Uno squarcio nella notte
di
amanuense
genere
pulp
Le strade illuminate dalla luna crescente e dalla fredda luce dei lampioni mostrano una realtà degradata, la notte accentua questa laida tristezza che di giorno si nasconde dietro il sole.
Ci sarebbe bisogno di maggiore attenzione da parte delle istituzioni, lasciare che si crescano qui dei figli è un crimine, che paga tutta la società.
Dopo aver camminato per venti minuti seguendo percorsi a me sconosciuti, arriviamo a ridosso di un enorme capannone sormontato da una grossa canna fumaria ormai spenta, qualche ciuffo d’erba nascosto tra lo scadente cemento, immondizia di vario genere ammucchiata su montagne di terra sporca della civiltà post-moderna.
“È questa la famosa centrale termica?” Chiedo mentre gli occhi vagano alla ricerca di punti di riferimento, che non trovo.
“Vieni” risponde mio figlio senza rallentare il passo.
S’infila in un corridoio tra un capanno e l’altro e raggiunge una piccola porta d’acciaio, bussa tre volte con lunghe pause, aspettiamo qualche secondo e infine ci apre un tizio basso e tarchiato con sopra la testa un ciuffo disordinato di capelli.
Indossa un giubbotto marrone, lurido e consunto, non dice una parola ma la sua faccia si muove in un ghigno che mi regala la certezza che conosca mio figlio, che dopo un “ciao” di circostanza entra nella pancia del capannone, lo seguo, incuriosita e impaurita da questa gente che non conosco, da questi luoghi a pochi minuti da casa mia dei quali ignoravo l’esistenza.
C’è di tutto qua dentro, vecchi macchinari ormai esausti, mobilia trascinata da chissà quale discarica, tende tirate in angoli bui, come un sipario con un palcoscenico, solo che mi vengono i brividi a pensare quale spettacolo si possa proiettare dietro le quinte.
Mio figlio sembra a suo agio, ho capito subito che non è la prima volta che viene qui, è conosciuto, non so se rispettato ma si muove con naturalezza, senza alcuna circospezione.
Camminiamo seguendo il tizio per un lungo corridoio ai lati del quale ci sono alti scaffali, come se questo fosse stato un archivio, o forse sopra ci tenevano delle attrezzature, difficile capirlo adesso, quello che è certo è che non mi piace l’atmosfera che si respira qui, questo silenzio è peggio del caos, là mi sentirei più al sicuro, il fatto che ci sia mio figlio non mi tranquillizza affatto, anzi, mi mette un’inquietudine maggiore.
Davanti a noi si apre uno spiazzo enorme, dove c’è un grande scranno sul quale siede una donna al centro e due ai lati.
Sono sorpresa, lo ammetto, questo non sembra un ambiente nel quale la femminilità possa moltiplicarsi, nè sopravvivere; mio figlio mi fa cenno di fermarmi, mi accosto a lui e smetto di guardarmi intorno, gli occhi incollati alla schiena del mio ragazzo, il suo trapezio è notevole, i fianchi stretti, i glutei sodi strizzati nei jeans, qualcosa si scioglie nelle mie mutandine, qui, in questo luogo freddo e inospitale, davanti ad una sorta di giudice donna, mi sto eccitando.
“Chi è la signora?” dice la donna sullo scranno.
Mio figlio si gira verso di me, mi prende per il braccio e mi fa fare qualche passo avanti, come a mostrarmi: “È mia madre Lilly”, lei scende dal suo sgabello, lentamente, con passi felini, mi raggiunge, la mia lingua sembra essersi ritirata dentro la mia bocca, la saliva azzerata, non riesco a dire nulla, ho un senso di nausea.
“Perché l’hai portata qui?” chiede Lilly e le parole che escono dalla bocca di mio figlio rimbalzano tra la mia testa ed il cuore.
“Per offrirtela” dice senza neppure guardarmi; la donna lo guarda e poi rivolge i suoi occhi di ghiaccio su di me:
“Sai cosa significa?”
“Si”.
“E lei, lo sa?”
“Lo scoprirà presto” risponde mio figlio.
“Questo è certo” conclude Lilly facendo un cenno ad ombre invisibili che si manifestano dietro di me afferrandomi per le braccia.
Ho paura senza sapere esattamente di cosa, cerco lo sguardo di mio figlio ma lui non si volta, chiamo il suo nome a voce sempre più alta mentre mi portano via, in fondo ad un corridoio buio e infine in una stanza grigia e vuota, illuminata da una lampada al neon, nella quale trova posto solo un letto di ferro ad una piazza, un cuscino e una coperta di lana marrone.
Sto piangendo di disperazione mentre mi spogliano nuda e assicurano polsi e caviglie con corde di nylon.
I loro volti impassibili mi fanno più paura che se parlassero, mi sento ridotta ad un mero oggetto, ma ancora non so cosa mi aspetta.
Mio figlio, lo stesso che ho portato in grembo per nove mesi, che ho cresciuto e che nelle ultime settimane ho aiutato a diventare uomo, mi ha abbandonata, nessuno sa che sono qui tranne lui, quando le mie assenze dal lavoro avranno raggiunto i due giorni, telefoneranno a casa e sarà costretto ad inventerà una scusa, loro saranno tranquilli e nessuno mi verrà a cercare, ma soprattutto, non ho idea di cosa sarà di me.
Non so come nè quando mi sono addormentata, l’endorfine sprigionate dalla resistenza fisica ed il ronzio della lampada mi hanno anestetizzato, le braccia e le gambe mi formicolano, i polsi e le caviglie mi dolgono, forse il sonno è stato solo una reazione al dolore, per evitare di sentirlo il mio corpo si è spento.
Qualcuno mi ha coperto perché qui si gela, tendo l’orecchio ma non sento niente.
Ho perso la cognizione temporale, potrei trovarmi qui da ore o giorni, non saprei dirlo, non ho alcun punto di riferimento e il sonno mi ha smarrito.
La porta si apre e mio figlio entra, è solo:
“Ciao mamma” mi dice con tono freddo.
“Ciao figlio mio, perché mi stai facendo questo?” le lacrime scendono solitarie e improvvise, come se qualcuno avesse aperto un invisibile rubinetto, la tensione si scioglie nei suoi occhi chiari, come quelli di suo padre, leggo sul suo volto che qualcosa lo turba, in questo momento ho la certezza che un peso grava sul suo cuore.
“Non avevo scelta, era l’unico modo che avevo” mormora mentre mi asciuga le lacrime.
“C’è sempre un rimedio, dimmi cosa hai fatto, troveremo la soluzione” lo imploro.
“Non questa volta, non con questa gente” sembra rassegnato, le sue parole lo sono, poi mi chiede: “Hai freddo, hai dolore?”
“Sono nuda e legata in questa maledetta stanza gelida, credi stia bene?” grido con tutta la rabbia che ho in corpo.
“Stasera sarà tutto finito” dice mentre mi rivolge un altro sguardo carico di colpa prima di voltarsi e uscire dalla porta, senza che abbia il tempo, la forza di replicare.
Dopo aver sentito la serratura scattare ripenso alle sue parole: “stasera sarà tutto finito”, allora la giornata non è ancora trascorsa del tutto, probabilmente la successiva al mio rapimento, ma è così importante?
Cerco di allontanare tutti i pensieri che mi vengono a trovare, sono i più diversi e torbidi ma nessuno probabilmente si avvicina alla realtà.
Credo di essermi di nuovo addormentata, non so per quanto tempo, le braccia e le gambe sono anchilosate, il sangue ristagna nelle membra intorpidite, il dolore è anestetizzato; sento la serratura scattare, entrano gli stessi uomini che mi hanno domata e legata qui, almeno mi sembrano loro, la vista è annebbiata dalla fame e dalla stanchezza, mi sciolgono i nodi afferrandomi per le spalle, mettendomi in piedi, ho un capogiro che quasi mi fa cadere, sento aghi di dolore che si conficcano nella carne, il sangue si rincorre di nuovo nelle vene, nel silenzio dei loro respiri e del mio affanno, nuda come sono mi portano fuori da questa stanza grigia, ho freddo.
Il corridoio buio è illuminato con regolarità da lampade al neon con quel loro fastidioso ronzio, che mi ha perforato il cervello in tutte quelle ore nelle quali sono rimasta su quel letto, credo che avrò problemi a stendermi ancora su un letto, almeno per qualche tempo, preferirò un morbido divano.
C’è come un ring dove sono ora, delle grosse corde perimetrano lo spazio, due gradini conducono sulla piattaforma approntata velocemente, quando i due cerberi mi ci portano sopra con accurata lentezza mi rendo conto che la sua superficie è molle, come quelli che si usano nel wrestling, dove si rimbalza per poi lanciarsi sull’avversario, la mia testa non riesce a ragionare: cosa ci faccio qua sopra, cosa vogliono da me, cosa intendeva mio figlio con quella frase?
Intorno comincio a vedere dei volti, che giungono dal buio fino al cono di luce nei quali posso scorgerli, sono molti e la mia nudità dimenticata fino ad allora adesso mi mette a disagio.
Mio figlio compare dopo pochi minuti, nei quali, ritrovata uno straccio di lucidità, mi sono rannicchiata sul pavimento celando il mio corpo agli occhi di quella platea che va sempre più aumentando.
La donna che sedeva sullo scranno, Lilly, fa la sua entrata, scortata da due ancelle, si siede su un trono improvvisato su una piattaforma che sa tanto di scenografia cinematografica; ecco, mi sento come se fossi l’attrice di un film e adesso che la regista è arrivata, lo spettacolo può cominciare.
Mio figlio deve essere il protagonista maschile, indossa un accappatoio e quando si muove serio e teso, vedo che sotto è nudo, non colgo subito la leggera erezione che spinge contro il tessuto e anche se adesso comincio a capire cosa debba accadere, ancora non riesco a mettere a fuoco tutta la situazione o forse, non voglio.
Lilly fa un cenno e il pubblico intorno al ring prende fuoco, le voci si alzano in una festante epifania, incitano mio figlio gridando il suo nome, lui sembra come in trance, scioglie l’accappatoio e il turgore che prima immaginavo adesso è dritto davanti a me; il suo pene, completamente scappellato, mi fissa col suo occhio.
Si avvicina e si sdraia accanto a me, non ho le forze per oppormi a nulla, le gambe sono molli, le braccia inconsistenti, mi bacia prima con dolcezza e poi con vigore, lasciando che le nostre lingue s’incontrino, la mano destra scorre il collo intorpidito per poi scendere sui fianchi, quindi è questo ciò che mi aspetta, un sacrificio sessuale davanti a questi volti sconosciuti di cui sento gli aliti e gli occhi puntati, ma dei quali non scorgo neppure un profilo.
In questo luogo lugubre e lercio, in questa condizione di schiava o prigioniera, dovrò concedermi totalmente a mio figlio; la testa è annebbiata, lo sguardo opaco, sto per svenire quando sento un frastuono che irrompe nel capannone, non riesco a vedere ancora nessuno ma sento voci che gridano, gente che corre in ogni direzione, alcuni passano sul ring, travolgendo mio figlio e rischiando di calpestarmi.
Un attimo prima di svenire definitivamente, vedo il volto familiare dell’allenatore di mio figlio, che pronuncia parole mute mentre mi afferra e mi copre con qualcosa di caldo, poi i miei sensi cedono e cado in un sonno profondo.
Sogno una stanza completamente bianca, illuminata da una grande finestra, un tavolino e due sedie, del tè con biscotti, io seduta e vestita con un abito color panna, davanti a mio figlio, finalmente sorridente, come non lo vedevo da giorni, mi versa la bevanda calda e mi parla, ma io non sento ciò che dice, fin quando non afferro una parola: Mamma! E allora le mie orecchie odono altri suoni, solo che aprendo gli occhi non mi trovo più in quella stanza ma nella mia camera da letto e seduto al mio fianco c’è mio figlio che ripete: Mamma!
“Si è svegliata” dice a qualcuno appostato sulla porta che però non riesco a vedere perché i miei occhi ancora non mettono a fuoco.
“È tutto a posto mamma, sei in salvo” aggiunge come se potessi sapere di cosa parla.
I miei viaggi ancora non sono finiti, mi sento stordita e stanca, il sonno mi rapisce per non so quanto tempo.
Sono nella mia camera, nel mio letto, apro gli occhi e riconosco tutto non appena mi abituo all’oscurità, il corpo è ancora dolente la testa è leggera ma mi sento riposata, stendo le gambe e allungo le braccia per sgranchirmi; mi giro e scorgo il profilo di mio figlio, dorme sul bordo del letto, come per lasciarmi più spazio, mi distendo e lo sfioro, sembra immerso in un sonno profondo, si è preso cura di me.
Gli carezzo la schiena muscolosa, poi mi avvicino e lo abbraccio con dolcezza, infilando il mento tra il collo e la spalla, la sua mano afferra il mio braccio portandoselo sul petto, sembra che dorma ma non ne sono certa, non dico nulla, il mio corpo aderisce al suo, sento che la mia mano viene indirizzata verso il suo ventre, scivola involontaria sul suo pene, lo afferra, un pezzo di carne dura e calda.
Guidata da lui inizio a masturbarlo, un lento movimento prodotto con cura, scappuccio il glande sfiorandolo col pollice e finisco la corsa carezzando lo scroto gonfio e liscio.
Il petto si abbassa e si alza, seguendo i miei movimenti, il respiro si accorcia ad ogni mio allungo, lo sento muoversi, si volta verso di me, mi schiaccia delicatamente contro il materasso, il peso del suo corpo su di me, la sua bocca raggiunge la mia, la lecca per poi introdurvisi con lenta decisione, con la mano destra divarica le cosce e affonda due dita dentro di me, sono pronta per riceverlo, lo afferro e lo guido a contatto col mio fodero, la sua spada entra senza sforzo arrivando fino in fondo, poi si ferma, il mio bacino si sistema intorno al suo, le gambe si sollevano contro i suoi reni, il primo colpo è profondo, lungo, mi toglie il fiato, ansimo mentre nascondo la testa nel suo petto glabro, il secondo mi trova già fradicia, lo sento scorrere via sensibile, il terzo, il quarto, il quinto, smetto di contare e abbandono la testa sul cuscino, mentre afferro i suoi glutei sodi, sento i muscoli guizzare imprimendo la forza necessaria per strapparmi dei gridolini adolescenziali che avevo dimenticato, quando sento gonfiarsi il sesso dentro di me, contraggo la fica e veniamo, insieme.
Le pareti della vagina annegano nel suo balsamo caldo, che sento scivolare fuori, sulle cosce, il rantolo che emette vicino al mio orecchio mi scalda il cuore, gli afferro la nuca e lo stringo a me, il mio ragazzo è diventato un uomo e io sono la sua donna, oltre che sua madre.
Molte ore dopo, seduti in cucina, guardando il sole sorgere, mi racconta di come la Polizia, avvertita dal suo allenatore, abbia fatto irruzione nella centrale e abbia arrestato tutta la banda di Lilly, di come lui fosse ricattato per una partita di droga che avrebbe dovuto smerciare e che invece si era fatto rubare dalla concorrenza, di come l’incubo sia finito e grazie all’aiuto del suo allenatore abbia intenzione di andarsene da là, trovare un altro posto dove vivere.
Non so se andrò con lui o se rimarrò qua, l’importante è che si metta in salvo, che scelga un’altra vita da vivere, lontano da questa merda che lo circonda.
Una nuova speranza.
Ci sarebbe bisogno di maggiore attenzione da parte delle istituzioni, lasciare che si crescano qui dei figli è un crimine, che paga tutta la società.
Dopo aver camminato per venti minuti seguendo percorsi a me sconosciuti, arriviamo a ridosso di un enorme capannone sormontato da una grossa canna fumaria ormai spenta, qualche ciuffo d’erba nascosto tra lo scadente cemento, immondizia di vario genere ammucchiata su montagne di terra sporca della civiltà post-moderna.
“È questa la famosa centrale termica?” Chiedo mentre gli occhi vagano alla ricerca di punti di riferimento, che non trovo.
“Vieni” risponde mio figlio senza rallentare il passo.
S’infila in un corridoio tra un capanno e l’altro e raggiunge una piccola porta d’acciaio, bussa tre volte con lunghe pause, aspettiamo qualche secondo e infine ci apre un tizio basso e tarchiato con sopra la testa un ciuffo disordinato di capelli.
Indossa un giubbotto marrone, lurido e consunto, non dice una parola ma la sua faccia si muove in un ghigno che mi regala la certezza che conosca mio figlio, che dopo un “ciao” di circostanza entra nella pancia del capannone, lo seguo, incuriosita e impaurita da questa gente che non conosco, da questi luoghi a pochi minuti da casa mia dei quali ignoravo l’esistenza.
C’è di tutto qua dentro, vecchi macchinari ormai esausti, mobilia trascinata da chissà quale discarica, tende tirate in angoli bui, come un sipario con un palcoscenico, solo che mi vengono i brividi a pensare quale spettacolo si possa proiettare dietro le quinte.
Mio figlio sembra a suo agio, ho capito subito che non è la prima volta che viene qui, è conosciuto, non so se rispettato ma si muove con naturalezza, senza alcuna circospezione.
Camminiamo seguendo il tizio per un lungo corridoio ai lati del quale ci sono alti scaffali, come se questo fosse stato un archivio, o forse sopra ci tenevano delle attrezzature, difficile capirlo adesso, quello che è certo è che non mi piace l’atmosfera che si respira qui, questo silenzio è peggio del caos, là mi sentirei più al sicuro, il fatto che ci sia mio figlio non mi tranquillizza affatto, anzi, mi mette un’inquietudine maggiore.
Davanti a noi si apre uno spiazzo enorme, dove c’è un grande scranno sul quale siede una donna al centro e due ai lati.
Sono sorpresa, lo ammetto, questo non sembra un ambiente nel quale la femminilità possa moltiplicarsi, nè sopravvivere; mio figlio mi fa cenno di fermarmi, mi accosto a lui e smetto di guardarmi intorno, gli occhi incollati alla schiena del mio ragazzo, il suo trapezio è notevole, i fianchi stretti, i glutei sodi strizzati nei jeans, qualcosa si scioglie nelle mie mutandine, qui, in questo luogo freddo e inospitale, davanti ad una sorta di giudice donna, mi sto eccitando.
“Chi è la signora?” dice la donna sullo scranno.
Mio figlio si gira verso di me, mi prende per il braccio e mi fa fare qualche passo avanti, come a mostrarmi: “È mia madre Lilly”, lei scende dal suo sgabello, lentamente, con passi felini, mi raggiunge, la mia lingua sembra essersi ritirata dentro la mia bocca, la saliva azzerata, non riesco a dire nulla, ho un senso di nausea.
“Perché l’hai portata qui?” chiede Lilly e le parole che escono dalla bocca di mio figlio rimbalzano tra la mia testa ed il cuore.
“Per offrirtela” dice senza neppure guardarmi; la donna lo guarda e poi rivolge i suoi occhi di ghiaccio su di me:
“Sai cosa significa?”
“Si”.
“E lei, lo sa?”
“Lo scoprirà presto” risponde mio figlio.
“Questo è certo” conclude Lilly facendo un cenno ad ombre invisibili che si manifestano dietro di me afferrandomi per le braccia.
Ho paura senza sapere esattamente di cosa, cerco lo sguardo di mio figlio ma lui non si volta, chiamo il suo nome a voce sempre più alta mentre mi portano via, in fondo ad un corridoio buio e infine in una stanza grigia e vuota, illuminata da una lampada al neon, nella quale trova posto solo un letto di ferro ad una piazza, un cuscino e una coperta di lana marrone.
Sto piangendo di disperazione mentre mi spogliano nuda e assicurano polsi e caviglie con corde di nylon.
I loro volti impassibili mi fanno più paura che se parlassero, mi sento ridotta ad un mero oggetto, ma ancora non so cosa mi aspetta.
Mio figlio, lo stesso che ho portato in grembo per nove mesi, che ho cresciuto e che nelle ultime settimane ho aiutato a diventare uomo, mi ha abbandonata, nessuno sa che sono qui tranne lui, quando le mie assenze dal lavoro avranno raggiunto i due giorni, telefoneranno a casa e sarà costretto ad inventerà una scusa, loro saranno tranquilli e nessuno mi verrà a cercare, ma soprattutto, non ho idea di cosa sarà di me.
Non so come nè quando mi sono addormentata, l’endorfine sprigionate dalla resistenza fisica ed il ronzio della lampada mi hanno anestetizzato, le braccia e le gambe mi formicolano, i polsi e le caviglie mi dolgono, forse il sonno è stato solo una reazione al dolore, per evitare di sentirlo il mio corpo si è spento.
Qualcuno mi ha coperto perché qui si gela, tendo l’orecchio ma non sento niente.
Ho perso la cognizione temporale, potrei trovarmi qui da ore o giorni, non saprei dirlo, non ho alcun punto di riferimento e il sonno mi ha smarrito.
La porta si apre e mio figlio entra, è solo:
“Ciao mamma” mi dice con tono freddo.
“Ciao figlio mio, perché mi stai facendo questo?” le lacrime scendono solitarie e improvvise, come se qualcuno avesse aperto un invisibile rubinetto, la tensione si scioglie nei suoi occhi chiari, come quelli di suo padre, leggo sul suo volto che qualcosa lo turba, in questo momento ho la certezza che un peso grava sul suo cuore.
“Non avevo scelta, era l’unico modo che avevo” mormora mentre mi asciuga le lacrime.
“C’è sempre un rimedio, dimmi cosa hai fatto, troveremo la soluzione” lo imploro.
“Non questa volta, non con questa gente” sembra rassegnato, le sue parole lo sono, poi mi chiede: “Hai freddo, hai dolore?”
“Sono nuda e legata in questa maledetta stanza gelida, credi stia bene?” grido con tutta la rabbia che ho in corpo.
“Stasera sarà tutto finito” dice mentre mi rivolge un altro sguardo carico di colpa prima di voltarsi e uscire dalla porta, senza che abbia il tempo, la forza di replicare.
Dopo aver sentito la serratura scattare ripenso alle sue parole: “stasera sarà tutto finito”, allora la giornata non è ancora trascorsa del tutto, probabilmente la successiva al mio rapimento, ma è così importante?
Cerco di allontanare tutti i pensieri che mi vengono a trovare, sono i più diversi e torbidi ma nessuno probabilmente si avvicina alla realtà.
Credo di essermi di nuovo addormentata, non so per quanto tempo, le braccia e le gambe sono anchilosate, il sangue ristagna nelle membra intorpidite, il dolore è anestetizzato; sento la serratura scattare, entrano gli stessi uomini che mi hanno domata e legata qui, almeno mi sembrano loro, la vista è annebbiata dalla fame e dalla stanchezza, mi sciolgono i nodi afferrandomi per le spalle, mettendomi in piedi, ho un capogiro che quasi mi fa cadere, sento aghi di dolore che si conficcano nella carne, il sangue si rincorre di nuovo nelle vene, nel silenzio dei loro respiri e del mio affanno, nuda come sono mi portano fuori da questa stanza grigia, ho freddo.
Il corridoio buio è illuminato con regolarità da lampade al neon con quel loro fastidioso ronzio, che mi ha perforato il cervello in tutte quelle ore nelle quali sono rimasta su quel letto, credo che avrò problemi a stendermi ancora su un letto, almeno per qualche tempo, preferirò un morbido divano.
C’è come un ring dove sono ora, delle grosse corde perimetrano lo spazio, due gradini conducono sulla piattaforma approntata velocemente, quando i due cerberi mi ci portano sopra con accurata lentezza mi rendo conto che la sua superficie è molle, come quelli che si usano nel wrestling, dove si rimbalza per poi lanciarsi sull’avversario, la mia testa non riesce a ragionare: cosa ci faccio qua sopra, cosa vogliono da me, cosa intendeva mio figlio con quella frase?
Intorno comincio a vedere dei volti, che giungono dal buio fino al cono di luce nei quali posso scorgerli, sono molti e la mia nudità dimenticata fino ad allora adesso mi mette a disagio.
Mio figlio compare dopo pochi minuti, nei quali, ritrovata uno straccio di lucidità, mi sono rannicchiata sul pavimento celando il mio corpo agli occhi di quella platea che va sempre più aumentando.
La donna che sedeva sullo scranno, Lilly, fa la sua entrata, scortata da due ancelle, si siede su un trono improvvisato su una piattaforma che sa tanto di scenografia cinematografica; ecco, mi sento come se fossi l’attrice di un film e adesso che la regista è arrivata, lo spettacolo può cominciare.
Mio figlio deve essere il protagonista maschile, indossa un accappatoio e quando si muove serio e teso, vedo che sotto è nudo, non colgo subito la leggera erezione che spinge contro il tessuto e anche se adesso comincio a capire cosa debba accadere, ancora non riesco a mettere a fuoco tutta la situazione o forse, non voglio.
Lilly fa un cenno e il pubblico intorno al ring prende fuoco, le voci si alzano in una festante epifania, incitano mio figlio gridando il suo nome, lui sembra come in trance, scioglie l’accappatoio e il turgore che prima immaginavo adesso è dritto davanti a me; il suo pene, completamente scappellato, mi fissa col suo occhio.
Si avvicina e si sdraia accanto a me, non ho le forze per oppormi a nulla, le gambe sono molli, le braccia inconsistenti, mi bacia prima con dolcezza e poi con vigore, lasciando che le nostre lingue s’incontrino, la mano destra scorre il collo intorpidito per poi scendere sui fianchi, quindi è questo ciò che mi aspetta, un sacrificio sessuale davanti a questi volti sconosciuti di cui sento gli aliti e gli occhi puntati, ma dei quali non scorgo neppure un profilo.
In questo luogo lugubre e lercio, in questa condizione di schiava o prigioniera, dovrò concedermi totalmente a mio figlio; la testa è annebbiata, lo sguardo opaco, sto per svenire quando sento un frastuono che irrompe nel capannone, non riesco a vedere ancora nessuno ma sento voci che gridano, gente che corre in ogni direzione, alcuni passano sul ring, travolgendo mio figlio e rischiando di calpestarmi.
Un attimo prima di svenire definitivamente, vedo il volto familiare dell’allenatore di mio figlio, che pronuncia parole mute mentre mi afferra e mi copre con qualcosa di caldo, poi i miei sensi cedono e cado in un sonno profondo.
Sogno una stanza completamente bianca, illuminata da una grande finestra, un tavolino e due sedie, del tè con biscotti, io seduta e vestita con un abito color panna, davanti a mio figlio, finalmente sorridente, come non lo vedevo da giorni, mi versa la bevanda calda e mi parla, ma io non sento ciò che dice, fin quando non afferro una parola: Mamma! E allora le mie orecchie odono altri suoni, solo che aprendo gli occhi non mi trovo più in quella stanza ma nella mia camera da letto e seduto al mio fianco c’è mio figlio che ripete: Mamma!
“Si è svegliata” dice a qualcuno appostato sulla porta che però non riesco a vedere perché i miei occhi ancora non mettono a fuoco.
“È tutto a posto mamma, sei in salvo” aggiunge come se potessi sapere di cosa parla.
I miei viaggi ancora non sono finiti, mi sento stordita e stanca, il sonno mi rapisce per non so quanto tempo.
Sono nella mia camera, nel mio letto, apro gli occhi e riconosco tutto non appena mi abituo all’oscurità, il corpo è ancora dolente la testa è leggera ma mi sento riposata, stendo le gambe e allungo le braccia per sgranchirmi; mi giro e scorgo il profilo di mio figlio, dorme sul bordo del letto, come per lasciarmi più spazio, mi distendo e lo sfioro, sembra immerso in un sonno profondo, si è preso cura di me.
Gli carezzo la schiena muscolosa, poi mi avvicino e lo abbraccio con dolcezza, infilando il mento tra il collo e la spalla, la sua mano afferra il mio braccio portandoselo sul petto, sembra che dorma ma non ne sono certa, non dico nulla, il mio corpo aderisce al suo, sento che la mia mano viene indirizzata verso il suo ventre, scivola involontaria sul suo pene, lo afferra, un pezzo di carne dura e calda.
Guidata da lui inizio a masturbarlo, un lento movimento prodotto con cura, scappuccio il glande sfiorandolo col pollice e finisco la corsa carezzando lo scroto gonfio e liscio.
Il petto si abbassa e si alza, seguendo i miei movimenti, il respiro si accorcia ad ogni mio allungo, lo sento muoversi, si volta verso di me, mi schiaccia delicatamente contro il materasso, il peso del suo corpo su di me, la sua bocca raggiunge la mia, la lecca per poi introdurvisi con lenta decisione, con la mano destra divarica le cosce e affonda due dita dentro di me, sono pronta per riceverlo, lo afferro e lo guido a contatto col mio fodero, la sua spada entra senza sforzo arrivando fino in fondo, poi si ferma, il mio bacino si sistema intorno al suo, le gambe si sollevano contro i suoi reni, il primo colpo è profondo, lungo, mi toglie il fiato, ansimo mentre nascondo la testa nel suo petto glabro, il secondo mi trova già fradicia, lo sento scorrere via sensibile, il terzo, il quarto, il quinto, smetto di contare e abbandono la testa sul cuscino, mentre afferro i suoi glutei sodi, sento i muscoli guizzare imprimendo la forza necessaria per strapparmi dei gridolini adolescenziali che avevo dimenticato, quando sento gonfiarsi il sesso dentro di me, contraggo la fica e veniamo, insieme.
Le pareti della vagina annegano nel suo balsamo caldo, che sento scivolare fuori, sulle cosce, il rantolo che emette vicino al mio orecchio mi scalda il cuore, gli afferro la nuca e lo stringo a me, il mio ragazzo è diventato un uomo e io sono la sua donna, oltre che sua madre.
Molte ore dopo, seduti in cucina, guardando il sole sorgere, mi racconta di come la Polizia, avvertita dal suo allenatore, abbia fatto irruzione nella centrale e abbia arrestato tutta la banda di Lilly, di come lui fosse ricattato per una partita di droga che avrebbe dovuto smerciare e che invece si era fatto rubare dalla concorrenza, di come l’incubo sia finito e grazie all’aiuto del suo allenatore abbia intenzione di andarsene da là, trovare un altro posto dove vivere.
Non so se andrò con lui o se rimarrò qua, l’importante è che si metta in salvo, che scelga un’altra vita da vivere, lontano da questa merda che lo circonda.
Una nuova speranza.
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