Notte sospesa- Puntata 2 Il lago nero
di
barbara2000
genere
confessioni
Quando ho visto il suo nome comparire sullo schermo, mi è mancato un battito.
Stefano.
Tre anni di chat. Tre anni di messaggi che iniziavano innocui e finivano in confessioni sussurrate, scritte con dita che tremavano.
Per anni avevo sempre trovato una scusa.
E adesso, invece, ero io a dire sì.
“Sabato sera. Lago di Como. Ti porto a cena. Voglio che tu venga vestita così: camicia bianca, qualche bottone aperto. Truccati solo gli occhi. Capelli raccolti. Minigonna di pelle nera. Stivali alti.”
Non era una domanda.
E io non l’ho vissuta come un ordine, ma come un invito a entrare in un ruolo che, in fondo, era sempre stato mio.
Ho scritto solo: “Va bene.”
⸻
Il viaggio in treno verso Como è stato un limbo.
Fuori, il paesaggio cambiava lentamente, ma dentro di me era come se tutto stesse accelerando.
Ripensavo a Vittorio, al sedile di quella macchina, al mio respiro spezzato. Da quella notte, non ero più la stessa.
Non avevo lasciato il mio ragazzo, eppure sentivo di non appartenere più a quella vita ordinata e prevedibile.
Stefano mi aspettava davanti al ristorante, in riva al lago.
Era alto, spalle larghe, giacca scura. Capelli brizzolati, corti. Occhi scuri, profondi.
La voce… la voce era esattamente come l’avevo immaginata in tutte quelle notti di messaggi: bassa, ferma, quasi un comando.
“Barbara.”
Ha pronunciato il mio nome come se lo possedesse.
Non mi ha baciata. Non mi ha stretto la mano.
Ha solo posato la sua sulla mia schiena, guidandomi verso il tavolo che aveva già scelto.
Vista lago. Lontano dagli altri.
⸻
“Girati verso di me,” ha detto appena ci siamo seduti.
Ho obbedito.
I suoi occhi sono scesi sulla mia camicia, poi alle mie gambe.
“Brava. Così ti voglio.”
Ho sentito il calore salirmi al viso.
“Ti senti a disagio?”
“No… anzi.”
“Bene. Perché voglio che tu ti ricordi che stasera sei mia.”
⸻
La cena è stata un gioco lento, studiato.
Il vino rosso scendeva come una carezza calda. Lui parlava poco, ma ogni parola era scelta con precisione chirurgica.
“Da quanto tempo aspetti questa sera?” mi ha chiesto.
“Da sempre.”
“E allora non farmi aspettare troppo.”
Ogni volta che il cameriere si avvicinava, Stefano abbassava la voce.
“Accavalla le gambe. Più lentamente.”
“Appoggia il gomito sul tavolo e guardami negli occhi mentre bevi.”
“Non abbassare lo sguardo, mai.”
Non c’era nulla di fisicamente esplicito in quei gesti. Ma il mio corpo li sentiva tutti.
Mi stava spogliando con i comandi. Mi stava legando senza corde.
⸻
Dopo il dolce, si è alzato e ha preso la mia mano.
“Andiamo.”
“Dove?”
“Non fare domande inutili.”
Abbiamo camminato lungo il lago. L’acqua era nera, punteggiata di riflessi. La sua mano era ferma sulla mia schiena, come un peso e una protezione insieme.
Davanti a un piccolo albergo elegante, si è fermato.
“Ho una camera qui.”
Il mio cuore ha perso il passo.
Non ho risposto.
Non serviva.
⸻
La stanza era calda, illuminata da una sola lampada vicino al letto.
Lui si è tolto la giacca e l’ha poggiata sulla sedia.
“Chiudi la porta.”
L’ho fatto. Lentamente.
Quando mi sono voltata, era già davanti a me.
Ha preso il mio viso tra le mani, senza fretta, studiandomi.
“Finalmente,” ha detto.
Non c’è stato nessun bacio immediato, nessuna corsa.
Stefano mi ha fatto stare in piedi davanti a lui, senza muovermi, mentre apriva uno a uno i bottoni della mia camicia.
“Guarda me,” diceva.
Ogni volta che i miei occhi scivolavano via, mi richiamava indietro con un “No. Qui.”
Le sue mani erano calde, forti. Non c’era fretta, ma c’era decisione.
Sentivo che in quella stanza non dovevo pensare, non dovevo scegliere.
Dovevo solo essere.
⸻
Quando finalmente le sue labbra hanno sfiorato le mie, è stato come rompere una diga.
Il bacio era profondo, sicuro. Come se mi conoscesse da sempre.
E io mi sono lasciata andare.
Mi ha guidata verso il letto, sempre mantenendo il contatto con una mano o con lo sguardo.
Mi muoveva come un direttore muove un’orchestra: senza urlare, ma senza mai perdere il controllo.
Ogni gesto era un “io so”, e ogni mio respiro era un “sì”.
⸻
Non ricordo quanto tempo sia passato.
Ricordo solo la sensazione di appartenergli, di essere completamente nel ruolo che avevo sempre desiderato, ma mai vissuto.
La sua voce, ferma, mi diceva cosa fare, come muovermi, come guardarlo.
E io obbedivo, felice di obbedire.
Non era debolezza.
Era libertà.
⸻
Quando tutto si è fermato, ero distesa accanto a lui, il respiro ancora irregolare.
Lui mi osservava, un braccio dietro la testa.
“Adesso sai cosa vuol dire,” ha detto.
“Cosa?”
“Non essere più una brava ragazza.”
Ho sorriso, stanca e piena.
“Forse non lo sono mai stata.”
Lui ha riso piano. “No. Ma adesso lo sai anche tu.”
⸻
Quando ho lasciato l’albergo, il lago era calmo, immobile.
Il mio telefono vibrava in tasca: messaggi del mio ragazzo, di Chiara.
Non li ho aperti.
Ho solo stretto il cappotto attorno a me e ho sentito che quella notte, come quella con Vittorio, aveva cambiato ancora qualcosa.
Non ero più la stessa Barbara che era salita sul treno quel pomeriggio.
E non avevo alcuna intenzione di tornare indietro.
Stefano.
Tre anni di chat. Tre anni di messaggi che iniziavano innocui e finivano in confessioni sussurrate, scritte con dita che tremavano.
Per anni avevo sempre trovato una scusa.
E adesso, invece, ero io a dire sì.
“Sabato sera. Lago di Como. Ti porto a cena. Voglio che tu venga vestita così: camicia bianca, qualche bottone aperto. Truccati solo gli occhi. Capelli raccolti. Minigonna di pelle nera. Stivali alti.”
Non era una domanda.
E io non l’ho vissuta come un ordine, ma come un invito a entrare in un ruolo che, in fondo, era sempre stato mio.
Ho scritto solo: “Va bene.”
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Il viaggio in treno verso Como è stato un limbo.
Fuori, il paesaggio cambiava lentamente, ma dentro di me era come se tutto stesse accelerando.
Ripensavo a Vittorio, al sedile di quella macchina, al mio respiro spezzato. Da quella notte, non ero più la stessa.
Non avevo lasciato il mio ragazzo, eppure sentivo di non appartenere più a quella vita ordinata e prevedibile.
Stefano mi aspettava davanti al ristorante, in riva al lago.
Era alto, spalle larghe, giacca scura. Capelli brizzolati, corti. Occhi scuri, profondi.
La voce… la voce era esattamente come l’avevo immaginata in tutte quelle notti di messaggi: bassa, ferma, quasi un comando.
“Barbara.”
Ha pronunciato il mio nome come se lo possedesse.
Non mi ha baciata. Non mi ha stretto la mano.
Ha solo posato la sua sulla mia schiena, guidandomi verso il tavolo che aveva già scelto.
Vista lago. Lontano dagli altri.
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“Girati verso di me,” ha detto appena ci siamo seduti.
Ho obbedito.
I suoi occhi sono scesi sulla mia camicia, poi alle mie gambe.
“Brava. Così ti voglio.”
Ho sentito il calore salirmi al viso.
“Ti senti a disagio?”
“No… anzi.”
“Bene. Perché voglio che tu ti ricordi che stasera sei mia.”
⸻
La cena è stata un gioco lento, studiato.
Il vino rosso scendeva come una carezza calda. Lui parlava poco, ma ogni parola era scelta con precisione chirurgica.
“Da quanto tempo aspetti questa sera?” mi ha chiesto.
“Da sempre.”
“E allora non farmi aspettare troppo.”
Ogni volta che il cameriere si avvicinava, Stefano abbassava la voce.
“Accavalla le gambe. Più lentamente.”
“Appoggia il gomito sul tavolo e guardami negli occhi mentre bevi.”
“Non abbassare lo sguardo, mai.”
Non c’era nulla di fisicamente esplicito in quei gesti. Ma il mio corpo li sentiva tutti.
Mi stava spogliando con i comandi. Mi stava legando senza corde.
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Dopo il dolce, si è alzato e ha preso la mia mano.
“Andiamo.”
“Dove?”
“Non fare domande inutili.”
Abbiamo camminato lungo il lago. L’acqua era nera, punteggiata di riflessi. La sua mano era ferma sulla mia schiena, come un peso e una protezione insieme.
Davanti a un piccolo albergo elegante, si è fermato.
“Ho una camera qui.”
Il mio cuore ha perso il passo.
Non ho risposto.
Non serviva.
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La stanza era calda, illuminata da una sola lampada vicino al letto.
Lui si è tolto la giacca e l’ha poggiata sulla sedia.
“Chiudi la porta.”
L’ho fatto. Lentamente.
Quando mi sono voltata, era già davanti a me.
Ha preso il mio viso tra le mani, senza fretta, studiandomi.
“Finalmente,” ha detto.
Non c’è stato nessun bacio immediato, nessuna corsa.
Stefano mi ha fatto stare in piedi davanti a lui, senza muovermi, mentre apriva uno a uno i bottoni della mia camicia.
“Guarda me,” diceva.
Ogni volta che i miei occhi scivolavano via, mi richiamava indietro con un “No. Qui.”
Le sue mani erano calde, forti. Non c’era fretta, ma c’era decisione.
Sentivo che in quella stanza non dovevo pensare, non dovevo scegliere.
Dovevo solo essere.
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Quando finalmente le sue labbra hanno sfiorato le mie, è stato come rompere una diga.
Il bacio era profondo, sicuro. Come se mi conoscesse da sempre.
E io mi sono lasciata andare.
Mi ha guidata verso il letto, sempre mantenendo il contatto con una mano o con lo sguardo.
Mi muoveva come un direttore muove un’orchestra: senza urlare, ma senza mai perdere il controllo.
Ogni gesto era un “io so”, e ogni mio respiro era un “sì”.
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Non ricordo quanto tempo sia passato.
Ricordo solo la sensazione di appartenergli, di essere completamente nel ruolo che avevo sempre desiderato, ma mai vissuto.
La sua voce, ferma, mi diceva cosa fare, come muovermi, come guardarlo.
E io obbedivo, felice di obbedire.
Non era debolezza.
Era libertà.
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Quando tutto si è fermato, ero distesa accanto a lui, il respiro ancora irregolare.
Lui mi osservava, un braccio dietro la testa.
“Adesso sai cosa vuol dire,” ha detto.
“Cosa?”
“Non essere più una brava ragazza.”
Ho sorriso, stanca e piena.
“Forse non lo sono mai stata.”
Lui ha riso piano. “No. Ma adesso lo sai anche tu.”
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Quando ho lasciato l’albergo, il lago era calmo, immobile.
Il mio telefono vibrava in tasca: messaggi del mio ragazzo, di Chiara.
Non li ho aperti.
Ho solo stretto il cappotto attorno a me e ho sentito che quella notte, come quella con Vittorio, aveva cambiato ancora qualcosa.
Non ero più la stessa Barbara che era salita sul treno quel pomeriggio.
E non avevo alcuna intenzione di tornare indietro.
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