Lezione serale (capitolo 3)

Scritto da , il 2019-07-04, genere dominazione

Ritorno a scuola

Quel lunedì, tutto sommato, mi sentivo meglio, forse il pensiero che non avrei dovuto fare lezione in quella classe mi dava un certo senso di sicurezza.
In ogni caso non sarei passata nemmeno davanti a quella classe, per cui il pericolo di incontrare quei ragazzi era davvero minimo.
Quella mattina il sole splendeva e non faceva freddo, per cui decisi di vestirmi in maniera adeguata, camicetta con gilet di cotone e gonna, forse un po’ corta per le mie abitudini, ma, guardandomi allo specchio, non mi sembrava poi tanto. La gonna era di poco sul ginocchio e sicuramente molto meno corta di quelle che indossavano anche alcune mie colleghe.
Decisi quindi che l’abbigliamento era perfetto e andai a scuola.
La giornata era tiepida e mi dissi soddisfatta della scelta dell’abbigliamento, mi sentivo bene e guidai tranquilla e serena.

A scuola mi recai subito in presidenza e poi nell'aula professori per prendere i registri. Avevo lezione in un paio di classi abbastanza tranquille e con alunni al di sopra della sufficienza.
Salii le scale che mi portavano al piano delle prime aule e presi il corridoio per raggiungere le aule.
“Ciao prof.”
L’improvvisa voce alle mie spalle per un attimo mi prese alla sprovvista, comunque mi girai sorridendo pensando che fosse un mio collega.
Ma il mio sorriso si spense subito quando incrociai gli occhi di uno di quei ragazzi, proprio il più grande, quello che dava a tutti dei problemi.
“Buon … buon … buon – balbettai abbassando lo sguardo – buongiorno”
“Peccato che oggi non sei con noi – disse dandomi sfrontatamente del tu – ma domani sarà diverso.”
Non gli risposi, non so perché, eppure avrei dovuto metterlo a posto, fargli capire che non era quello il modo di rivolgersi alla propria insegnante.
Non feci nulla, rimasi immobile con il capo chino davanti a lui.
“Però domani avremmo piacere che mettessi una gonna più corta – continuò senza problemi – hai belle gambe e non devi nasconderle.”
Alzai per un attimo la testa e cercai i suoi occhi. Volevo dirgli di non permettersi più di rivolgersi a me in quel modo, con quel tono e non darmi più del tu.
Fu un attimo solo, non riuscii a sostenere il suo sguardo e abbassai immediatamente gli occhi e la testa.
“Devo … devo – farfugliai – devo andare in classe.”
“Vai prof – disse lui con un sorriso compiaciuto – vai tranquilla, ci vediamo domani e ricordati quello che ho detto.”
Si girò e raggiunse le scale scomparendo alla mia vista.
Io rimasi ferma, quasi stordita, come se avessi ricevuto un colpo allo stomaco.
Lentamente alzai lo sguardo e mi sentii risollevata nel vedere che quel ragazzo era scomparso.
Con la mano tremante mi sistemai i capelli come se avessi la sensazione che si fossero spettinati, tirai un forte respiro e andai verso la classe che mi aspettava.
La lezione non fu facile, mi veniva in mente sempre quel ragazzo, la sua arroganza, il suo atteggiamento da superuomo, il suo sentirsi al di sopra di ogni cosa e il suo rivolgersi a me come se fossi una sua sottoposta o, peggio, una sua sottomessa.
“Dai che ci pensi con piacere – ecco ancora quella vocina – ti piace quel ragazzo e ti piace anche come ti tratta.”
Cercai di mantenere un atteggiamento distaccato, cercai di pensare alla classe, agli alunni, alla lezione, cercando disperatamente di scacciare dalla mia mente quel pensiero.
Feci fare ai ragazzi un po’ di pratica con esercizi presi da un mio libro in modo da non sembrare impacciata durante la lezione, ma questo non mi impedì di pensare, pensare, pensare.
Quello che mi rendeva più nervosa era il fatto di non essere stata in grado di rispondere per le rime a quel ragazzo, eppure sono sempre riuscita a zittire e a mettere a posto tutti quelli che si comportavano con me in modo non appropriato.
Presi la scusa che non volevo creare scandalo nella scuola. Se avessi risposto per le rime, probabilmente lui avrebbe alzato la voce e di conseguenza l’avrei alzata anche io.
Ma questa non era la verità, lo sapevo benissimo.
Pensai a tante altre cose, forse ero stata presa alla sprovvista, ma anche questo non mi fece stare meglio, anche questo non giustificava il mio atteggiamento.
“Non essere bugiarda con te stessa – di nuovo la vocina – lo sai bene che cerchi solo delle scuse per giustificare quello che provi. Sii sincera con te stessa!”
Ma non è possibile, non è possibile che io possa pensare che la cosa mi piace, io non sono così, sono una seria professoressa, sono diversa.
Alla fine decisi che la cosa non avrebbe più avuto un seguito. Decisi che l’indomani avrei indossato dei pantaloni e nemmeno attillati. Di sicuro non avrei ripetuto lo spettacolo indecoroso del venerdì sera.
Questo pensiero mi tranquillizzò parecchio, tanto che trascorsi il resto della lezione anche con un bel sorriso stampato sul mio viso.
Al suono della campanella raccolsi gli esercizi svolti, misi tutto nella mia borsa e uscii dalla classe.
Superato l’uscio, mi guardai a destra e a sinistra temendo di incontrare ancora quel ragazzo.
Vidi solo i professori che dovevano cambiare classe e mi incamminai verso quella dove avrei tenuto l’altra mia lezione.
Davanti alla porta mi guardai ancora attorno, poi, son un sospiro, entrai in classe.
“Dimmi la verità – sempre quella vocina – ci sei rimasta male che non ti ha aspettata.”
Mi fermai un attimo. Mi diedi anche della matta. Mi sembrava quasi di impazzire. Ma com’è possibile che una parte di me possa desiderare cose così assurde. Eppure quella vocina doveva per forza far parte di me, del mio intimo, del mio subconscio.
Cercai di scacciarla, ma mi risuonò ancora una volta come una risatina.
Volevo fuggire via, andare a casa, farmi una doccia ghiacciata, ma il dovere mi richiamava all'ordine e in quel momento c’era una lezione da fare.
Mio malgrado mi sedetti alla cattedra e iniziai a interrogare qualcuno.
Gli alunni lì erano di un ottimo livello, per cui l’interrogazione e la successiva spiegazione fu assolutamente tranquilla e senza intoppi.
Uscendo dalla classe mi ritrovai tra la folla di studenti che guadagnavano l’uscita. Istintivamente abbassai lo sguardo cercando di non guardare nessuno negli occhi.
Andai in sala professori e posai registri nel mio armadietto.
Ero ancora frastornata e dovetti sedermi per qualche momento su una sedia vicino al tavolo dei colloqui.
Avevo lo sguardo fisso nel vuoto.
Ma cosa mi stava succedendo?
Era mai possibile che un ragazzino, anche se praticamente ventenne, mi facesse star così male?
Mi sembrava chiaro cosa volesse da me.
Ma io cosa volevo?
Avrei dovuto reagire, questo è vero, ma perché non l’ho fatto?
Perché non ho reagito?
“Perché ti piace!”
Ancora la solita vocina, ma questa mi sembrava più chiara, più nitida, più vicina, più logica.
Mi venne di scuotere la testa per scacciare questi pensieri.
Una bella doccia fredda, ecco quello che mi ci voleva: una doccia fredda.
Mi alzai con decisione e uscii dalla sala professori.
Mi guardai intorno, ormai erano andati via quasi tutti, restava solo qualche professore.
Uscii dalla scuola e andai nel parcheggio a prendere la macchina. Mi sedetti e accesi il motore. Mi fermai un attimo e pensai ancora a quello che mi aveva detto quel ragazzo. Doveva essere pazzo se pensava che lo avrei accontentato. Misi la cintura di sicurezza e partii.
All'uscita del parcheggio mi ritrovai di fronte quel ragazzo. Rallentai e quasi mi fermai mentre lui, sorridendo, mi fece l’occhiolino e, ruotando l’indice della mano destra, mi fece capire che ci saremmo rivisti l’indomani.
Lo guardai solo un attimo perché ancora una volta non riuscivo a mantenere il suo sguardo, ma forse non ci sarei più riuscita.
Poi premetti l’acceleratore e mi allontanai.
Durante il ritorno a casa ero molto distratta, tanto che sbagliai strada almeno un paio di volte, eppure era un percorso che facevo ogni giorno ormai da qualche anno.
Mi mordevo le labbra e cercavo di scacciare quello strano senso di eccitazione che mi prendeva.
Ad un semaforo rosso mi guardai per un attimo le gambe, la gonna un po’ sopra il ginocchio. In un attimo decisi di tirarla un po’ più su, così mi sollevai dal sedile quel poco che bastava per farmi tirar su la gonna. Ora l’orlo era un po’ più di metà coscia. Sorrisi, forse aveva ragione, non devo nascondere le gambe.
Il semaforo divenne verde e io ripartii.

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