La regina delle tenebre 1

di
genere
pulp

1
Quella sera, che parve come tante — ché ogni sera, a corte, si trascinava tra le medesime ombre, gli stessi rancori sussurrati, la solita fame mascherata da opulenza — la sala grande risuonava dei consueti rumori: lo scricchiolio greve delle panche, il colpo sordo dei coltelli sul pane raffermo, il fiato grosso degli uomini che bevevano più per spegnere la noia che la sete.
Ma chi fosse passato, senza conoscere i nomi né le storie, avrebbe potuto scambiare quella famiglia, seduta all’ombra degli arazzi, per una qualunque stirpe di notabili gonfi di arroganza e di rancore.
Il re, con la pancia adagiata sul tavolo come una bestia sfinita, tagliava pezzi di carne con dita impiastricciate di grasso, badando più al vino che alle parole della moglie; la regina, seduta rigida a capotavola, teneva il mento alto come si regge una maschera, ma lo sguardo era affilato e sporco d’invidia, pronto a trafiggere, se necessario, chiunque avesse osato disturbare l’ordine innaturale della casa.
Selene, in piedi contro la parete — l’abito che odorava di muffa, le mani già rosse di scottature — attendeva il prossimo ordine, con la coda dell’occhio fissa sulle dita della figlia minore del re che, per passatempo, le tirava briciole sulla schiena.
Una volta che la crosta fu troppo grossa per passare inosservata, la regina si voltò, le labbra serrate come se la fatica di parlare la disgustasse:
«Smettila, o dovrò insegnarti a mangiare come una puttana del porto, ché le mani già ce le hai uguali.»
La ragazza — la minore ma la più furba, la più sporca dentro — si morse il labbro, buttò il pezzo di pane per terra, proprio sotto i piedi nudi di Selene, e sorrise:
— Lascia che raccolga, madre. Le serve servono a questo.
Il re, che già traboccava di vino e sudore, lanciò un’occhiata rapida a Selene, la cui bellezza acerba non era sfuggita nemmeno ai cani del cortile. Ma in quel momento, nessuno parlò: la carne era ancora calda, e le mani degli uomini preferivano le cosce d’agnello a quelle, più giovani e vive, delle donne.
Selene si chinò, le ginocchia che scricchiolavano sul pavimento sporco di vino, e raccolse la crosta, le dita che tremavano non solo per la fatica ma per quella vergogna antica, cucita addosso da anni.
La madre, dietro di lei, stringeva la brocca con entrambe le mani, il viso pallido, lo sguardo fisso sul niente, come chi sa che ogni parola potrebbe costare un castigo.
Ma la regina — ché era donna che sapeva infliggere ferite senza toccare la pelle — attese che Selene tornasse in piedi, e solo allora, con una voce bassa e untuosa come la pece, si rivolse a entrambe, senza guardarle:
«Non occorre che vi sforziate di sembrare migliori di ciò che siete. Nessuna tovaglia pulita nasconde la merda sotto la tavola.»
Risero, le figlie.
Il re ingoiò altro vino, grugnì una bestemmia a mezza bocca.
Nel frattempo, le sorelle, dimentiche per un momento della compostezza, si rincorrevano con insulti da mercato:
— Guarda come cammina, la bastarda!
— Dicono che sia nata da un errore del re; pare che le piacesse la figa delle serve.
La madre di Selene abbassò gli occhi, ma la regina — che non si lasciava sfuggire un’occasione per colpire — sibilò:
«Vostra madre, almeno, sapeva stare al suo posto. Le puttane di corte imparano presto a aprire le cosce e a non parlare.»
Per un attimo, anche Selene sentì salire il calore dell’odio, ma lo inghiottì, con la stessa pazienza con cui si beve il brodo sporco dei giorni peggiori.
Il re, fingendo di non udire, allungò la mano verso il grembo di Selene per afferrare la brocca del vino che la madre reggeva con troppa forza:
«Versa, donna, e fallo bene, che almeno il vino non sia annacquato come la tua razza.»
Il vino scivolò nella coppa, una parte cadde sul dorso della mano del re, che la pulì sfregando le dita sulla gonna di Selene, con un gesto lento, grasso, indecente.
Nessuno si mosse, nessuno disse nulla.
Il silenzio era la legge.
La madre strinse le labbra fino a farle sanguinare.
Poi, come accade nelle notti in cui la tempesta è già nell’aria, una corrente di gelo attraversò la sala: il vento soffiò tra le fessure delle finestre, le torce vacillarono.
Per un attimo, tutti si bloccarono — solo per un attimo.
E in quell’attimo, tutto ciò che doveva essere detto era già passato, come una lama affilata che lascia il taglio senza spargere sangue.
Non aveva mai fatto così freddo in sala, neppure nei lunghi inverni in cui il vento mordeva le pietre e i camini sputavano solo fumo; eppure, quella sera, quando la porta grande tremò sotto i colpi che nessuno aveva osato annunciare, un gelo sudicio corse per la schiena di ognuno, senza distinzione di sangue né di rango.
Le voci si zittirono all’istante, le posate caddero, il re si girò, le dita impiastricciate di grasso che cercavano, goffe, l’elsa di un pugnale che non avrebbe saputo brandire nemmeno da sobrio.
Il secondo schianto fece saltare le cerniere: le ante si spalancarono, e fu come se il fiume portasse dentro la sala il fango di mille stagni — fango vivo, urlante, armato.
Marcus entrò per primo, il mantello scuro, la cicatrice che rideva sul collo, e alle sue spalle la banda degli orchi: uomini senza Dio né rispetto, puzzo di pelli e di piscio, facce mangiate dalla fame e dal vino, e la gioia feroce di chi ha atteso troppo a lungo la notte della vendetta.
Altri già correvano tra le cucine, nei corridoi, nelle stanze delle donne: urla, oggetti infranti, risate sguaiate, schiaffi, bestemmie e colpi di stivale sulle costole.
Il re, forse pensando di poter chiamare a raccolta il suo nome e la sua stirpe come scudo, gridò parole che nessuno ascoltava:
— Via da casa mia, canaglie!
E Marcus, senza nemmeno il gusto del duello, con un solo movimento — ampio, lento, quasi didattico — gli tagliò la testa, la lama che attraversò il collo come burro, il sangue che spruzzò sulle caviglie delle figlie, sulle gonne della regina, sulle dita bianche di Selene, che non gridò, perché c’erano momenti in cui il terrore era muto.
La testa, ancora grondante, rotolò fino alla ghiaia rossa del cortile, si fermò contro uno stivale sporco di letame, l’occhio spalancato che guardava nessuno, la bocca aperta in un ultimo, inutile comando.
Non si può raccontare, con parole pulite, la scena che seguì:
gli uomini di corte, servi, stallieri, scribi, cuochi e paggi, furono spinti fuori come bestie da mercato;
alcuni provarono a fuggire — e i barbari li lasciarono correre, ridendo come ragazzini al gioco del porco grasso — poi li raggiunsero con colpi di lancia, li presero a calci, li finirono a mani nude;
alcuni furono decapitati sul posto, altri trafitti allo stomaco, la pancia sventrata che si svuotava di merda, altri ancora furono lasciati a terra finché non smisero di urlare.
Le donne furono spinte fuori, la notte che odorava di fuoco e paura.
La regina, le figlie, Selene e la madre, le serve più giovani e qualche fanciulla di rara bellezza — tutte tremanti, sporche, il sudore che colava sulle gambe — furono separate dal resto, Marcus che passava in rassegna con lo sguardo di chi scegli la carne migliore sulla bancarella del macellaio.
— Queste sul carro, — disse, senza guardare nessuno in faccia, indicando le donne “preziose”,
— Le altre, — aggiunse, la voce greve, — sono vostre.
E i barbari, già ebbri di sangue e di attesa, non persero tempo: le vecchie, le serve di troppo, le mogli degli uomini morti, furono gettate nel fango, alcune scoperchiate delle vesti, altre spinte a quattro zampe tra le risate, il suono sordo delle mani che frugavano tra le cosce, i denti che mordevano le spalle, la violenza che non era più solo dei corpi ma delle parole, delle risate, degli sputi.
Selene vide — e non dimenticò mai — la cuoca, una donna troppo vecchia per essere bella, ma ancora viva abbastanza da gridare: presa per i capelli, fu fatta inginocchiare e un barbaro le infilò le dita nella bocca, la schiaffeggiò fino a farla sanguinare, poi la gettò per terra, la scopò in mezzo alla ghiaia sotto la luna, davanti alle altre che sapevano già che il loro turno sarebbe venuto presto.
Sulla soglia, Marcus — sporco del sangue del re, le mani ancora calde, il sorriso storto di chi gode del disastro — sorvegliava la scena con la calma dell’uomo che ha sempre saputo che il potere si prende con la forza e con la paura.
Alle giovani, alle belle, alle regine destinate ad altri piaceri e ad altri mercati, fu concesso un’umiliazione meno volgare: vennero legate, una accanto all’altra, fatte salire sul carro, i seni scoperti, il fango sulle ginocchia, lo sguardo basso.
Ma la promessa era chiara nei gesti dei barbari: la verginità o la giovinezza erano solo una pausa, non una salvezza.
Quando il carro si mosse, con il cigolio lento e marcio delle ruote sulle ossa dei morti, Selene tenne la madre stretta a sé, la fronte premuta contro la spalla magra, il sapore del sangue e della paura che le restava sulla lingua come un veleno antico.
E Marcus, salendo accanto ai suoi uomini, non si voltò mai.
Non per rimorso, non per dubbio — ma solo perché il passato era già cenere, e la notte era ancora lunga, e nulla doveva essere risparmiato.
Nemmeno il peggio.
Segue
scritto il
2025-10-28
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