Notte sospesa…
di
barbara2000
genere
confessioni
Non ricordo bene quante vodka lemon ho bevuto. Forse tre. Forse quattro. Di sicuro abbastanza da sentirmi leggera, calda, diversa.
Io e Chiara ridevamo di niente, ballando strette in mezzo a corpi sconosciuti, mentre il DJ mandava a tutto volume vecchie hit remixate. Milano sembrava improvvisamente meno distante da me, e io… meno fedele a me stessa.
Quando siamo uscite dal locale, ci siamo aggrappate l’una all’altra, un po’ per l’alcol, un po’ per il freddo, e abbiamo chiamato un taxi.
È arrivato quasi subito. Una macchina scura, un po’ vissuta. Al volante, un uomo sulla cinquantina. Capelli lunghi, radi. Sguardo stanco, voce roca. Un tipo qualunque, di quelli che ti aspetti alle tre di notte. O forse no.
Chiara è salita davanti. Io dietro. E dopo pochi minuti lui ha iniziato a parlare.
“Le due di prima… Dio mio. Ubriache fradicie. Maleducate. Sai che ti dico? A certa gente non dovresti nemmeno far pagare il taxi… Dovrebbero sdebitarsi in altri modi.”
Rideva da solo, una risata greve, lenta.
“Un bel pompino, e via.”
Mi si è gelato lo stomaco per un attimo. Chiara si è voltata verso di me con occhi larghi. Mi ha lanciato uno sguardo breve ma chiaro. Il genere di sguardo che si traduce in “stai attenta” senza bisogno di parole.
Mi sono limitata a guardare fuori dal finestrino, cercando di ignorare il battito accelerato del cuore.
Abbiamo lasciato Chiara sotto casa sua. Lei ha esitato prima di scendere, mi ha sussurrato:
“Scrivimi quando arrivi.”
Ho annuito. La portiera si è chiusa. E io sono rimasta sola con lui.
Silenzio.
Poi la sua voce, più bassa.
“Scusami per prima. Non avrei dovuto parlare così davanti a voi. È stato uno sfogo stupido. Giornata pesante.”
Non so perché, ma ho sorriso.
“Forse un po’ troppo pesante.”
Lui ha riso piano. “Già. Ma non è una scusa.”
Si è voltato un secondo, solo con gli occhi, poi ha guardato di nuovo la strada.
“Hai l’accento del sud.”
“Sono di Napoli.”
“E che ci fai qui, in mezzo alla nebbia?”
“Studio. E cerco di capirmi.”
Le sue sopracciglia si sono alzate leggermente.
“Capirti?”
“Sì. Milano mi fa sentire diversa. Non so se è un bene o un male.”
Lui ha annuito, senza dire nulla per un po’. Poi:
“A me Milano ha tolto qualcosa. Ma mi ha anche insegnato a stare da solo. Da troppo tempo, forse.”
“Non sei sposato?”
“No. Mai stato bravo con le regole.”
La conversazione era scivolata via, naturale, come un fiume in piena. E io, invece di sentirmi a disagio, mi sentivo… viva.
Forse era l’alcol. O forse era il modo in cui mi guardava nello specchietto retrovisore, senza insistenza ma con una certa attenzione che non conoscevo.
Quando siamo arrivati sotto casa, si è girato un po’ verso di me.
“Se ti capita di uscire tardi, o non vuoi tornare da sola, chiamami. Niente corsa. Solo compagnia.”
Mi ha dato un biglietto da visita, vecchio e spiegazzato. C’era scritto solo il nome: “Vittorio”, e un numero.
Ho ringraziato con un filo di voce. Il cuore mi batteva in gola.
⸻
Una volta a casa, ho fissato il soffitto per venti minuti. Il buio mi sembrava troppo acceso. Il silenzio, assordante. E poi ho fatto una cosa che non avevo mai fatto prima.
Ho preso il cellulare. Ho cercato quel nome.
Vittorio.
“Sei ancora in giro?”
La risposta è arrivata subito.
“Sì. Che succede?”
“Mi va di fare un altro giro. Di notte. Milano mi fa paura, ma anche un po’ eccitazione. Ti va una birra in auto?”
“Ti passo a prendere.”
⸻
Salgo sulla macchina. È tutto uguale a prima, ma io mi sento diversa. La pelle mi brucia, ma non fa caldo.
Lui guida senza dire nulla. Poi, dopo qualche minuto:
“Stai bene?”
“Sì. Mi sento… fuori da me.”
“Fuori da te ti sta bene.”
Parcheggiamo lungo una strada semi-deserta, in cima a una collinetta da cui si vede la città.
Luci ovattate, lontane, come stelle che non ho mai toccato.
Lui apre due birre. Me ne porge una.
“Alla notte.”
“To the night,” rispondo io, e ridiamo entrambi.
Parliamo. Di tutto. Di niente. Della sua vita, della mia. Del mio fidanzato che mi ama e che non mi conosce davvero.
“E tu lo conosci?”
“Non lo so più.”
Vittorio non prova a toccarmi. Non è invadente. Ma ogni parola tra noi è carica. Ogni pausa è un invito. Ogni risata, un passo più vicino.
Mi scopro a guardargli le mani. Forti. Ruvide. Mani di chi lavora, di chi sa cosa vuole.
Mi ascolta. E io, senza volerlo, sto già cedendo.
Quando poso la birra sul cruscotto, mi volto lentamente verso di lui.
Lui mi guarda, senza domande. Come se stesse aspettando qualcosa che solo io posso decidere.
La mia voce è un sussurro.
“Vittorio…”
“Dimmi.”
“Trova un posto nascosto.”
Non serve aggiungere altro.
La macchina sobbalza leggermente mentre lascia l’asfalto più illuminato per infilarsi in una stradina laterale. Alberi ai lati. Nessun lampione. Solo la luce debole dei fari che danza sui tronchi.
Sento il cuore che accelera. Ma non è paura. È un’attesa piena. È come stare in bilico tra ciò che sei stata… e ciò che potresti diventare.
Parcheggia vicino a una specie di piazzola. Spegne il motore. Lascia solo la radio accesa, a volume bassissimo. Una voce jazz, lontana, calda.
Nessuno parla.
Nessuno deve farlo.
Mi guarda. Io lo guardo.
Il silenzio è rotto solo dal rumore della mia mano che apre lentamente la fibbia della cintura. Non la sua. La mia. Ma anche così, sembra già un gesto carico, quasi teatrale.
Mi sposto verso di lui, sul sedile. Non lo tocco. Ma il mio ginocchio sfiora il suo.
“Posso?” chiedo, come se fosse ancora necessario.
Lui annuisce piano, come se sapesse che non era una domanda.
Mi avvicino ancora, guidata da un desiderio che non riesco più a fingere di non avere. Le sue mani restano sulle gambe, ferme, aperte. Non fa nulla. Mi lascia fare. Ed è questo che mi manda fuori di testa.
Sento l’odore della sua pelle — leggermente acre, maschile, vissuto. Una miscela di notte, strada e qualcosa di più profondo.
Mi chino su di lui.
I minuti diventano fluidi. I miei pensieri si spengono uno ad uno.
Mi sento piccola. Ma non in modo fragile.
Piccola come chi si arrende a un’urgenza più grande. Come chi smette di controllarsi, finalmente.
Lui non parla. Ma ogni suo respiro è un messaggio. Ogni mano che si muove appena è una concessione, un ringraziamento, una resa anche sua.
Nel buio, sento di aver attraversato qualcosa.
Un confine. Un muro. O forse me stessa.
Quando mi risistemo, quando risalgo sul mio lato del sedile, non dico nulla. Ma lui mi guarda, e sorride. È un sorriso stanco, eppure fiero.
Lo stesso che immagino abbia quando riesce a orientarsi in una Milano caotica, senza usare il navigatore. Come se avesse ritrovato una strada nota.
Anche io ho trovato la mia.
“Non sei più la ragazza di prima,” dice piano.
Lo guardo, sorrido appena.
“Nemmeno tu.”
Poi, mentre la radio passa a una vecchia canzone italiana d’amore — una di quelle che a Napoli si sentono la domenica mattina dalle cucine — ci guardiamo senza imbarazzo.
Il silenzio adesso è complice, morbido. Quello che segue i gesti veri, non le parole.
Mi riaccompagna a casa. Quando scendo, non mi chiede se ci rivedremo.
Perché lo sa.
E io, mentre salgo in ascensore e mi guardo nello specchio con i capelli spettinati e le labbra ancora gonfie di qualcosa che non è solo desiderio, capisco che qualcosa dentro di me si è svegliato.
Non sono più solo la ragazza con un fidanzato giù al sud.
Sono Barbara.
Una donna.
Una notte.
Un segreto.
Io e Chiara ridevamo di niente, ballando strette in mezzo a corpi sconosciuti, mentre il DJ mandava a tutto volume vecchie hit remixate. Milano sembrava improvvisamente meno distante da me, e io… meno fedele a me stessa.
Quando siamo uscite dal locale, ci siamo aggrappate l’una all’altra, un po’ per l’alcol, un po’ per il freddo, e abbiamo chiamato un taxi.
È arrivato quasi subito. Una macchina scura, un po’ vissuta. Al volante, un uomo sulla cinquantina. Capelli lunghi, radi. Sguardo stanco, voce roca. Un tipo qualunque, di quelli che ti aspetti alle tre di notte. O forse no.
Chiara è salita davanti. Io dietro. E dopo pochi minuti lui ha iniziato a parlare.
“Le due di prima… Dio mio. Ubriache fradicie. Maleducate. Sai che ti dico? A certa gente non dovresti nemmeno far pagare il taxi… Dovrebbero sdebitarsi in altri modi.”
Rideva da solo, una risata greve, lenta.
“Un bel pompino, e via.”
Mi si è gelato lo stomaco per un attimo. Chiara si è voltata verso di me con occhi larghi. Mi ha lanciato uno sguardo breve ma chiaro. Il genere di sguardo che si traduce in “stai attenta” senza bisogno di parole.
Mi sono limitata a guardare fuori dal finestrino, cercando di ignorare il battito accelerato del cuore.
Abbiamo lasciato Chiara sotto casa sua. Lei ha esitato prima di scendere, mi ha sussurrato:
“Scrivimi quando arrivi.”
Ho annuito. La portiera si è chiusa. E io sono rimasta sola con lui.
Silenzio.
Poi la sua voce, più bassa.
“Scusami per prima. Non avrei dovuto parlare così davanti a voi. È stato uno sfogo stupido. Giornata pesante.”
Non so perché, ma ho sorriso.
“Forse un po’ troppo pesante.”
Lui ha riso piano. “Già. Ma non è una scusa.”
Si è voltato un secondo, solo con gli occhi, poi ha guardato di nuovo la strada.
“Hai l’accento del sud.”
“Sono di Napoli.”
“E che ci fai qui, in mezzo alla nebbia?”
“Studio. E cerco di capirmi.”
Le sue sopracciglia si sono alzate leggermente.
“Capirti?”
“Sì. Milano mi fa sentire diversa. Non so se è un bene o un male.”
Lui ha annuito, senza dire nulla per un po’. Poi:
“A me Milano ha tolto qualcosa. Ma mi ha anche insegnato a stare da solo. Da troppo tempo, forse.”
“Non sei sposato?”
“No. Mai stato bravo con le regole.”
La conversazione era scivolata via, naturale, come un fiume in piena. E io, invece di sentirmi a disagio, mi sentivo… viva.
Forse era l’alcol. O forse era il modo in cui mi guardava nello specchietto retrovisore, senza insistenza ma con una certa attenzione che non conoscevo.
Quando siamo arrivati sotto casa, si è girato un po’ verso di me.
“Se ti capita di uscire tardi, o non vuoi tornare da sola, chiamami. Niente corsa. Solo compagnia.”
Mi ha dato un biglietto da visita, vecchio e spiegazzato. C’era scritto solo il nome: “Vittorio”, e un numero.
Ho ringraziato con un filo di voce. Il cuore mi batteva in gola.
⸻
Una volta a casa, ho fissato il soffitto per venti minuti. Il buio mi sembrava troppo acceso. Il silenzio, assordante. E poi ho fatto una cosa che non avevo mai fatto prima.
Ho preso il cellulare. Ho cercato quel nome.
Vittorio.
“Sei ancora in giro?”
La risposta è arrivata subito.
“Sì. Che succede?”
“Mi va di fare un altro giro. Di notte. Milano mi fa paura, ma anche un po’ eccitazione. Ti va una birra in auto?”
“Ti passo a prendere.”
⸻
Salgo sulla macchina. È tutto uguale a prima, ma io mi sento diversa. La pelle mi brucia, ma non fa caldo.
Lui guida senza dire nulla. Poi, dopo qualche minuto:
“Stai bene?”
“Sì. Mi sento… fuori da me.”
“Fuori da te ti sta bene.”
Parcheggiamo lungo una strada semi-deserta, in cima a una collinetta da cui si vede la città.
Luci ovattate, lontane, come stelle che non ho mai toccato.
Lui apre due birre. Me ne porge una.
“Alla notte.”
“To the night,” rispondo io, e ridiamo entrambi.
Parliamo. Di tutto. Di niente. Della sua vita, della mia. Del mio fidanzato che mi ama e che non mi conosce davvero.
“E tu lo conosci?”
“Non lo so più.”
Vittorio non prova a toccarmi. Non è invadente. Ma ogni parola tra noi è carica. Ogni pausa è un invito. Ogni risata, un passo più vicino.
Mi scopro a guardargli le mani. Forti. Ruvide. Mani di chi lavora, di chi sa cosa vuole.
Mi ascolta. E io, senza volerlo, sto già cedendo.
Quando poso la birra sul cruscotto, mi volto lentamente verso di lui.
Lui mi guarda, senza domande. Come se stesse aspettando qualcosa che solo io posso decidere.
La mia voce è un sussurro.
“Vittorio…”
“Dimmi.”
“Trova un posto nascosto.”
Non serve aggiungere altro.
La macchina sobbalza leggermente mentre lascia l’asfalto più illuminato per infilarsi in una stradina laterale. Alberi ai lati. Nessun lampione. Solo la luce debole dei fari che danza sui tronchi.
Sento il cuore che accelera. Ma non è paura. È un’attesa piena. È come stare in bilico tra ciò che sei stata… e ciò che potresti diventare.
Parcheggia vicino a una specie di piazzola. Spegne il motore. Lascia solo la radio accesa, a volume bassissimo. Una voce jazz, lontana, calda.
Nessuno parla.
Nessuno deve farlo.
Mi guarda. Io lo guardo.
Il silenzio è rotto solo dal rumore della mia mano che apre lentamente la fibbia della cintura. Non la sua. La mia. Ma anche così, sembra già un gesto carico, quasi teatrale.
Mi sposto verso di lui, sul sedile. Non lo tocco. Ma il mio ginocchio sfiora il suo.
“Posso?” chiedo, come se fosse ancora necessario.
Lui annuisce piano, come se sapesse che non era una domanda.
Mi avvicino ancora, guidata da un desiderio che non riesco più a fingere di non avere. Le sue mani restano sulle gambe, ferme, aperte. Non fa nulla. Mi lascia fare. Ed è questo che mi manda fuori di testa.
Sento l’odore della sua pelle — leggermente acre, maschile, vissuto. Una miscela di notte, strada e qualcosa di più profondo.
Mi chino su di lui.
I minuti diventano fluidi. I miei pensieri si spengono uno ad uno.
Mi sento piccola. Ma non in modo fragile.
Piccola come chi si arrende a un’urgenza più grande. Come chi smette di controllarsi, finalmente.
Lui non parla. Ma ogni suo respiro è un messaggio. Ogni mano che si muove appena è una concessione, un ringraziamento, una resa anche sua.
Nel buio, sento di aver attraversato qualcosa.
Un confine. Un muro. O forse me stessa.
Quando mi risistemo, quando risalgo sul mio lato del sedile, non dico nulla. Ma lui mi guarda, e sorride. È un sorriso stanco, eppure fiero.
Lo stesso che immagino abbia quando riesce a orientarsi in una Milano caotica, senza usare il navigatore. Come se avesse ritrovato una strada nota.
Anche io ho trovato la mia.
“Non sei più la ragazza di prima,” dice piano.
Lo guardo, sorrido appena.
“Nemmeno tu.”
Poi, mentre la radio passa a una vecchia canzone italiana d’amore — una di quelle che a Napoli si sentono la domenica mattina dalle cucine — ci guardiamo senza imbarazzo.
Il silenzio adesso è complice, morbido. Quello che segue i gesti veri, non le parole.
Mi riaccompagna a casa. Quando scendo, non mi chiede se ci rivedremo.
Perché lo sa.
E io, mentre salgo in ascensore e mi guardo nello specchio con i capelli spettinati e le labbra ancora gonfie di qualcosa che non è solo desiderio, capisco che qualcosa dentro di me si è svegliato.
Non sono più solo la ragazza con un fidanzato giù al sud.
Sono Barbara.
Una donna.
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