La bocca di lei

di
genere
saffico

Non avevo mai pensato che potesse succedere.
Ma accadde.
Eravamo inseparabili Giulia ed io in quel periodo, ben affiatate nel preparare gli ultimi esami.
Un fine settimana venni invitata a casa sua — i genitori erano fuori città — per un periodo di studio intensivo.
La casa era silenziosa e luminosa, immersa in una quiete irreale. I vetri lasciavano entrare un sole dorato che si posava sui mobili, sulle nostre braccia nude, sui nostri libri aperti.
C’era odore di legno vecchio e sapone alla lavanda. Il tempo sembrava allungarsi, rallentare.
Una bolla tiepida che ci avvolgeva.
Nessun rumore se non il cigolio del caldo parquet, il tintinnio di tazze, il nostro respiro.
Era una convivenza stretta, ma molto piacevole.
Lavoravamo sodo, raccontavamo e scherzavamo di noi, delle nostre prime esperienze.
Ci osservavamo con curiosità, confrontandoci alla ricerca di conferme, ma anche per un interesse un che sconfinava nel morboso.
I nostri corpi, sempre vicini, sempre in contatto.
Spalle che si sfioravano, gambe che si intrecciavano.
Dormivamo nello stesso letto.
Io leggevo, sdraiata, con le gambe scoperte, il lenzuolo arrotolato sotto il ventre.
A un certo punto mi tolse il libro dalle mani e disse:
— Posso provare una cosa?
Mi guardava strano, con gli occhi fissi nei miei. Non aspettò il mio sì.
Mi baciò.
La sua lingua era morbida, lenta. Il sapore dolce, intimo.
Mi si fermò il respiro. Non riuscivo a pensare, solo sentire.
Quando si staccò, avevo i capezzoli tesi sotto la maglietta. Il respiro corto.
— Ti piace? — chiese.
Non risposi. Le presi la mano e la portai sotto il mio seno.
Ci spogliammo quasi senza parlare. Solo pelle.
Il suo corpo era magro e nervoso, ma con curve che spuntavano come segreti.
Aveva la pelle chiara, i seni piccoli ma duri come frutti acerbi, e un modo tutto suo di muoversi.
Non cercava di piacere. E forse per questo affascinava.
Ci guardavamo nude, ridendo sottovoce, ragazzine in un gioco segreto, in apparenza infantile, ma torbidamente erotico, sconcio.
La casa era calda, materna. Il silenzio tra quelle pareti sembrava proteggerci.
Il pavimento tiepido sotto i piedi nudi, l’aroma del tè dimenticato sul tavolo, la morbidezza delle coperte spiegazzate sul letto…
Tutto parlava di una complicità che si palesava in quella libertà di una dimora che ci avvolgeva, proteggeva, un rifugio dove il piacere poteva nascere senza chiedere permesso.
Mi guardò la vulva come si osserva un frutto esotico: senza volgarità, ma con quella fame lenta che mette soggezione.
E mi piacque, piacque l’idea di essere guardata così, di sentirmi una cosa bella, viva.
Le sue dita affondarono tra le mie labbra vaginali con pazienza.
Non cercava subito il piacere.
Cercava me.
Il modo in cui respiravo. I piccoli fremiti.
Le esitazioni.
Poi arrivò la bocca.
Calda, umida, disarmante. Una leccata senza fretta, dolcissima.
Lei voleva sapere di me. Sentire il mio sapore. Studiarmi come si studia una melodia.
Le sue labbra si posarono sulla figa languidamente.
Il naso affondava tra i peli, la lingua si muoveva tra le piccole labbra, cercando quel punto vivo.
Il clitoride, allora, cominciò a parlare. A fremere. A chiamarla.
Il mio corpo si apriva senza difese.
Con lei non c’era la paura di essere esibita.
Nessuna difesa.
Solo il piacere di esistere come sono.
Mi girò su un fianco, poi mi aprì le gambe e affondò di nuovo la lingua, più in basso.
Cercò anche l’ano, leccandolo piano, come se quel confine fosse un’altra bocca da dischiudere.
Sì, la lingua lì…
Mi fece sussultare.
Era una cosa proibita, ma non c’era niente di sporco.
Solo fiducia.
Solo un calore condiviso.
E la dolcezza — immensa — di un sesso senza rischi, protetto da mura amiche, da lenzuola morbide, da un tempo tutto nostro.
Ci sentivamo al sicuro, abbandonate al piacere puro, senza timori.
Due ragazze che avevano trovato, l’una nell’altra, un rifugio carnale e spirituale.
Un’intimità da assaporare senza fretta.
Un’esperienza senza vergogna, senza paura.
Le dissi solo — baciami ancora — e venne su con la bocca lucida del mio sapore.
Mi baciò forte. E io assaggiai me stessa sulle sue labbra; la mia figa nella sua bocca.
Mi sentii una dea.
Quando fu il mio turno, tremavo.
L’odore della sua figa mi inebriava.
La aprii con le dita e la guardai: piccola, compatta, lucida.
Leccarla fu come bere da una fonte limpida.
Sentii la sua voce spezzarsi, poi smise di parlare.
Il suo clitoride era duro come una gemma.
Lo succhiai piano, poi più forte.
La sentii venire tremando, gemendo con piccoli singhiozzi, come chi ha pianto troppo e poi ride.
Dopo restammo nude, incastrate l’una nell’altra.
Un gomito tra le cosce, una guancia sul seno.
Non c’erano domande.
Non servivano definizioni.
Non eravamo lesbiche. Non eravamo amanti.
Eravamo due corpi che si erano riconosciuti.
Senza paura.
Senza dover chiedere scusa.
Con la pace di chi ha vissuto qualcosa di vero, di irripetibile.
E che, per una notte, ha avuto tutto.**
scritto il
2025-08-25
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