti e mi sedetti sul divano accanto a lui. “Ti sei rotto il cazzo pure te eh Ale?” - “Abbastanza... oh ma cosa ricevo in cambio per il favore?” gli chiesi con una nota di malizia. “Cosa vuoi, bello?” disse senza staccare gli occhi dal gioco ma tirandomi una spallata amichevole. “Ehh... te lo farò sapere” dissi vagamente, appoggiando in parte la mia mano sul suo ginocchio e guardando altrove. Chinai il capo e non lo guardai, ma qualcosa mi dice che dopo quel gesto lui mi guardò. Senza dire nulla, senza muovere un muscolo nemmeno per ritrarsi dalla mia mano, ma mi guardò. Ed io lo sapevo.

C’era penombra nella taverna; la luce non aveva per entrare se non delle finestrelle orizzontali all’altezza del soffitto, e in quella direzione avevo lo sguardo. Scorgevo dal basso gli alberi del giardino con i rami in fiore mossi dalla brezza, e come vidi ciò la mia pelle iniziò ad accapponarsi. Un brivido mi attraversò la schiena nonostante il venticello estivo lo vidi soltanto, se non fosse che, però, qualcosa effettivamente mi fece rizzare i peli sulle braccia. Un’altra mano s’era posata sulla mia e tutto intorno si fece silenzioso e calmo; la tele era ferma e là fuori il cielo s’era coperto dolcemente di nuvole bianchissime. Accarezzandomi il polso, fino a salire delicato fino al gomito, come una coccinella rossa che zampetta su di un ramo, trovai Davide come a contemplarmi; io accennai un sorriso e lui mi imitò prima di inclinare la testa appoggiandola alla mia spalla.
Era rassicurante sentire i suoi capelli solleticarmi la guancia, le sue dita formicolare nell’interno del mio braccio e, senza accorgermene, stringere l’altra mano nella sua; attenuavo la presa e lui mi seguiva, la rafforzavo e lui faceva lo stesso.

Pensai che, in fondo, lui non era poi così diverso da sua madre; quella tenerezza quasi fraterna nei miei confronti e la dolcezza con cui ora mi abbracciava non potevano provenire da qualcuno che ignorava il legame che ci aveva tenuto vicini in passato. Bensì, al contrario, ricordava e aveva fatto tesoro, come avevo fatto io, di tutto quello che avevamo trascorso insieme. Eravamo come fratelli che pian piano si erano allontanati maturando negli anni un’indole completamente diversa, che si erano avvicinati a opposti tipi di persone e che guardavano al futuro da prospettive opposte; l’unica cosa che mantenevamo in comune era quella connessione e sentimento di fiducia reciproca che erano rimasti vivi nel tempo e che adesso erano riaffiorati in un comune desiderio di darvi respiro.
I miei occhi chiusi mi impedirono di vedere lo scatto che la sua mano fece verso di me, andando a posarsi delicatamente sotto al mento e portando il mio viso a sfiorare il suo. Ricevevamo l’uno l’aria dell’altro, con le
labbra socchiuse e gli occhi ora aperti che si scrutavano nell’infinito delle nostre pupille. “Ti prego, vieni con me” - sussurrò impercettibilmente, quasi supplicandomi - “Non riuscirei più a respirare altrimenti; vieni con me, ti prego”. Mi condusse mano nella mano nella sua stanza, e riaprii gli occhi; nel muovermi li avevo chiusi tanto mi fidavo di lui. In piedi l’uno di fronte all’altro, frementi di dimostrare l’uno il desiderio all’altro, prese vita un’infinita serie di baci, violenti e dolci, tutti incapaci di trasmettere anche solo la metà di quel che ci animava. La mia pelle e le mie labbra erano diventate la nostra pelle e le nostre labbra, gli atti e i corpi spinti dal fervore si stringevano in una cosa sola sopra delle lenzuola bianchissime e candide nella penombra di quel pomeriggio di maggio; tutto era, nel medesimo istante, estremamente lento ma spaventosamente impetuoso. Era tutto inutile: niente era in grado di riscattare quel nostro desiderio, niente lo riusciva a consumare. E continuammo accaniti l’uno sull’altro a volerci strappare di dosso la pelle che indossavamo ma che ci divideva; era amore e odio che viaggiavano nella medesima direzione, in un perseverante e continuo tentativo di unirci in una sola cosa.
Davide mi prese con forza, scostandosi, iniziando a sondare il mio collo con la sua bocca mentre le mie gambe s’aprivano al suo vigore, alla quella forza immane che riversava dentro di me; con il suo braccio lungo il mio addome e la sua mano aperta sul mio petto, infiniti istanti di gioia si susseguivano senza tregua. Mi destai con uno scatto verso di lui e mi ci strinsi intimamente, gli circondavo la testa con i polsi e lasciavo cadere le mie mani sulle sue solide spalle; le mie dita si facevano spazio tra i suoi folti capelli neri con una delicatezza opposta al sublime impeto che catturava il mio corpo. Il mio petto era saldato al suo, i suoi muscoli si contraevano vistosamente dagli addominali alle braccia ed io feci rifugio nella dolcezza che mi rivolgeva, piegandomi timidamente nel calore del suo corpo.

Sorrise appena riaprii gli occhi, un sorriso delicato e appena accennato sulla bocca di qualcuno di speciale. Mi sfiorò la fronte con la sua e poggiò quelle morbide labbra sulle mie. Mi proteggeva, Davide; mi teneva stretto a lui come per ripararmi dal mondo, attaccato al suo corpo e solleticandomi le guance con la sua barba da giovane uomo. Allo stesso modo, però, mi salvò anche da me stesso; dai miei timori più nascosti e radicati, dalla mia convinzione di non essere abbastanza, mai, per niente e per nessuno. E dopo aver speso la vita a credere, a convincermi, di non poter essere come lui e di non poter affrontare spensieratamente la vita, nel vortice della mia inadeguatezza, bastarono le sue parole per cambiarmi; s’avvicinò al mio orecchio:

“Sei sempre stato più di un amico. Grazie per questo”.

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