Il regalo di Elena
di
Stellina
genere
sentimentali
La città sembrava essersi agghindata per una festa a cui Sofia non era stata invitata. Bastavano le luci rosate sulle vetrine, le sagome di coppie infilate l’una nell’ombra dell’altra, le risate morbide che si srotolavano dai bar per farle vibrare lo stomaco come una ferita. Ogni cosa urlava San Valentino, e lei camminava con il bavero del cappotto sollevato e la gola stretta come se avesse appena finito di urlare nel cuscino.
Era passata una settimana da quando Mauro se n’era andato. Una settimana esatta. Non il tempo necessario per smettere di soffrire, è chiaro, ma abbastanza per rendere la sofferenza più solida, più pesante, qualcosa che non ti fa più piangere ma ti appanna gli occhi in modo opaco, costante. Salì le scale del palazzo senza togliere i guanti, come se stesse cercando di non toccare niente del suo stesso mondo. Sulla porta, una busta rossa con un fiocchetto storto. Riconobbe la calligrafia immediatamente: Elena.
Entrò nel silenzio del suo appartamento, lasciò cadere la borsa sul divano e rimase per un momento con la schiena contro la porta chiusa, come se dovesse farsi forza per affrontare anche solo l’atto di aprire un regalo. Un regalo di San Valentino per una donna appena lasciata. Elena, la sua amica del cuore, l'unica tra tutte, aveva un tempismo che oscillava eternamente fra il geniale e il disastroso.
Sfilò la carta lentamente, più per paura che per pudore, e quando vide il contenuto della scatola si immobilizzò, la risata quasi strozzata in gola. Un oggetto lungo, elegante, liscio, il colore di un rossetto troppo sicuro di sé. Un dildo. Per San Valentino. Consegnato con fiocco.
«Elena, tu sei folle», mormorò. Ma la follia di Elena era sempre stata un tipo di follia che scaldava, che sorreggeva, che provava a curare.
Sul fondo della scatola c’era un biglietto:
“So che stai soffrendo. E so cosa ti manca. Questo non è un sostituto, è un cerotto finché lui si ricorderà finalmente chi sei e vedrai che se ne pentirà.”
Sofia chiuse gli occhi. Per un momento non respirò nemmeno. La casa intorno a lei era troppo silenziosa, troppo carica di ricordi. Aveva cercato di dormire nel letto di Mauro fino a due giorni prima, finché l’odore del cuscino non era diventato un coltello. Aveva cercato di non pensare al suo corpo, ai suoi gesti, a quel modo di guardarla mentre le prendeva i fianchi da dietro. Ma non doveva pensare a questo, le faceva troppo male. Il cuore non era d’accordo, la memoria ancora meno.
Portò la scatola in camera, sedendosi sul bordo del letto. Non sapeva perché lo stesse facendo. O meglio, lo sapeva fin troppo bene. Scivolò le dita sull’oggetto, il materiale tiepido alla luce della stanza. Non era un gesto impulsivo; era una disperazione lenta, un bisogno sordo di non sentirsi vuota almeno per qualche minuto. Si sdraiò sul fianco, lasciando che i pensieri corressero più veloci delle mani. E quei pensieri correvano sempre verso Mauro, verso il modo in cui lui si piegava su di lei, verso il respiro che le incendiava la nuca. Era una memoria fisica, un fantasma che sapeva essere un fantasma ma che si muoveva ancora come un corpo vivo.
Quando avvicinò l’oggetto al proprio corpo, non cercò delicatezza. Non la voleva. Non la sentiva. Quello che voleva era una traccia, un’eco, un colpo contro il vuoto che Mauro aveva lasciato. E in quell’istante il suo respiro cambiò ritmo, come una corda che si tende troppo in fretta. Le gambe le tremavano appena, non di piacere ma di rabbia compressa. Ogni movimento non la consolava: la riportava indietro, ai ricordi che cercava di soffocare ma che invece esplodevano alle tempie.
Il pensiero di Mauro, della sua presenza dietro di lei, delle mani che la stringevano, dei colpi profondi che la abbattevano e la ricomponevano allo stesso tempo, le attraversò la mente con una violenza quasi dolorosa. Era come riaprire una ferita che non si era mai chiusa, come se quei ricordi non appartenessero al passato ma a un presente che qualcuno le aveva strappato via di colpo.
E allora il gesto cambiò. Non più ricerca. Non più bisogno. Rabbia, pura, bruciante. Un rifiuto di accettare l’assenza. Ogni spinta nel suo culo era una frase non detta, un “perché?” sputato contro il buio della stanza. La sua mascella serrata, il respiro spezzato, la tensione nel corpo. Non era piacere. Era un dolore voluto, cercato, controllato. Un modo per avere almeno qualcosa da decidere, qualcosa da comandare.
Quando si fermò, il respiro le fischiava tra i denti. Si raggomitolò sul letto, tremante, il corpo teso come una corda tirata troppo a lungo. Il silenzio sembrava più pesante di prima. Sfilò l’oggetto con un lento sospiro di esasperazione e si alzò. Il corpo le doleva, una fitta profonda ma familiare. Si passò una mano sulla fronte, poi prese dal comodino una pomata che usava raramente. La applicò senza guardarsi allo specchio. Non voleva vedere quel misto di vergogna, rabbia e desiderio.
Poi si lasciò cadere sul letto. Ma il sonno non arrivava, neanche lontanamente. Ogni volta che chiudeva gli occhi compariva Mauro: la sua voce, il suo magnifico odore, il modo in cui la guardava quando le prendeva il viso tra le mani. O il modo in cui non l’aveva guardata quando era andato via. Il soffitto ora sembrava basso, soffocante. Fuori, la città era un brusio lontano. Una linea sottile di luce sotto la tenda le ricordava che la notte non era così profonda come sembrava.
E senza pensarci, senza ragionare, si alzò. Mise un paio di jeans, una felpa, infilò gli stivali. Il cuore batteva così forte da sembrare un pugno contro le costole. Dove aveva intenzione di andare? Non lo sapeva. O forse sì. Non voleva ammetterlo. Prese le chiavi, uscì nel corridoio, scese le scale come una donna che fugge e cerca allo stesso tempo. L’aria fuori era fredda, il tipo di freddo che dovrebbe svegliare. Ma lei era già sveglia da ore, in un modo che non aveva niente a che fare con il corpo.
Camminò lungo la strada principale, le mani affondate nelle tasche, la testa bassa. Sapeva esattamente quali posti evitare: i bar che frequentavano insieme, la piazza dove si erano baciati per la prima volta completamente ubriachi , il vicolo dove lui le aveva sussurrato parole che ora sembravano bugie. Eppure i piedi si muovevano verso quegli stessi posti, come se volessero dimostrarle che non aveva davvero il controllo. Passò davanti al bar dove Mauro beveva il suo solito gin tonic. La porta era aperta, un’ondata di risate e calore. Non entrò. Guardò dentro, solo per un istante, come se potesse apparire da un momento all’altro.
Continuò. Sentiva il cuore battere più veloce a ogni passo. Non era speranza. Era una specie di ossessione, una paranoia dolceamara che la spingeva avanti. Arrivò fino a casa di Mauro senza accorgersene. Le luci erano spente, le finestre cieche. Rimase sul marciapiede, le braccia incrociate sul petto. Non sapeva cosa si sarebbe aspettata di trovare. Non sapeva se voleva vederlo o se voleva solo convincersi che non c’era. Che non l’aveva dimenticata così facilmente. Che era ancora capace di eccitarsi per lei.
Fece due passi verso il portone. Poi tre. Poi si fermò. Un momento sospeso. Come un respiro trattenuto. E fu allora che lo vide. Non sulla soglia, non nelle scale, ma più in fondo alla via. Stava camminando verso casa, cappotto scuro, mani nelle tasche, il passo lento di chi sta pensando a tutt’altro. Il suo profilo le entrò nel petto come un colpo. Non era pronta. O forse sì. Forse l’aveva sperato per tutta la sera.
Mauro non la vide subito. Lei rimase immobile, incerta se chiamarlo, se nascondersi, se correre. Quando finalmente lui alzò gli occhi e la riconobbe, il suo passo esitò appena, come se avesse visto un fantasma o un ricordo che pensava di aver riposto bene.
«Sofia?» disse lui, la voce bassa, sorpresa.
Lei sentì qualcosa spezzarsi e ricomporsi nello stesso istante. Era lui, finalmente, in carne ed ossa davanti a lei. Era la notte di San Valentino. E lei era lì, piena di dolore, rabbia, nostalgia, desiderio, e mille parole che non sapeva come dire.
Lui fece un passo verso di lei. Lei non si mosse. Il mondo intorno, con le sue luci rosa e le coppie abbracciate, scomparve. E le domande che la notte tratteneva erano semplici, brutali, inevitabili. Lo troverà davvero? O l’ha trovato solo per perderlo ancora?
La risposta era a un respiro di distanza.
Era passata una settimana da quando Mauro se n’era andato. Una settimana esatta. Non il tempo necessario per smettere di soffrire, è chiaro, ma abbastanza per rendere la sofferenza più solida, più pesante, qualcosa che non ti fa più piangere ma ti appanna gli occhi in modo opaco, costante. Salì le scale del palazzo senza togliere i guanti, come se stesse cercando di non toccare niente del suo stesso mondo. Sulla porta, una busta rossa con un fiocchetto storto. Riconobbe la calligrafia immediatamente: Elena.
Entrò nel silenzio del suo appartamento, lasciò cadere la borsa sul divano e rimase per un momento con la schiena contro la porta chiusa, come se dovesse farsi forza per affrontare anche solo l’atto di aprire un regalo. Un regalo di San Valentino per una donna appena lasciata. Elena, la sua amica del cuore, l'unica tra tutte, aveva un tempismo che oscillava eternamente fra il geniale e il disastroso.
Sfilò la carta lentamente, più per paura che per pudore, e quando vide il contenuto della scatola si immobilizzò, la risata quasi strozzata in gola. Un oggetto lungo, elegante, liscio, il colore di un rossetto troppo sicuro di sé. Un dildo. Per San Valentino. Consegnato con fiocco.
«Elena, tu sei folle», mormorò. Ma la follia di Elena era sempre stata un tipo di follia che scaldava, che sorreggeva, che provava a curare.
Sul fondo della scatola c’era un biglietto:
“So che stai soffrendo. E so cosa ti manca. Questo non è un sostituto, è un cerotto finché lui si ricorderà finalmente chi sei e vedrai che se ne pentirà.”
Sofia chiuse gli occhi. Per un momento non respirò nemmeno. La casa intorno a lei era troppo silenziosa, troppo carica di ricordi. Aveva cercato di dormire nel letto di Mauro fino a due giorni prima, finché l’odore del cuscino non era diventato un coltello. Aveva cercato di non pensare al suo corpo, ai suoi gesti, a quel modo di guardarla mentre le prendeva i fianchi da dietro. Ma non doveva pensare a questo, le faceva troppo male. Il cuore non era d’accordo, la memoria ancora meno.
Portò la scatola in camera, sedendosi sul bordo del letto. Non sapeva perché lo stesse facendo. O meglio, lo sapeva fin troppo bene. Scivolò le dita sull’oggetto, il materiale tiepido alla luce della stanza. Non era un gesto impulsivo; era una disperazione lenta, un bisogno sordo di non sentirsi vuota almeno per qualche minuto. Si sdraiò sul fianco, lasciando che i pensieri corressero più veloci delle mani. E quei pensieri correvano sempre verso Mauro, verso il modo in cui lui si piegava su di lei, verso il respiro che le incendiava la nuca. Era una memoria fisica, un fantasma che sapeva essere un fantasma ma che si muoveva ancora come un corpo vivo.
Quando avvicinò l’oggetto al proprio corpo, non cercò delicatezza. Non la voleva. Non la sentiva. Quello che voleva era una traccia, un’eco, un colpo contro il vuoto che Mauro aveva lasciato. E in quell’istante il suo respiro cambiò ritmo, come una corda che si tende troppo in fretta. Le gambe le tremavano appena, non di piacere ma di rabbia compressa. Ogni movimento non la consolava: la riportava indietro, ai ricordi che cercava di soffocare ma che invece esplodevano alle tempie.
Il pensiero di Mauro, della sua presenza dietro di lei, delle mani che la stringevano, dei colpi profondi che la abbattevano e la ricomponevano allo stesso tempo, le attraversò la mente con una violenza quasi dolorosa. Era come riaprire una ferita che non si era mai chiusa, come se quei ricordi non appartenessero al passato ma a un presente che qualcuno le aveva strappato via di colpo.
E allora il gesto cambiò. Non più ricerca. Non più bisogno. Rabbia, pura, bruciante. Un rifiuto di accettare l’assenza. Ogni spinta nel suo culo era una frase non detta, un “perché?” sputato contro il buio della stanza. La sua mascella serrata, il respiro spezzato, la tensione nel corpo. Non era piacere. Era un dolore voluto, cercato, controllato. Un modo per avere almeno qualcosa da decidere, qualcosa da comandare.
Quando si fermò, il respiro le fischiava tra i denti. Si raggomitolò sul letto, tremante, il corpo teso come una corda tirata troppo a lungo. Il silenzio sembrava più pesante di prima. Sfilò l’oggetto con un lento sospiro di esasperazione e si alzò. Il corpo le doleva, una fitta profonda ma familiare. Si passò una mano sulla fronte, poi prese dal comodino una pomata che usava raramente. La applicò senza guardarsi allo specchio. Non voleva vedere quel misto di vergogna, rabbia e desiderio.
Poi si lasciò cadere sul letto. Ma il sonno non arrivava, neanche lontanamente. Ogni volta che chiudeva gli occhi compariva Mauro: la sua voce, il suo magnifico odore, il modo in cui la guardava quando le prendeva il viso tra le mani. O il modo in cui non l’aveva guardata quando era andato via. Il soffitto ora sembrava basso, soffocante. Fuori, la città era un brusio lontano. Una linea sottile di luce sotto la tenda le ricordava che la notte non era così profonda come sembrava.
E senza pensarci, senza ragionare, si alzò. Mise un paio di jeans, una felpa, infilò gli stivali. Il cuore batteva così forte da sembrare un pugno contro le costole. Dove aveva intenzione di andare? Non lo sapeva. O forse sì. Non voleva ammetterlo. Prese le chiavi, uscì nel corridoio, scese le scale come una donna che fugge e cerca allo stesso tempo. L’aria fuori era fredda, il tipo di freddo che dovrebbe svegliare. Ma lei era già sveglia da ore, in un modo che non aveva niente a che fare con il corpo.
Camminò lungo la strada principale, le mani affondate nelle tasche, la testa bassa. Sapeva esattamente quali posti evitare: i bar che frequentavano insieme, la piazza dove si erano baciati per la prima volta completamente ubriachi , il vicolo dove lui le aveva sussurrato parole che ora sembravano bugie. Eppure i piedi si muovevano verso quegli stessi posti, come se volessero dimostrarle che non aveva davvero il controllo. Passò davanti al bar dove Mauro beveva il suo solito gin tonic. La porta era aperta, un’ondata di risate e calore. Non entrò. Guardò dentro, solo per un istante, come se potesse apparire da un momento all’altro.
Continuò. Sentiva il cuore battere più veloce a ogni passo. Non era speranza. Era una specie di ossessione, una paranoia dolceamara che la spingeva avanti. Arrivò fino a casa di Mauro senza accorgersene. Le luci erano spente, le finestre cieche. Rimase sul marciapiede, le braccia incrociate sul petto. Non sapeva cosa si sarebbe aspettata di trovare. Non sapeva se voleva vederlo o se voleva solo convincersi che non c’era. Che non l’aveva dimenticata così facilmente. Che era ancora capace di eccitarsi per lei.
Fece due passi verso il portone. Poi tre. Poi si fermò. Un momento sospeso. Come un respiro trattenuto. E fu allora che lo vide. Non sulla soglia, non nelle scale, ma più in fondo alla via. Stava camminando verso casa, cappotto scuro, mani nelle tasche, il passo lento di chi sta pensando a tutt’altro. Il suo profilo le entrò nel petto come un colpo. Non era pronta. O forse sì. Forse l’aveva sperato per tutta la sera.
Mauro non la vide subito. Lei rimase immobile, incerta se chiamarlo, se nascondersi, se correre. Quando finalmente lui alzò gli occhi e la riconobbe, il suo passo esitò appena, come se avesse visto un fantasma o un ricordo che pensava di aver riposto bene.
«Sofia?» disse lui, la voce bassa, sorpresa.
Lei sentì qualcosa spezzarsi e ricomporsi nello stesso istante. Era lui, finalmente, in carne ed ossa davanti a lei. Era la notte di San Valentino. E lei era lì, piena di dolore, rabbia, nostalgia, desiderio, e mille parole che non sapeva come dire.
Lui fece un passo verso di lei. Lei non si mosse. Il mondo intorno, con le sue luci rosa e le coppie abbracciate, scomparve. E le domande che la notte tratteneva erano semplici, brutali, inevitabili. Lo troverà davvero? O l’ha trovato solo per perderlo ancora?
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