Addis Abeba, 1938

Scritto da , il 2019-03-11, genere etero

Il giovane tenente uscì dagli alti comandi e si avviò verso la caserma sotto il cocente sole africano, l’elmetto lo riparava dai raggi impietosi, ma lo faceva anche sudare un sacco, non vedeva l’ora di essere nella sua piccola stanza per mettersi un po’ in libertà.
Da quando era arrivato ad Addis Abeba non aveva ancora avuto il tempo di esplorare i dintorni, un po' spaesato era riuscito solo a orientarsi e imparare la strada tra la caserma e la piazza centrale della città etiope.
Aveva quattro ore di riposo prima di dover andare a cena con gli altri ufficiali e si era riproposto di fare un giro per la città, ma probabilmente le avrebbe passate sdraiato sul letto cercando di non fare nessun movimento in modo da sudare il meno possibile.
Ma nel fare i suoi programmi non aveva messo in conto che o suoi commilitoni avevano ben altri progetti per lui.
Lo aspettavano in tre, erano in Africa da qualche mese ormai e avevano deciso che fosse giunto il momento che il nuovo arrivato cominciasse ad ambientarsi sul serio.
I primi due lo presero sottobraccio mentre il terzo camminava allegramente davanti a loro.
Inutilmente provò a declinare l’invito, non ci fu nulla da fare, ormai avevano deciso: era tempo che venisse presentato a Madame.
In pochi minuti camminando sulla strada di terra battuta arrivarono davanti ad un piccolo palazzo di due piani, sarebbe stata una bella casa ma i muri erano tutti scrostati e le vecchie gelosie di finestre e balconi erano chiuse e sembravano cadere a pezzi.
Davanti ad un portoncino di legno intagliato a motivi vagamente tribali stava seduto un enorme nero, avvolto in un caftano, con il capo e parte del volto coperti da un candido turbante.
Sotto la sua mole gigantesca la seggiola sembrava veramente minuscola.
Quando i quattro italiani furono ammessi nella stanza principale del piano terra si ritrovarono in una grande stanza quasi buia, le gelosie chiuse e i pesanti tendaggibordeaux cercavano di impedire alla luce e al caldo della strada di entrare.
Presto i suoi occhi si abituarono alla penombra permettendogli di scorgere, al centro della stanza, una enorme dormeuse di velluto bordeaux e sopra di essa una donna di colore ancora più enorme.
Giaceva pigramente, avvolta in un antiquato vestito, che nemmeno a fine secolo doveva essere stato raffinato ed elegante.
Il giovane tenente le venne presentato e la donna leziosamente gli porse una mano grassissima, le dita coperte di anelli, per farsela baciare.
Poi ruotando il polso, con un gesto altrettanto lezioso della mano gli fece cenno di salire al piano superiore.
Salì con passo incerto le scale scricchiolanti mentre i tre amici lo guardavano dal basso ridacchiando.
Sulla parete un cartello riportava il tariffario della casa: la singola, la doppia, la mezz’ora, l’ora.
Gli avevano spiegato che, se le ragazze erano non erano impegnate con un cliente, avrebbe trovato nella toppa la chiave con la sua lunga nappa a frange, ovviamente bordeaux.
Pare proprio che fosse il colore preferito di Madame.
Il ragazzo si infilò nella prima camera libera del corridoio, prese la chiave da fuori e la infilò nuovamente nella serratura ma da dentro, poi si girò a guardare la camera in cui era entrato e la ragazza che la occupava.
Come tutto il resto della casa, anche quella stanza era avvolta dalla penombra, le sottili lame di luce, prodotte dalle fessure tra le stecche delle persiane, disegnavano sulle nude pareti delle righe luminose e mettevano in evidenza lenti mulinelli di polvere che si spostavano pigramente nella calda aria pomeridiana.
Un piccolo quadro con un ridicolo paesaggio montano era l’unico decoro concesso a quella povera stanza.
Sulle lenzuola di cotone grezzo di un semplice lettino di legno era semi sdraiata una ragazza di colore.
Era completamente nuda, a parte una pesante collana d’argento, con pietre dure, e grosse sfere rozzamente lavorate, probabilmente di ambra, e un nastro che le ornava il collo, di velluto ovviamente bordeaux.
La pelle era veramente scurissima, i capelli crespi erano raccolti in sottili treccine e stavano come incollati sul cranio rotondo in ordinate righe che partivano dalla fronte per raccogliersi sulla nuca in un minuscolo chignon, le labbra erano incredibilmente carnose, il naso largo e vagamente schiacciato, gli occhi sembravano tristi ma rimanevano luminosi e si stagliavano come pallidi gioielli di onice su quel volto color dell’ebano.
Aveva dei piccoli seni, appena pronunciati, con larghi capezzoli color melanzana scuro, la vita minuta si allargava decisamente definendo un bacino assai ampio.
Il giovane uomo non poteva vederlo, perché lei vi si sedeva sopra, ma era dotata di un assai generoso sedere, con glutei molto sporgenti, così tipici di alcune razze africane.
Ma quello che più impressionò il giovane militare fu la giovinezza della ragazza, avrà avuto al massimo la maggiore età, o così almeno gli avevano assicurato gli amici per convincerlo ad andare, ma di anni ne dimostrava assai meno.
Lui restava in piedi in mezzo alla stanza senza sapere che fare, non aveva il coraggio di avvicinarsi, non sapeva cosa dire, ne se le sue parole sarebbero state comprese dalla giovane donna.
Non era certo la prima volta che frequentava una casa chiusa, ma quel giorno, di fronte a quella piccola donna nera come il carbone, si sentiva ancora più in colpa del solito.
Così fu lei a prendere l’iniziativa, si alzò dal letto e con un’andatura vagamente ancheggiante si avvicinò al giovane.
Ora erano talmente vicini che lui poteva distintamente sentirne il profumo.
Non era un profumo dolce o particolarmente femminile, anzi, sapeva vagamente di muschio, di terra, di cannella, anche un po’ di sudore e di umori femminili, ma era assai eccitante, ti entrava dentro, rimescolandoti le viscere dall’interno.
Quel profumo, così intenso fece effetto anche più in basso, facendo velocemente aumentare l’afflusso di sangue al pene dell’uomo, che si gonfiò in un inizio di erezione.
Le mani della giovane donna si agganciarono alle sue bretelle, sfilandogliele dalle spalle, poi le dita slacciarono uno ad uno i piccoli bottoni della camicia color cachi, e una volta che fu completamente sbottonata la tirarono fuori dai pantaloni.
Lo sguardo di lei era piantato nei suoi occhi, ma penetrava molto più profondamente, molto più giù, sembrava esplorare la sua intimità più recondita, sembrava leggerlo nel profondo.
Le dita fresche e sottili si infilarono sotto la canottiera sudata, tracciando dei solchi tra i riccioli di pelo del suo addome, arrampicandosi su fino si piccoli capezzoli, li strinse tra i polpastrelli, facendogli male e facendogli completamente rizzare il pene.
Lui era sempre inerme, le braccia abbandonate lungo i fianchi, incapace di altre reazioni, a parte l’erezione che sempre più prepotentemente faceva premere quasi dolorosamente la sua asta di carne contro la patta dei pantaloni.
Le mani si sfilarono dalla canotta per raggiungere la fibbia della cintura, sganciarla e scendere ancora, per slacciare i bottoni dei calzoni, molto lentamente, uno ad uno, stimolando ancora di più la sua voglia.
Pantaloni e mutandoni militari vennero abbassati a mezza coscia, facendo rimbalzare verso l’alto il tozzo cazzo ormai durissimo.
La ragazza si inginocchiò ai suoi piedi, il viso davanti al suo sesso, lo annusò a fondo, come se fosse un pezzo di carne da gustare per cena.
Poi cominciò il lavoro per cui era famosa e per cui Madame l’aveva accolta nella casa di piacere.
Nonostante le labbra negroidi, la bocca era minuta e faceva fatica a prendere in bocca interamente la larga cappella del militare, per cui si limitava a lavorarne la punta, mentre con entrambe le mani lo masturbava lentamente, andando su e giù allo stesso ritmo delle labbra, aiutata dalla copiosa saliva con cui lubrificava l’asta di carne.
Ma non dovette lavorare a lungo, perché il militare era ormai eccitatissimo e a digiuno da troppo tempo.
La ragazza sentì il pene fremere tra le sue mani e allontanò la faccia di una decina di centimetri, giusto in tempo per vederlo esplodere in una serie di lunghi schizzi di sperma che la colpirono per lungo, su tutto il viso.
Le strisce di seme bianco e cremoso disegnarono sul volto nero della ragazza una ragnatela di ricami densi e lattiginosi, e poi colarono sui piccoli seni in dense gocce vischiose.
La ragazza ne raccolse un po’ con le dita, portandoli alle labbra come si trattasse di un’offerta, guardandolo dritto negli occhi come per ringraziarlo per quell’offerta di cibo da non sprecare, poi si alzò e ciondolò fino al letto, si sdraiò a pancia in giù, un braccio piegato sotto il mento, e restò a guardarlo, sempre muta, con una espressione un po’ meno triste di prima.
Stefano Astolfi, così si chiamava il giovane ufficiale, si tirò su le braghe decisamente imbarazzato, si riallacciò la camicia, poi dopo averle lanciato un ultimo sguardo abbastanza sconvolto, uscì dalla stanza, badando di rimettere la chiave all'esterno per indicare al prossimo cliente che la ragazza era nuovamente disponibile.
Scese le scale con un passo traballante.
I suoi amici al piano di sotto stavano schiamazzando in modo volgare, dandosi delle grandi pacche sulle spalle, ma lui non li sentiva.
Era come sordo, come ipnotizzato, voleva allontanarsi da quel posto il più velocemente possibile.
Ancora non lo sapeva ma la sua vita non sarebbe stata più la stessa di prima.

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